Prof, ma dove si informa?

Inizio pubblicando un post di Francesco Costa su Instagram, giornalista che seguo.

Quindi Instagram non può certamente essere l’unica fonte. Ad ogni modo lì seguo IlPost (cui sono anche abbonato, il che mi dà modo di ascoltare ogni giorno il podcast Morning di Francesco Costa, riservato appunto agli abbonati; loro è anche il podcast Politics, generalmente di politica italiana ma la cui ultima puntata è sulla crisi russo-ucraina), Will (seguo anche i loro podcast Globally e Actually, il primo sulla geopolitica e il secondo sui grandi cambiamenti e le innovazioni; loro è anche Tiranny, podcast satirico e pungente sui moderni tiranni), Parliamodimafia (che ovviamente parla di mafia ma che in questi giorni sta dando molte informazioni sull’Ucraina), Cecilia Sala (giornalista de Il Foglio, tra l’altro arrivata venerdì 25 in Ucraina) che cura anche il podcast Stories (appuntamento giornaliero sugli esteri), il che mi introduce alla galassia di Choramedia (hanno tante produzioni di podcast su tantissimi temi, dalla politica italiana all’Europa, dal Libano alle voci della Costa Concordia, dall’anoressia alla speranza), Daniele Raineri (giornalista de Il Foglio).

Uscendo da Instagram e dai Podcast e tralasciando sia i siti dei quotidiani e degli altri giornali online (troppi con il paywall che ti blocca dopo 3-5 articoli) sia twitter (sarebbero troppi da citare, ho una lista con 50 giornalisti circa di qualsiasi collocazione politica), visito:

ISPI (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale)

Insideover (temi esteri)

Formiche (temi vari)

Atlante (sezione di Treccani dedicata alla geopolitica, ma consiglio la visita anche alle altre sezioni)

Limes (geopolitica, molti articoli riservati agli abbonati come me eheheh)

Ilcaffegeopolitico (direi che il nome parli da sé)

Asianews (agenzia di informazione missionaria)

Osservatorio Balcani e Caucaso e Transeuropa (si occupa di sud-est Europa, Turchia e Caucaso)

AGI (agenzia di stampa)

Linkiesta (temi vari)

Lavialibera (rivista e sito dell’associazione Libera su temi delle mafie ma non solo: anche qui diversi articoli riservati agli abbonati come me eheheh)

Confronti (rivista che tratta temi di religioni, politica e società: anche qui diversi articoli riservati agli abbonati come me eheheh)

Nigrizia (rivista di notizie e approfondimenti che arrivano dall’Africa tramite i missionari comboniani: vale la pena se ci si abbona come me eheheh)

Rocca (rivista della Pro Civitate Christiana impegnata per la pace, i diritti umani, la democrazia, la nonviolenza, la giustizia. Anche qui però vale la pena se ci si abbona come me eheheh)

La rivista de Il Mulino (approfondimenti su vari temi).

Sono anche abbonato a La civiltà cattolica ma sono pochi gli articoli gratuiti on line.Infine Valigiablu (punta a spiegare e contestualizzare i temi critici al centro del dibattito pubblico); da loro prendo questa immagine con cui chiudo, dei consigli per seguire le notizie in modo responsabile. Avrò sicuramente dimenticato qualcosa, pazienza…

Siamo fatti così. Ma così come?

Ricordo un vecchio cartone animato dal titolo “Siamo fatti così”. Sostanzialmente spiegava com’è fatto il corpo umano. Mi è tornato in mente dopo aver ascoltato Arianna Zottarel, ricercatrice universitaria e autrice del libro “La mafia del Brenta. La storia di Felice Maniero e del Veneto che si credeva innocente”. Nel suo intervento del 2 febbraio scorso a Trieste ha parlato della mafia del Brenta e soprattutto della considerazione sociale intorno a tale vicenda. Trovo utili le sue parole in preparazione all’incontro di domani mattina tra gli studenti delle scuole di Udine e don Luigi Ciotti di Libera.

“Il punto da cui sono partita è stato quello di vedere la mafia del Brenta come un fenomeno che porta con sé tutta una storia di negazionismo, minimizzazione e sottovalutazione del fenomeno mafioso in Veneto. Questi processi su più fronti in realtà hanno sempre interessato il Veneto, così come altre regioni del nord-Italia, non sempre per complicità ma anche per problemi dovuti alla scarsa conoscenza del fenomeno o per le poche grandi operazioni della Magistratura che non hanno scosso il territorio veneto come hanno fatto in altre realtà. E quando pure lo hanno fatto, l’atteggiamento spontaneo è stato quello, un po’, di un’autocensura sociale e spesso anche giornalistica, di una minimizzazione da parte delle Istituzioni proprio perché c’era questo atteggiamento di voler tutelare l’immagine del territorio: un Veneto del turismo, un Veneto dell’impresa, un Veneto che sicuramente non si voleva associare alla parola mafia. Invece, nonostante risulti quasi sempre fanalino di coda in tema di criminalità organizzata, in realtà il Veneto è stato una regione a non tradizionale presenza mafiosa in cui è cresciuta e si è sviluppata una mafia autoctona. Questa storia si è anche andata velocemente dimenticando e non si è costruita molta teoria come è stato per le altre organizzazioni.
La mafia del Brenta ha operato soprattutto a Padova, nelle provincie di Padova e di Venezia, dalla metà degli anni ‘70 alla metà degli anni ‘90, ed è un’organizzazione che ha dei connotati molto diversi da quelli che conosciamo delle altre organizzazioni tradizionali, proprio perché è stata influenzata dagli aspetti politici, economici, sociali, culturali e criminali di quegli anni. Parliamo pertanto di un nuovo insediamento mafioso: non è il risultato di un processo di esportazione o di colonizzazione. Le caratteristiche sono diverse, a partire dalla sua struttura organizzativa: mentre Cosa Nostra e ‘Ndrangheta hanno struttura unitaria, verticistica e gerarchizzata e la Camorra tende ad avere una struttura più ad arcipelago e polverizzata, la mafia del Brenta non ha dei modelli da tramandare, non ha un’eredità né una storia. Nasce per delinquere e ha assunto la forma organizzativa più congeniale ai suoi scopi: un network, una rete, egocentrata sulla figura di Felice Maniero, leader del gruppo. Ciò le permetteva di essere molto flessibile, molto veloce e di far entrare nella rete diverse abilità criminali che consentivano di mantenere l’autonomia, fondamentale in una realtà che vedeva presenti più cellule criminali sul territorio. Beneficiando del capitale sociale prodotto da questa rete, si è creata una grande zona grigia ed è emerso il grande potere corruttivo di questa organizzazione: medici, imprenditori, esponenti delle forze dell’ordine si sono messi a servizio dell’organizzazione permettendole di godere di ottima salute e di proseguire nei propri progetti criminali. Penso che senza questa forza corruttiva, senza questa fitta rete di corruzione, l’organizzazione sarebbe rimasta in uno stato embrionale: dei rapinatori organizzati aspiranti mafiosi, più che mafiosi in senso stretto.
E’ poi sicuramente importante valutare il contesto per capire l’organizzazione. Nei 15 anni di vita si sono passate 3 pagine fondamentali:

  • da metà a fine anni ‘70: criminalità minore con ristretto gruppo di aderenti dediti soprattutto alla rapina e all’organizzazione del gioco d’azzardo clandestino. Va considerata più come una pagina di banditismo
  • 1980-1984: criminalità emergente, aumento della quantità, formazione di un capitale economico molto importante proveniente da varie attività illecite
  • 1984-1994: criminalità consolidata e solida, riconosciuta, aumentata nel suo network sia a livello quantitativo ma anche qualitativo; diversificazione delle attività (dal traffico di stupefacenti al traffico d’armi)

La storia della mafia del Brenta ci mostra anche la storia del successo della Magistratura proprio perché non è facile imputare un’organizzazione di 416 bis in una regione di non tradizionale presenza mafiosa, a maggior ragione quando si tratta poi di una mafia autoctona. Per i giudici questa era sicuramente un’organizzazione mafiosa, autoctona e autonoma nei suoi comportamenti, nella sua vocazione criminale e anche nella sua composizione. “Mafiosi dell’ultima ora” così si definiva Felice Maniero parlando di se stesso e della sua organizzazione: mafioso perché sicuramente capace di avvalersi della forza di intimidazione e di assoggettamento, di omertà, e di un capillare controllo del territorio; mafioso perché capace di instaurare rapporti di dipendenza personale, di usare la violenza come suprema regolazione dei conflitti, di stringere alcuni legami con la politica (meno in Italia e più all’estero). Eppure, spesso, quando si parla di mafia del Brenta, la si chiama “mala”; spesso si pensa che sia un’opinione pensare che questa sia mafia, invece c’è una sentenza di cassazione che determina questo. E’ molto importante porre questo accento perché per molto tempo, negando l’esistenza di una mafia, si è negato tutto un apparato che esisteva e che non si è andati a guardare, così come si sono negate anche le vittime innocenti, a partire da Cristina Pavesi, studentessa universitaria di 22 anni uccisa durante una rapina. Per molto tempo, non riconoscendo questa organizzazione come mafiosa, non si sono riconosciute neanche le vittime. E’ pertanto importante sottolineare questo aspetto per fare memoria, ma anche per altri due motivi:
1. l’organizzazione si è posta come agente di trasformazione sociale nella sua regione, cambiando le dinamiche, modificando gli assetti e aprendo una stagione di interessi importanti mafiosi verso il nord-est (si sono verificati dei vuoti e quando c’è un vuoto nel mondo del crimine viene immediatamente riempito);
2. nonostante l’organizzazione sia finita da tanti anni, esiste ancora un forte conflitto culturale che emerge proprio dalla percezione del fenomeno. Nei luoghi più significativi della mafia del Brenta emerge una stanchezza di voler sentire sempre il nome del luogo affiancato alla parola mafia (ad esempio Campolongo Maggiore); si cerca un po’ di dimenticare anche se sono state fatte moltissime attività. Nel resto d’Italia c’è una percezione completamente diversa, una narrazione costruita sul carisma di Felice Maniero, su molti luoghi comuni che hanno creato un cono d’ombra sulla vera organizzazione: non si parla di omicidi, non si parla di sequestri, non si parla di traffico di stupefacenti, ma delle grandi evasioni o delle grandi rapine. Ad esempio, l’anno scorso, ad Ercolano, in provincia di Napoli, il volto di Maniero è diventato il logo per un ostello, chiamato Hostello Felice. Fa capire quanto nel resto d’Italia non si abbia idea di quanto stiamo parlando.
Ritengo pertanto fondamentale continuare a parlarne, non tanto concentrandoci sul carisma di Felice Maniero o sui lati folcloristici, ma cercando di capire quali sono state le variabili che hanno potuto far nascere e crescere così velocemente un’organizzazione tale nel Veneto che si credeva innocente. E ci può aiutare a capire come anche altre mafie autoctone si sviluppano e si sono sviluppate in Italia.”

Additare ciò che è nascosto

Sabato 2 febbraio, all’interno di Contromafie organizzato a Trieste da Libera, ho partecipato al gruppo di lavoro “Dalla Mala del Brenta alle mafie di oggi nel Nord-est: dalla percezione alla realtà”. Non sono passati neanche 20 giorni ed ecco che, stamattina, mentre andavo al lavoro e ascoltavo il radiogiornale, mi sono imbattuto in una notizia dell’ultima ora che annunciava un blitz anticamorristico tra Veneto e Campania. Ecco la notizia pubblicata poi su La Nuova Venezia.

Torno però al 2 febbraio per fare un resoconto del primo intervento. A guidare i lavori è stato Lorenzo Frigerio, coordinatore di Liberainformazione. Ha presentato il seminario, utile a dare voce al territorio del Nordest: gli Stati Generali di Libera avvengono generalmente ogni 3-4 anni e gli ultimi si sono tenuti proprio nel 2018 a Roma. Perché usare questo strumento qui ora? Ci si è accorti che quest’angolo del Paese non era stato ben illuminato. Il 21 marzo la Giornata della Memoria e dell’Impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie si terrà a Padova ed è emersa la necessità di fare il punto della situazione. “Non ci sono state grandi operazioni di contrasto alle mafie che abbiano determinato nell’opinione pubblica una particolare attenzione o una levata di scudi come può essere stato” in Lombardia, Piemonte o Emilia Romagna. “Questo non significa che l’attività di contrasto alle mafie in questi territori non sia stata fatta, diciamo che non c’è stata la rilevanza, anche mediatica, dei fatti”. L’intento è anche quello di dare spazio alla profondità di un’analisi che spesso sui giornali non viene resa e che le testate nazionali non rilanciano quando anche ci sono degli approfondimenti di valore fatti su questo territorio, tanto in termini giornalistici quanto in attività di contrasto.

La parola è quindi passata a Fabiana Martini, coordinatrice per il Friuli Venezia Giulia di Articolo 21. Ecco il suo intervento:
“Articolo 21 è un’associazione fatta non soltanto da giornalisti ma anche da esponenti del mondo della cultura, dello spettacolo, da giuristi, economisti, chiunque in qualche modo condivida l’obiettivo dell’associazione, che è quello di promuovere il principio della libertà d’espressione, quindi il principio contenuto proprio nell’art. 21 della nostra Costituzione. Infatti il sottotitolo dell’associazione è “il dovere di informare, il diritto ad essere informati”. Articolo 21 è nata quasi diciassette anni fa, il 27 febbraio 2002, un po’ a seguito del cosiddetto “editto bulgaro” emanato nei confronti di Biagi, Santoro e Luttazzi. Molte poi sono state le iniziative promosse attraverso il sito internet e attraverso azioni e prese di posizione o adesioni a iniziative promosse da altri sui territori per denunciare anche episodi di censura, di intimidazione, di mobbing subiti da singole persone, da associazioni, sia nel nostro paese che all’estero. Articolo 21 nasce anche con lo spirito di essere rete delle reti, mettere in connessione varie esperienze associative: un esempio è la collaborazione con Libera. Non è quindi un’associazione nata a difesa della categoria giornalistica, ma a difesa della democrazia, nella convinzione che senza informazione e senza libertà di stampa non c’è vera democrazia: l’informazione dovrebbe fornire gli strumenti per poter scegliere da che parte stare. Il dato inquietante è il fatto che un sacco di gente ha scelto la neutralità, continua a scegliere di non stare da nessuna parte e questo non va bene in una democrazia in cui si è chiamati, attraverso il voto e attraverso le scelte quotidiane, a schierarsi, a stare da una parte o dall’altra. “In una democrazia il diritto a un’informazione libera, autonoma e indipendente, è un diritto fondamentale, al pari della libertà d’espressione” scrive il giornalista Paolo Borrometi nel libro “Un morto ogni tanto”. Paolo è il presidente nazionale di Articolo 21 e collaboratore di Libera. In questo libro parla della sua battaglia contro quella che lui definisce la mafia invisibile, quella della Sicilia sud orientale, quasi sempre sottovalutata, ma, a detta di Paolo, riconoscibile già molti anni fa se solo la si fosse voluta vedere. A differenza di altri, Borrometi non ha chiuso gli occhi e da anni denuncia sul suo sito indipendente gli intrecci tra mafia e politica e gli affari sporchi che fioriscono all’ombra di quelli legali; un lavoro che lo costringe da anni a vivere sotto scorta in seguito ad un’aggressione subita nell’aprile del 2014 che lo ha lasciato menomato fisicamente. Ha continuato a ricevere intimidazioni e minacce di morte, l’ultima poche settimane fa. Ho voluto citare la vicenda di Paolo per mostrare quello che dovrebbe fare il giornalismo: far vedere ciò che è opaco, diffondere ciò che qualcuno non vuole che si sappia, “additare ciò che è nascosto” come sostiene Verbitsky, provare a essere un antidoto alle rimozioni collettive e ai depistaggi, ma anche uno strumento contro le pubbliche ingiustizie, la corruzione, gli errori del governo. Articolo 21 cerca di essere tutto questo sia a livello nazionale che a livello locale, promuovendo sul territorio dei presidi. Quello del Friuli Venezia Giulia è nato nel maggio del 2017. Per la formazione ci siamo concentrati su tre tematiche: i migranti, la violenza contro le donne, l’hate speech.
In merito alla libertà di stampa ricordo l’iniziativa di qualche mese fa a sostegno delle due testate giornalistiche de Il Manifesto e Avvenire che sono state censurate dal Comune di Monfalcone che ha deciso di ritirarle dalla pubblica lettura in biblioteca, interrompendo gli abbonamenti. Nonostante ci sia stata poi la sottoscrizione promossa da alcuni cittadini per riattivare gli abbonamenti, i due giornali sono stati confinati prima in una casa di riposo, con la scusa che vengono letti solo dagli anziani, e poi presso l’Ufficio Relazioni con il Pubblico, quindi in un luogo differente da quello in cui le persone vanno a leggere i giornali. Abbiamo promosso un incontro molto partecipato, benché in un pomeriggio feriale, in una sala parrocchiale; avevamo chiesto una sala al Comune di Monfalcone invitando anche la sindaca, ma ella ha ritenuto di non partecipare e di non concedere la sala. Erano presenti più di 100 persone e hanno presenziato il direttore di Avvenire Marco Tarquinio e la direttrice de Il Manifesto Norma Rangeri e abbiamo sviluppato un dibattito insieme al presidente dell’ordine, a Paolo Borrometi, al Presidente del Sindacato e anche col direttore del Primorski dnevnik, quotidiano degli sloveni d’Italia.
Un sostegno molto forte è stato dato poi alla mostra sulle leggi razziali promossa dal Liceo Petrarca di Trieste, e organizzata in occasione degli 80 anni dalla promulgazione delle leggi razziali che è avvenuta proprio qui, in Piazza Unità, e rispetto alla quale c’era stato un tentativo di censura da parte dell’Amministrazione comunale, poi rientrato in seguito alla presa di posizione e alla mobilitazione della città e non solo della città.
Si sono fatti e si fanno anche degli interventi nelle scuole proprio in merito all’art. 21 della Costituzione, per una sua rilettura e attualizzazione.”



Un anno col Mec

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Se sei tra i 18 e i 28 anni e vuoi dedicare un anno ad un’attività solidale e formativa, che ti farà conoscere nuove realtà insieme a persone che si danno da fare per costruire un mondo migliore, potresti essere il candidato ideale per svolgere il Servizio Civile con l’Associazione Mec. Stanno cercando quattro volontari da impiegare nel progetto “Cambia il vento”. Il progetto si pone l’obiettivo di supportare e sviluppare le attività dell’Associazione nell’ambito dell’educazione all’utilizzo corretto, efficace e positivo di Internet e dei dispositivi digitali, all’informazione e alla comunicazione, promuove l’educazione dei giovani alla cittadinanza democratica, alla pace, ai diritti umani, alla legalità e alla giustizia attraverso l’educazione all’uso critico e consapevole dei media e delle nuove tecnologie.
I volontari potranno sviluppare e migliorare le proprie competenze multimediali, educative, e anche acquisire competenze nell’ambito organizzativo e di supporto al lavoro d’ufficio, inerente i progetti e le attività dell’Associazione.
Le attività si rivolgono alle scuole, alle associazioni del territorio e alla cittadinanza in genere.
Ho partecipato a numerosi incontri condotti dai formatori del Mec e sono sempre rimasto molto contento: per questo caldeggio l’iniziativa!
I volontari saranno impegnati per 12 mesi, da Novembre 2018 a Ottobre 2019, presso le sedi di Udine, Pordenone e Cordenons. Ai volontari in Servizio Civile nazionale spetta un assegno mensile di 433,80 euro netti.

Però attenzione!!! Le domande vanno presentate entro venerdì 28 settembre. Qui tutte le info.

Tra futuri possibili e probabili, tra utopie e distopie

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Qualche settimana avevo letto un articolo molto interessante di Giovanni Bitetto su L’Indiscreto. Oggi l’ho ripreso in mano e ho deciso di pubblicarlo sul blog. Vi si tratta di tecnologia, di presente e futuro, di utopie e distopie, di visioni e decisioni politiche, di aziende e stato, di economia e open source. L’ultima frase del pezzo desidero inserirla qui, in modo da fornire un’idea concisa ed efficace dei temi toccati: “Se virtuale e reale sono legati indissolubilmente – al punto che non è  più necessario fare una distinzione – allora la prospettiva di mondi alternativi, di futuri possibili, di utopie immaginabili,  si configura come un campo di battaglia importante per la governabilità del presente”.
“Quando usiamo lo smartphone accediamo a un universo più ampio, che travalica il semplice utilizzo di una tecnologia. Nel perimetro del touchscreen si succedono diversi spazi virtuali, e noi possiamo accedere in contesti differenti: dai social network come Facebook, Instagram o Twitter, alle dating app quali Tinder o Happn, agli shop online di Amazon e Apple. Attraverso l’artefatto dello smartphone – che in poco più di dieci anni è diventato il simbolo della nostra epoca – ci connettiamo a un cosmo esteso di saperi, che potenzia le nostre possibilità di agire nel quotidiano e allo stesso tempo ci condiziona sottilmente. Il flusso dell’informazione digitale ci investe e occupa uno porzione sempre più cospicua della nostra quotidianità, modifica le categorie cognitive dell’uomo, espandendo e frammentando la nozione di spazio, usurando e disgregando i concetti di vecchio e nuovo. Se Georg Simmel parlava di «intensificazione della vita nervosa» agli albori della modernità metropolitana, ora che l’uomo vive in uno spazio virtuale – e che le stesse città, seguendo la retorica capitalista delle “smart city”, si stanno attrezzando per diventare nient’altro che hub per l’accesso al mondo digitale – la quotidianità si sintetizza in una sequela frenetica di stimoli. L’uomo contemporaneo deve controllare molteplici saperi, è spinto a stare al passo con un ciclo di obsolescenza e aggiornamento tecnologico in cui le nozioni di passato e futuro si assottigliano fino a svanire in un eterno e nebuloso presente.
Lo studioso di media Henry Jenkins parla di “cultura convergente”, ovvero un cambiamento del paradigma culturale in cui i consumatori sono stimolati a ricercare nuove informazioni e ad attivare connessioni tra contenuti mediatici differenti. La convergenza avviene nel cervello dei singoli consumatori nonché nelle loro reciproche interazioni sociali. Ognuno di noi si crea una personale visione del mondo dai frammenti di informazione estratti dal flusso mediatico, che sono poi reinterpretati nell’orizzonte di senso della vita di ciascuno. Visto che abbiamo a disposizione, su qualsiasi tema, più dati di quelli che ognuno di noi può immagazzinare, siamo maggiormente incentivati a parlare di ciò che fruiamo.
Eppure, a ben guardare, la convergenza non è solo una dinamica cognitiva propiziata dalle nuove tecnologie, bensì una meccanica concreta che dà modo alle stesse tecnologie di interagire fra loro, di strutturarsi in un nuovo sistema coeso e indeterminato, in sostanza di creare dei vettori che si intersecano e si configurano come una rete onnipresente. Tale processo di unificazione viene indicato come “internet delle cose”. Il modello dell’internet delle cose riassume in sé una molteplicità di protocolli, piattaforme, capacità tecnologiche, spazi reali e virtuali. Tutto ciò che collega i diversi dispositivi, i servizi, i fornitori e le performance implicate in tale assemblaggio è il tentativo di rendere sensibili, e disponibili per l’analisi e l’elaborazione, le situazioni della vita quotidiana.
Quando compriamo qualcosa su Amazon la nostra scelta è registrata e immagazzinata assieme a miliardi di altre, la grande mole di dati è ridotta a modelli e tendenze che vengono usati per strutturare la nostra esperienza digitale futura. Così Amazon ci consiglia cosa potrebbe suscitare la nostra attenzione, cosa interesserebbe al “tipo”che incarniamo (un tipo le cui scelte, per la macchina, non sono altro che una sequenza di dati). Allo stesso modo su Facebook sono indicizzate le nostre interazioni, strutturate secondo un paradigma che va a rafforzare i feedback positivi di utenti coevi al nostro sentire, e dunque mira a consolidare idee e consumi, in modo da renderci più riconoscibili e incasellabili in una determinata categoria. L’internet delle cose estende l’influenza immateriale delle informazioni al mondo dei dispositivi fisici, a essere indicizzati sono i percorsi che facciamo e che registriamo grazie alla nostra app contapassi, oppure le strade che percorriamo con le auto a tecnologia “driveless” prossime venture.
Il paradosso di uno sviluppo tecnologico così repentino appare chiaro: da una parte la possibilità di allargare la nostra area di influenza a campi materiali e del sapere che nemmeno avremmo immaginato di prendere in considerazione, dall’altra la sconfortante sensazione di essere ridotti a dati, scomposti in una serie di parametri che riducono la sfera umana alla mera intersezione di svariati fattori catalogabili. E la catalogazione va di pari passo con la commercializzazione, le componenti dell’umano si uniformano al discorso della merce in maniera sempre più mimetica, una delle cause è da ricercare nello sviluppo tecnologico. Proprio la tecnologia non è un fattore neutro, come vuole la vulgata comune, non dipende “da che utilizzo se ne fa” o “ per quali scopi la si usa”. Occorre piuttosto chiedersi chi eroga i servizi di cui usufruiamo, chi disegna il campo di possibilità dello spazio digitale, quali sono i confini e le interazioni ipotizzabili nell’internet delle cose, come si configurano allo stato dell’arte attuale; e soprattutto che visione del mondo ha chi eroga questi servizi, chi commercializza tali dispositivi, chi ci spinge a propendere per un determinato assetto dei rapporti umani, economici e sociali.
I progetti e le credenze di chi presiede le principali aziende della Silicon Valley – i cosiddetti GAFA (Google, Amazon, Facebook, Apple) – non sono facilmente decifrabili, eppure gli sforzi di queste multinazionali sembrano orientati a estendere la propria sfera di influenza in più settori possibili, e con gradi di penetrazione sempre maggiori. Quando ci occupiamo di tecnologia dimentichiamo di prendere in considerazione i modi di produzione e l’ideologia che ne sostiene l’utilizzo e i criteri di applicabilità. L’orizzonte in cui le tecnologie si sviluppano – almeno nell’occidente contemporaneo – è quello del capitalismo di matrice neoliberista. Come vuole un vecchio adagio di stampo modernista, la tecnologia dovrebbe emancipare l’uomo dalla sua condizione di natura, cosa che forse sta effettivamente accadendo. Le protesi tecnologiche stanno espandendo le capacità dell’umano, ma nella nostra esperienza quotidiana l’effetto più lampante è l’aumento della competitività, il radicarsi del dogma della performatività, l’ansia crescente della prestazione. Le tecnologie odierne, iscritte in questo sistema di valori e in questi modi di produzione, sono elementi che rafforzano la grammatica del neoliberismo. Non muta la scala di valori su cui si applicano i nuovi ritrovati della tecnica, ma si rende più evidente lo scarto fra le performance dell’uomo e quelle della macchina; non è la macchina ad adeguarsi all’uomo, ma è l’uomo che si deve sforzare di tenere il ritmo della macchina.
Come ricorda Adam Greenfield in “Tecnologie radicali”: «Ogni volta che ci viene propinata una qualche aspirazione al post-umano, dobbiamo riconoscere gli impulsi prevedibilmente dozzinali e fin troppo umani che vi sono alla base, tra i quali la brama di guadagnare dallo sfruttamento degli altri e la mera volontà di potere e controllo». Dietro la retorica della presunta emancipazione si nasconde l’ennesima mutazione del discorso neoliberista, Greenfield continua: «L’aspetto più fuorviante di questo corpus retorico risiede nel divario continuamente esistente tra le affermazioni tecno utopiche riguardo cosa “può” o “potrebbe” produrre una qualche innovazione emergente, da un lato, e tutto quello che in realtà riscontriamo che ha fatto dall’altro. Molto spesso i presunti vantaggi non si concretizzano affatto, mentre le conseguenze negative, facilmente prevedibili (e di fatto esplicitamente previste), spuntano invariabilmente fuori, e deve occuparsene qualcun altro». Lo sfruttamento delle risorse tecnologiche a favore dell’ordine di cose esistente è una dinamica che favorisce ciò che Mark Fisher chiama “realismo capitalista”, ovvero l’incapacità dell’individuo contemporaneo di immaginare un sistema economico diverso da quello vigente. Per Fisher – lo spiega proprio nel libro omonimo del 2009, di recente pubblicato in Italia da Nero Editions – l’ideologia ci pervade a un livello di penetrazione tale da intaccare le nostre categorie cognitive, e rendere vera quella massima di Fredric Jameson per cui “è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo”.
L’analisi del capitalismo in Fisher è impietosa e si concentra principalmente sul rapporto fra individuo e percezione del reale: «Il capitalismo è quel che resta quando ogni ideale è collassato allo stato di elaborazione simbolica o rituale: il risultato è un consumatore-spettatore che arranca tra ruderi e rovine».
Per Fisher, il discorso neoliberista “annichilisce” ogni idea di futuro, le nuove tecnologie sono utilizzate come mera appendice di un capitalismo disumano. È davvero impossibile – alla luce dei recenti sviluppi e di quelli prossimi – ripensare il mondo che verrà in un’ottica antagonista, più aderente agli ideali di liberazione ed emancipazione dell’uomo? Per Nick Srnicek e Alex Williams mettere la tecnologia al centro del dibattito politico è un passo indispensabile per la costruzione di una nuova sinistra vincente. I due – già autori del Manifesto per una politica accelerazionista – tentano di iscrivere i saperi e le tecnologie legate all’automazione in un discorso che vede nella società del post-lavoro il raggiungimento dell’ideale di emancipazione dell’uomo. Lo scopo è tornare a padroneggiare il potenziale utopico insito nel discorso tecnologico, epurandolo tanto dalla retorica neoliberista, quanto dalla reazione della retorica antimoderna. In “Inventare il futuro” – anch’esso a breve pubblicato da Nero (editato il 14 febbraio, ndr) – i due studiosi affermano senza mezzi termini: «Questo libro vuole proporre un’alternativa: una politica che provi a riconquistare il controllo del nostro futuro, che nutra l’ambizione di immaginare un mondo ben più moderno di quello che il capitalismo ci ha lasciato in eredità. Le potenzialità utopiche latenti nelle tecnologie del XXI secolo non possono rimanere schiave della ristretta mentalità capitalista, ma vanno liberate in direzione di un’ambiziosa alternativa di sinistra».
In questa sede non voglio discutere le proposte concrete degli accelerazionisti (che pure ci sono, come la piena automazione dei modi di produzione, la riduzione della settimana lavorativa, il reddito di base universale, e il rifiuto dell’etica del lavoro come principio regolatore della società capitalista), né tantomeno verificarne i criteri di applicabilità. Eppure dovrebbe essere un elemento cardine del discorso umanista tentare di uscire dall’ordine di idee per cui il futuro che immaginiamo è solo un’intensificazione distopica del nostro presente. D’altronde risulta essere una tendenza ben visibile nei prodotti di fantascienza pop che tentano di immaginare il futuro prossimo. Black Mirror al momento è forse il più famoso, la scrittura di ogni puntata si basa su dinamiche abbastanza semplici: vengono portate alle estreme conseguenze negative le specificità di una tecnologia già presente al giorno d’oggi. Se virtuale e reale sono legati indissolubilmente – al punto che non è  più necessario fare una distinzione – allora la prospettiva di mondi alternativi, di futuri possibili, di utopie immaginabili,  si configura come un campo di battaglia importante per la governabilità del presente”.

Far west, far web

post truth
Immagine tratta da The Norwich Radical

Un interessante articolo di Damiano Greco sulla necessità di una nuova educazione all’informazione. La fonte è Eastwest.
Esattamente come avviene nella società offline, anche all’interno della collettività online non possiamo e non dobbiamo esimerci dalle nostre responsabilità e doveri inderogabili, sia di natura etico-morale che di tipo costituzionale. Questi vincoli nell’attuale contesto digitale devono essere tradotti in condivisioni, commenti e cinguettii virtuosi, norme che devono essere garantite nella dimensione virtuale come lo sono già in quella reale.
Come sosteneva Bauman – compianto sociologo e filosofo della “società liquida” – solo la convivenza tra questi due mondi potrà garantire all’individuo e alla società una condizione di vita sana e sostenibile. Il nuovo ecosistema comunicativo diviene “Onlife”, attraverso una connessione costante, fusione tra questi due mondi, prendendo le redini di assetti consolidati dunque, facendo assumere ai nuovi attori della sfera pubblica – i cittadini-utenti – il ruolo di protagonisti indiscussi, mentre la nuova moneta di scambio viene rappresentata dalla visibilità, bramata e inseguita da quest’ultimi. Gli attori sociali si ritrovano dunque costretti a prendere parte ad una tragicomica competizione per la notorietà e lo status, cercando, proprio come le merci in vendita negli scaffali, di rendersi particolarmente attraenti agli occhi degli altri utenti se intendono sentirsi parte della società in cui vivono, tenendo costantemente aggiornata la propria identità digitale attraverso i diversi social network, divenendo pertanto un vero e proprio obbligo sociale. Riformulando in salsa 2.0 la consapevolezza di “sé stesso” attraverso la celebre citazione e intuizione di Cartesio: “Condivido, dunque sono”.
Viviamo d’altra parte nell’epoca della post-verità, basata sull’emotività e convincimenti personali a discapito di dati oggettivi, il superamento dell’attendibilità raggiunge il punto di non ritorno nel momento della perdita di consapevolezza dell’importanza obiettiva dell’autenticità dei fatti. L’ascesa della Post-Truth, entrata con forza nella nostra quotidianità non deve essere sottovalutata, i pericoli rappresentati dall’illusione della conoscenza rischiano seriamente di depotenziare la qualità già fragile dell’attuale arena mediatica, in tale contesto le notizie che dovrebbero seguire rigidi parametri tecnico-scientifici, vengono lasciate in balia di bugie facili e rassicuranti, all’interno di questa cornice troviamo come sempre il complesso rapporto tra lo Stato ed il cittadino, tra la collettività e l’individuo, in una sorta di cinica interdipendenza dominata dal caos. Una valanga di notizie travolge la Rete e con essa i cittadini-utenti, incapaci di effettuare una scelta autonoma si affidano al trend del momento, vulnerabili e fragili divengono il ventre molle del web, trovandosi portatori inconsapevoli di ideologie fasulle che paradossalmente si scontrano con convinta presunzione contro il mondo della competenza e istruzione. Annamaria Tesla su Internazionale scrive che oggi il 44% della popolazione si “informa” tramite Facebook, il social network più famoso al mondo attraverso dei complessi algoritmi tenderebbe inoltre a creare delle “camere dell’eco” in grado di far rimbalzare ripetutamente la “balla” all’interno del web, questa senza trovare alcuna opposizione diverrebbe in fine reale.
Ma com’è potuto accadere? Quando i lettori-utenti hanno iniziato a credere al populismo spicciolo e alle menzogne dei politici perdendo la fiducia nei vari professionisti, giornalisti, editori? In realtà come afferma Riccardo Luna in “Bufale, Post-Verità e il Futuro del Giornalismo”, tutto ciò non rappresenta una novità: “…E’ sempre accaduto che le persone si facessero una idea “sui titoli dei giornali”. Senza leggere gli articoli. E quindi per decenni l’opinione pubblica si è formata più sui titoloni che sulla realtà. Scandalizzarsi ora vuol dire non avere memoria. Ma adesso questa cosa ha dentro il motore potentissimo della rete”. In tal senso, nella lotta contro la diffusione delle “fake news” si stanno iniziando a muovere i primi timidi passi, ad esempio in Germania è stata annunciata una proposta di legge finalizzata a multare le piattaforme social nel momento in cui non provvedano a rimuovere contenuti hate speech in grado di incitare all’odio.
Cosa fare al riguardo? Come è noto il flusso informativo per poter funzionare correttamente richiede cittadini “illuminati”, porre l’accento sull’istruzione e la promozione delle scienze risulta essere ancora oggi molto importante, ma la vera priorità dei nostri tempi è insegnare a comprendere la realtà del mondo iperconnesso di oggi con i suoi elevatissimi collegamenti, il forte impatto tecnologico e la velocità innovativa degli attuali canali comunicativi, a cui sono inesorabilmente legate le nuove generazioni, rischia seriamente di impedire a quest’ultime di poter raggiungere e comprendere l’attuale contesto sociale, ma di arrivarci con grande affanno e confusione, favorendo sempre più la divisione a serio discapito del progresso socio-culturale. La conoscenza dunque, deve rappresentare ancora una risorsa, ma deve essere accompagnata dalla consapevolezza degli effetti che può avere ad esempio, una condivisione estrapolata all’interno della nostra filter bubble – bolla di informazioni creata appositamente da Facebook finalizzata a compiacere le nostre esigenze – e postata con troppa superficialità, senza prima aver appurato le fonti della notizia attraverso una ricerca metodica e ponderata, il post rischia di divenire virale innescando una escalation pericolosa e difficilmente inquadrabile.
I canali divulgativi, una volta saldamente in mano alle istituzioni, vengono oggi veicolati e orientati dagli influencer, in grado con il loro peso mediatico, di indirizzare opinioni e atteggiamenti ed infine per consolidare o meno il consenso ad un candidato in vista di un confronto politico. Nella definizione di Mazzoleni (1998) la comunicazione politica veniva descritta come “il prodotto dello scambio fra i tre attori dello spazio pubblico, ossia tra sistema politico, sistema dei media e cittadini-elettori…”, se in passato dunque individuavamo un netto sbilanciamento a favore dell’interazione tra i primi due attori – il sistema politico e i media – ponendo di fatto il terzo attore ad uno ruolo di mero spettatore all’interno della comunicazione politica, oggi la centralità dei New Media impone una visione differente, dove troviamo il cittadino-utente assumere un peso sempre più rilevante, in grado di comunicare attraverso un nuovo linguaggio eterogeneo e complesso, ridisegnando di fatto l’arena del confronto politico. Appare chiaro che i Governi non sono più in grado di gestire adeguatamente le attuali problematiche, l’unica strada percorribile prima di scatenare scontri civili senza una via di ritorno, viene rappresentata dalla necessità di far assumere ai cittadini-utenti una maggiore coscienza, ponendoli in condizione di organizzarsi e di poter gestire i propri processi e le proprie risorse, riunendoli sotto un’unica tenda, quella che riporta in alto la scritta “Empowerment”. La società civile digitale non solo dovrebbe incentivare questi principi ma addirittura prendersene carico nella loro totalità. Si necessita una nuova educazione all’informazione, un luogo di incontro e confronto di processi individuali e collettivi coordinati da una forma di divulgazione responsabile. Il mondo ha bisogno di giornalisti scrupolosi e di lettori vigili e attenti. Con la speranza che un giorno si potrà guardare indietro negli anni ripensando a questo periodo caotico definendolo goliardicamente come il “Vecchio Far Web”.”

Mi fido o non mi fido?

lugenpresse

Attendibilità delle fonti, grado di verità di un’informazione, formazione di un’opinione, ricerca di correttezza e credibilità… sono temi forti del presente e penso che assumeranno sempre maggior rilievo nel futuro prossimo. Pubblico un articolo di Enrico Pitzianti, laureato in semiotica, pubblicato su L’Indiscreto.
È il 1847 e Il Boston Herald descrive il suo scopo come “dare espressione allo spirito del tempo”. Mira a essere “uno storico zelante del momento” e proclama la volontà di collezionare eventi del presente e del passato per poterli “ritrarre come in un dagherrotipo” per il suo pubblico.
Anche considerando il tempo trascorso da quella pubblicazione è impressionante notare la differenza tra la credibilità di cui godeva l’informazione allora e quella di cui gode oggi. Quella volontà di ritrarre e collezionare gli eventi ora ci farebbe storcere il naso. Dubitiamo fortemente della capacità dei media di fotografare la realtà e rifiutiamo istintivamente qualsiasi volontà di definire lo spirito del nostro tempo. Il solo accenno a voler porre l’informazione su un piano così elevato ci pare un atto meschino, perché volto a sancire una gerarchia a cui non vogliamo sottostare. Oggi si contrappone un secco rifiuto davanti a qualsivoglia volontà di stabilire una separazione tra chi dispone degli strumenti per raccontare il presente e chi invece no.
Lo scetticismo che caratterizza il nostro tempo permette di mettere in discussione qualsiasi informazione. In parte ciò avviene per via dell’ormai diffusa funzione di broadcasting svolta dai social network, che hanno progressivamente democratizzato la possibilità di produrre e diffondere informazioni, anche false. Così un anonimo account Twitter può essere una fonte credibile e un editoriale della testata più autorevole può essere tacciato di servilismo.
Ora, è ovvio che nell’ardua impresa di ricostruire delle priorità e delle gerarchie comunicative cui attingere per comprendere il mondo è facile sbagliare. E il peggio è che è facilissimo – se non addirittura banale – fare l’errore più grave: confondere le fonti affidabili con le fonti che si preferiscono per motivi ideologici. Mi fiderò di una notizia data da Libero o dal Giornale? Forse no. Ma devo domandarmi se il mio “no” deriva dalle posizioni politico-ideologiche delle testate o dall’inaffidabilità delle notizie. Se fosse una questione ideologica farei bene a sforzarmi e dare comunque una lettura alle idee di giornalisti con cui normalmente sono in disaccordo, ma se invece sono testate inaffidabili, che non verificano le notizie e confondono fatti con opinioni, allora è meglio non leggerli mai.
Mentre il mondo dell’informazione scruta l’orizzonte in cerca di strategie che permettano di combinare credibilità e guadagni, gli avvenimenti politici fanno presagire la necessità di un ripensamento generale dell’organizzazione dell’informazione contemporanea. Recentemente, ad esempio, la testata statunitense The Atlantic pubblica un video di una riunione di neo-nazisti tenutasi a Washington DC dove oltre ai saluti romani, gli slogan razzisti e i riferimenti suprematisti si attaccano, e non è un caso, proprio gli organi di stampa.
Dal palco il fanatico che arringa la folla si riferisce ai media come “Lügenpresse”, termine tedesco, letteralmente “stampa bugiarda”, usato soprattutto ai tempi del Terzo Reich. Tuttavia non si tratta di un episodio isolato: il termine era già stato usato durante la campagna elettorale di colui che oggi è il presidente eletto della nazione più potente del pianeta, Donald Trump.
Il ritorno dell’uso del termine “Lügenpresse” è uno dei sintomi più gravi e significativi della crescente sfiducia popolare verso quelle che vengono percepite come delle “élite”. Questo termine dispregiativo, che è in uso sin dalla prima guerra mondiale, si diffuse grazie a titoli come “La Lügenpresse dei nostri nemici”, libro pubblicato dal Ministero della Difesa tedesco nel 1918, e negli anni del regime nazista venne usato con sempre più frequenza per screditare e attaccare gli organi d’informazione scomodi al regime.
In tempi recenti il significato rimane lo stesso e movimenti di estrema destra come Pegida in Germania ne hanno ripreso l’uso. Alla violenza verbale si è presto aggiunta quella fisica visto che molti giornalisti sono stati picchiati e minacciati dai militanti del movimento nazionalista, fino a rendere necessario per i reporter seguire le manifestazioni protetti dalla scorta. Le istituzioni hanno risposto nel 2015 bandendo il termine e inserendolo tra le “parole proibite”, ma è ragionevole pensare che il problema sia tutt’altro che risolto, perché è vero che la cultura tedesca gode di ottimi anticorpi contro autoritarismi e derive populiste, ma è altrettanto vero che quelle stesse destre populiste e nazionaliste continuano a crescere.
E se il problema non può considerarsi risolto in Germania figurarsi nel resto del mondo: Melody Patry, senior advocacy di Index, parla del 2016 come l’anno dell’aumento dei pericoli per i giornalisti con 406 casi verificati di violenze e minacce nella sola Europa.
Per come vanno le cose oggi, non solamente i nobili propositi dello Herald, quelli di fotografare lo spirito del tempo e cogliere una “somiglianza fedele e non adulatoria” della società, verrebbero presi poco sul serio, ma probabilmente uno slogan del genere verrebbe deriso pubblicamente.
La nostra autoconsapevole filter bubble, oggi celebre grazie alla beffa ai danni dei media da parte degli elettori di Donald Trump, ci spinge a riflettere su quali siano i limiti di un modello informativo anti-gerarchico e iper-scettico. Viviamo uno strano scenario dove lo scetticismo sui motti lascia spazio ai motti che esprimono scetticismo. Quale slogan di una testata giornalistica potremmo mai considerare non-ridicolo? Probabilmente nessuno.”

Gemme n° 366

Ho pensato di portare due canzoni, ma essendo troppo lunghe ne ascoltiamo solo una

L’altra sarebbe stata Imagine. Penso che le due canzoni parlino da sole senza aggiungere altro. Volevo dare un po’ di speranza e ritengo sia il caso di ascoltarle più spesso”. Così S. (classe quinta) ha presentato la propria gemma.
Michael Jackson invita a curare il mondo e a renderlo un posto migliore. Mi viene naturale citare le parole che Tiziano Terzani rivolge a dei giovani, messaggio che è posto all’inizio del dvd che stiamo guardando proprio con le classi quinte: “Voi che siete una nuova generazione guardate ai fatti, leggete, informatevi, non prendete per garantito niente, non credete a niente di quel che vi viene raccontato. Fatevi la vostra verità, una in cui potete credere e a cui potrete dedicare la vostra vita. Gandhi disse una volta «la verità è il mio Dio» due anni dopo scrisse «no! II mio Dio è la verità». La verità è una grande cosa, forse irraggiungibile ma fatene la vostra meta nella vita, cercatela la verità, cercate anche quella dentro di voi, chi siete, che cosa volete fare qui, che cosa ci siete a fare al mondo. Ponetevi questi problemi e la vita diventerà meravigliosa!”.

Gemme n° 73

Buzzfeed

Per la prima volta come gemma è stato presentato un sito internet: I. (classe terza) ha voluto mostrare il sito che visita praticamente ogni sera. “E’ un sito interessante che non ha solo news; è sia divertimento che conoscenza generale. Il creatore è anche colui che ha fondato l’Huffington Post. L’ho voluto presentare perché magari può essere utile per qualcuno”.
A commento riporto due frasi di Roberto Vacca che mi sembrano utili per una riflessione:
Internet offre una ricchezza inestimabile di informazioni, conoscenza, contatti umani. E’ così grande che ha gli stessi pregi e gli stessi difetti del mondo reale: pieno di cose meravigliose e anche di porcherie e cose inutili.”
Il vantaggio enorme di Internet è di essere accessibile a velocità e con flessibilità molto più alte del mondo reale. Però in ambo i casi non ci possiamo districare bene né col mondo vero, né con Internet se non abbiamo prima acquisito solidi criteri di giudizio. Occorre, cioè, avere cultura (non solo informatica). La cultura si acquisisce anche a scuola e poi da libri, giornali, discorsi, conferenze, maestri. Attenti, però, ci sono maestri buoni e maestri cattivi; il criterio di giudizio deve permettere anche di evitare i secondi.”

Gemme n° 12

Una delle canzoni più famose dei Black Eyed Peas è stata l’oggetto della gemma presentata da A. (classe seconda). “Propongo «Where is the love?» perché è un brano a cui sono molto affezionata. Purtroppo parla di cose brutte che continuano ad accadere: tocca argomenti sui quali ognuno può avere la propria idea. Dopo il video leggerò la traduzione”.

Prima della traduzione della telefonata a Dio di “Where is the love?”, per restare in ambito BEP, propongo un loro brano che tocca argomenti simili. Si tratta di “One tribe”, in cui si può leggere: “Una tribù, un tempo, un pianeta, una razza, è un unico sangue, non importa la tua faccia, il colore dei tuoi occhi, la tonalità della tua pelle. Non importa dove sei, non importa dove sei stato, perché dove andremo è dove vogliamo essere, il posto in cui il linguaggio è quello dell’unità. E il continente è chiamato Pangea. E le idee principali sono collegate come una lancia. Nessuna propaganda, hanno tentato di prendere il sopravvento su di noi perché, uomo, amo questa pace… Non ho bisogno di alcun leader che usi la forza, che nutra un concetto che mi fa pensare di aver bisogno di temere mio fratello e temere mia sorella”. Ecco il video

Ed ecco la traduzione proposta da A.

Cosa c’è che non va nel mondo mamma?
La gente vive come se non avesse una madre
Penso che il mondo sia drogato di tragedie,
attratto solo dalle cose che portano danni.
Oltreoceano cerchiamo di fermare il terrorismo
ma abbiamo ancora terroristi che vivono qui
negli USA, la grande CIA
i Bloods e i Crips e il KKK.
Ma se ami solo la tua razza lasci solo spazio alla discriminazione
e discriminare genera solo odio.
E quando odi sei obbligato ad essere pieno di rabbia.
Quello che dimostri è solo la tua cattiveria
ed è esattamente il modo in cui funziona e opera la rabbia.
Devi avere l’amore per mettere a posto le cose
devi meditare e lasciare che la tua anima graviti intorno all’amore
RIT.
La gente uccide, la gente muore.
I bambini soffrono e li vedi piangere.
Puoi mettere in pratica quello che predichi e porgere l’altra guancia?
Padre, Padre, Padre, aiutaci, mandaci una guida dall’alto
Questa gente mi fa chiedere: dov’è l’amore?
Non è proprio lo stesso, sempre invariato.
Al giorno d’oggi è strano, il mondo è impazzito:
se l’amore e la pace sono così forti
perché ci sono questi pezzi d’amore che non ci appartengono?
Le nazioni lanciano le bombe,
i gas riempiono i polmoni dei bambini,
la sofferenza continua e si muore da giovani.
Perciò chiediti se l’amore è veramente sparito,
così io potrò chiedermi cosa c’è che non va.
In questo mondo in cui viviamo la gente continua ad arrendersi
prendendo decisioni sbagliate, vedendo solo dividendi.
Non si rispettano, si rinnegano tra fratelli
c’è una guerra in corso, ma le ragioni sono segrete.
La verità è tenuta nascosta sotto un tappeto.
Se non conosci la verità non conoscerai mai l’amore.
Dov’è l’amore, gente, andiamo (non lo so)
RIT.
Sento il peso del mondo sulle mie spalle.
Mentre divento grande, la gente diventa più fredda.
Molti di noi pensano solo a fare soldi.
L’egoismo ci ha portati nella direzione sbagliata,
informazioni sbagliate ci vengono mostrate dai media
che scelgono sempre le immagini negative
infettando le giovani menti più velocemente dei batteri.
I bambini vogliono fare le cose che vedono al cinema.
Cos’è successo ai valori dell’umanità?
Cos’è successo all’eguaglianza e alla parità?
Invece di diffondere amore diffondiamo ostilità.
La scarsa comprensione allontana le vite dall’unità,
ecco perché a volte mi sento depresso,
ecco perché a volte mi sento giù.
Non c’è da stupirsi se a volte mi sento depresso,
devo essere fiducioso finché non trovo l’amore.

Solo pubblicità positiva

Segnalo questa notizia ben poco incoraggiante diffusa dalla redazione di Notizie Geopolitiche.

“Le autorità di controllo dei media cinesi hanno vietato l’uso di informazioni riportate dai media stranieri. “Senza autorizzazione, nessuna organizzazione dei media può usare informazioni fornite dai media o dai siti stranieri”, si legge nella direttiva emessa dall’Amministrazione generale per la Stampa, le Pubblicazioni, la Radio, i Film e la Televisione, riportata oggi dal Telegraph. Le autorità hanno quindi aggiunto che i direttori e i giornalisti devono attenersi ai “principi di unità, stabilità e pubblicità positiva” e che le indiscrezioni fornite da “confidenti, freelance, ong e organizzazioni commerciali” non dovrebbero essere pubblicate senza una completa verifica. Secondo David Bandurski, direttore del Progetto Media Cina dell’Università di Hong Kong, queste nuove regole fanno parte del tentativo in corso di “controllare il contenuto della stampa alla fonte” e di evitare che storie scomode pubblicate dai media stranieri arrivino in Cina. Ma con centinaia di milioni di cinesi che oggi si informano on-line, tramiti siti come Weibo, questi tentativi risultano ampiamente “inutili”, ha aggiunto.”

Deduco che questa notizia non possa essere diffusa…

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Un’informazione dalle salde fondamenta

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Ho avuto un buco di 5 minuti e ho approfittato per sfogliare la rivista Sette. Mi sono imbattuto in un pezzo molto interessante di Roberto Cotroneo. La riflessione era sul nuovo modo di fare informazione oggi: “… Peccato che nessuno sa più cosa sia l’informazione sul web, e spesso gli editori e i giornalisti, che vivono un cambio di era geologica, fanno quello che sanno e quel che possono: adattano, mettono i giornali in pdf, cercano un po’ di interattività, provano a cucire il vestito dell’informazione dentro il web per dimostrare di essere moderni”. E’ un po’ la stessa cosa che ho notato un anno fa quando dovevo adottare un nuovo libro di testo a scuola: ne ho trovato solo uno veramente innovativo, tutti gli altri erano pure edizioni a schermo di quelle cartacee. Continua poi Cotroneo sull’importanza della cultura umanistica: “Il problema del web, e dell’informazione sul web, non è nell’innovazione, quella è facile: è nelle humanities. Solo che stiamo facendo morire gli studi umanistici nelle università italiane. Con danni veri. Un buon ingegnere deve imparare il greco, e un buon manager dovrebbe prima studiare san Tommaso e Aristotele, e solo dopo organizzazione aziendale. E’ finito un tempo e nessuno sa come farne iniziare uno nuovo: chi ha studi di humanities non ha potere, e chi ha potere snobba filosofia e letteratura, lingue antiche e arte. Il risultato è che abbiamo cattivo marketing, cattiva gestione manageriale e futuri tecnologici già vecchi prima di realizzarli. Tutti abbiamo bisogno di fondamenta per le nostre case. Ma senza un progetto, senza Le Corbusier che prendeva dalla sua storia, dalla sua vita, linee e idee per nuovi edifici, le fondamenta sono solo piloni di cemento armato inguardabili e inutili”.

Davanti alla complessità senza trucchi

complottismo, sospetto, complessità, semplicismo, semplicità, informazione, fiduciaDi mio non sono una persona sospettosa. Non che mi fidi di chiunque inopinatamente, ma non parto dal presupposto che la persona con cui ho a che fare voglia fregarmi. Eppure, a volte, avverto puzza di bruciato e il mio naso mi avvisa. Nell’ultima settimana mi è capitato ben due volte, e in entrambe le occasioni l’olfatto non ha mentito. La cosa mi preoccupa: o devo stare più attento e fidarmi di meno (chissà quante volte non mi sono accorto di nulla) o devo farci l’abitudine perché è così che vanno le cose e “tutti ti vogliono fregare”. Scarto immediatamente la seconda ipotesi: non mi appartiene, non ne sarei capace. Resta la prima, che penso ora di indossare senza però i panni stretti di chi vede complotti ovunque. Mi faccio aiutare da questo articolo di Angelo Panebianco su Sette del sette dicembre.

“Le teorie cospirative della storia non passano mai di moda. Conoscono anzi una più larga diffusione nelle fasi turbolente, segnate da maggiore angoscia e incertezza sulle prospettive future. Come quella che stiamo ora vivendo. Ce n’è per tutti i gusti. C’è la sempre presente “congiura degli ebrei” e c’è la “congiura dei musulmani per impadronirsi dell’Europa”. C’è la congiura ordita dai circoli dell’imperialismo americano, c’è quella che fa capo alle multinazionali, c’è quella dei tedeschi per sottomettere economicamente l’Europa e mangiarsela in un boccone. Comincia a fare capolino qua e là anche la congiura dei cinesi per impadronirsi del mondo. Coloro che hanno contratto questa malattia presentano gli stessi sintomi. Pensano che tutto ciò che accade sia il frutto di n diabolico disegno, del piano di qualche rappresentante del Male onnipotente e onnisciente. Pensano ce la storia sia riducibile a una trama che segue un copione già scritto con largo anticipo dai suddetti rappresentanti del Male. Trattengono nella loro mente le informazioni che sembrano confermare il diabolico disegno di cui sopra mentre ignorano, o distorcono, ogni informazione che possa far dubitare della sua esistenza.

E’ troppo facile attribuire i successi che riscuotono le teorie del complotto alla credulità e alla stupidità. Pur senza negare che la stupidità svolga un ruolo importante nelle vicende umane, va detto che tale spiegazione è semplicistica. Il problema è che tante persone si sentono angosciate di fronte alla complessità del mondo che le circonda, hanno bisogno, per ritrovare un po’ di sicurezza, di uno strumento interpretativo della realtà capace di trasformare miracolosamente la complessità in semplicità, e l’ambiguità in chiarezza. Le teorie cospirative rendono semplice il complicato: c’è un gruppo di malvagi, assetato di potere e di sangue, e nulla di spiacevole accade che non porti la sua firma. Grazie alla teoria del complotto il soggetto che la abbraccia ottiene due benefici: l’illusione di aver capito tutto e l’identificazione del malvagio, il responsabile di ogni male. La fragilità intellettuale di chi sposa una (qualsiasi) teoria del complotto è evidente. Ma non si può essere indulgenti. Queste pseudo-teorie vanno sempre rintuzzate con la massima energia. Perché sono, e sono sempre state, generatrici di violenza.”

Quale informazione?

In questi giorni molto si è scritto e parlato di Israele-Palestina. Qui non ho messo nulla: c’era di che informarsi abbondantemente altrove. Oggi, su Sette, ho letto questo articolo molto interessante di Aldo Grasso.

pallywood.jpg“Nella viva speranza che israeliani e palestinesi trovino presto una forma di convivenza, che le parti arrivino a una «soluzione permanente» della questione Gaza con mezzi diplomatici, è doveroso constatare come la strategia di Hamas trovi terreno fertile nella disinformazione.

La forma più elementare consiste, per esempio, nel saltare sempre le premesse. È solo Israele che reprime i palestinesi nella Striscia o questa situazione è frutto della determinazione di molti Stati arabi nel tenere Israele sotto scacco? Si può parlare di volontà di pace quando Hamas non vuole solo uno Stato palestinese, come sarebbe giusto, ma vuole la cancellazione dello Stato di Israele? La compassione per le vittime deve fare velo sulla sopravvivenza dell’unico Stato democratico in quella terra? Facile per molta parte dell’informazione saltare queste premesse, dimenticare la situazione dei Fratelli Musulmani in Egitto, della minaccia atomica iraniana, della convulsa situazione in Libano, della rivolta guidata da Al Qaeda in Siria, trascurare la dinamica di quest’ultimo conflitto (i razzi sono partiti da Gaza e sono tanti, ogni giorno). Non fa scandalo e non si approfondisce il fatto che l’Iran rifornisca Hamas di missili a lunga gittata, come se non fosse colpa di nessuno. Ma c’è una nuova forma manipolatoria che è già stata battezzata in America con il termine “Pallywood”, un neologismo composto dalla fusione di due parole, Palestina e Hollywood, a significare “la manipolazione dei media, la loro distorsione e la completa truffa da parte dei palestinesi col fine di vincere la guerra mediatica e della propaganda contro Israele”.

Gli esempi si sprecano, e sono tutti ampiamente verificabili: immagini di bambini insanguinati sui lettini d’ospedale, o addirittura morti, prese dal conflitto in Siria e spacciate come testimonianze del bombardamento su Gaza; immagini di palestinesi che scavano fra le macerie in cerca di bimbi, peccato che quegli uomini portino la kippah, il copricapo usato dagli ebrei; spreco di immagini con scritte false. Giorni fa circolava questa notizia: la responsabilità delle stragi nella Striscia di Gaza è dell’emiro del Qatar, il padrone di Al Jazeera. Sarebbe andato in visita a Gaza non per solidarietà, ma per fornire i collaborazionisti di Israele di materiale tecnologico per facilitare l’esercito israeliano nella sua opera distruttiva. Naturalmente questo materiale sui social network viene diffuso in maniera acritica, alimentando ogni tipo di odio razziale.

Ha ragione Pierluigi Battista: «Non è accettabile che sia divulgata una rappresentazione degli eventi drammatici di questi giorni come il frutto della solita smania militarista di Israele». Bisogna lavorare alla pace, ma seriamente, senza infingimenti o manipolazioni.”

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