Ha invitato i compagni ad alzarsi dai banchi, a formare un cerchio e a prendersi per mano. “Quando il prof. darà il via inizieremo a camminare per l’aula, poi il prof. batterà le mani e alla prima persona che avremo davanti daremo la mano dicendo “Piacere!” e il nostro nome, lei risponderà col suo. A quel punto però noi assumeremo il suo nome e ci presenteremo alla persona successiva con quell’identità, lei farà altrettanto, e così via. Quando troveremo qualcuno che ci dirà il nostro nome ci siederemo.” Il gioco prende il via e alla fine C. chiede “Quanti hanno fatto confusione almeno una volta? Quanti hanno incontrato qualcuno che ha detto “Oh Dio, non mi ricordo!”… La prima volta che ho fatto quest’attività ero a un corso di teatro, e sono partita convinta che la cosa importante fosse dare il mio messaggio. Ecco, spesso quando parliamo con gli altri tendiamo molto a buttare fuori quello che abbiamo dentro senza ascoltare quello che l’altro ci dice anche con sguardi e gesti. Penso che questo giochino ci faccia capire quanto siamo ignoranti su quello che ci dicono le altre persone.” Questa è stata la gemma di C. (classe quarta).
Nel libro “L’incosciente” di Diego Cugia c’è un brano che mi piace molto. Vi si parla di un rapporto che sarebbe potuto essere quello che non è stato a causa di un’incomprensione comunicativa. Non è breve, ma neppure tanto lungo…
“«Da giorni ti stavo appresso, “ragazzo infedele che di notte ti ho sognato”. Hai più ascoltato il nostro lied? Ti seguii dal momento dopo che ci presentarono all’Hotel du Casino in Piace de Clichy, al ricevimento delle Totali. Se di giorno tu uscivi dall’ufficio a comprare le sigarette, io ero lì, davanti alla vetrina, sul marciapiedi di fronte; quando passeggiavi per Parigi parlando da solo, cercavo di attira re la tua attenzione in modo discreto, precedendoti in un bar, o montando su un taxi e lasciando la portiera bene aperta; mi spinsi, certe notti, ad aspettarti in Rue de Rivoli, sotto la casa particolare di madame Engelmond.»
«Non mi sono mai accorto di te.»
«Tu non ti accorgi di nulla perché bruci la vita nel tentativo di recuperare il bene del quale ti ritieni rapinato, senza badare all’amore che ti scorta passo passo, temerario e fedele. Sono stata il tuo angelo custode fino alla notte di Capodanno, in quella boîte nella quale ti eri rintanato fra gente orrenda, perché è un sollievo frequentare cattive compagnie, o annullarsi nel gioco, trastullarsi con i vizi, fingere di essere uno scapestrato, pur di sottrarsi a quella che a te sembra un’ingiuria, mentre è la semplice e logica conseguenza dell’essere nati azzurri in un’epoca grigia: dover resistere agli assalti degli spiriti meschini e assistere al trionfo dei mediocri. Non sei il primo né l’ultimo. Luca. Io ero come te. Il nostro amore avrebbe ridipinto il mondo. Ma tu tenevi gli occhi a terra, scavavi in te stesso, cercavi il tesoro che non c’è e non poteva esserci, perché quel tesoro lo possiede solo l’altro, e ti viene offerto nella luce, mai nell’ombra; tu eri troppo intento a sacrificare la tua parte più nobile al demone dell’assenza per accorgerti della mia presenza, e del tesoro d’amore nato con la tua nascita, affiorato da sempre, ma visibile solo a noi… Dieci minuti prima che scoccasse la mezzanotte, per non perdermi definitivamente, ho dovuto affrontarti senza un briciolo di orgoglio femminile, perché come entrai nel locale e ci riconoscemmo, chiedesti il conto per andartene. Non potevo essermi sbagliata, avevi il marchio, un segno azzurro, mi amavi anche tu, ne ero certa, per questo ti raggiunsi sulla porta e ti dissi: “Mi piaci così tanto, portami via”.»
«No, cara, mi chiedesti: “Se ti piaccio così tanto, perché non mi porti via?”. Un guanto in faccia, una sfida; da te non potevo accettarla. Eri una rosa circondata da papaveri neri, i motociclisti vestiti di cuoio e di borchie che ti scortavano fra quella gente che ci esaminava sotto i cappellini dei cotillon, mostrandoci lingue di Menelik. Io ero un capobranco senza branco. Mi sono sentito perduto.»
«Ti dissi: “Mi piaci così tanto, portami via”, sei parole, un punto. Sei così sicuro di padroneggiare il francese?»
Una vertigine irruente come un’onda anomala mi ha rovesciato l’anima. Un equivoco. La più insolente delle incomprensioni, un banale tranello linguistico. Per un equivoco avevo eretto la mia torre solitaria, per un equivoco la vita di Veranne e la mia si erano scisse, trincerandosi dietro fossati invalicabili di acque stagnanti, colmi di dolori inutili, amicizie tradite, matrimoni sbagliati: per un equivoco! Un interrogativo immaginario, un punto di domanda rovesciato che si era trasformato in amo pungente, un gancio che cattura gli amanti predestinati, riducendoli a prede di quel pescatore d’infelicità che siamo noi stessi quando restiamo soli.”