La libertà secondo Gibran

In III stiamo parlando della libertà e allora posto un testo molto importante di Kahlil Gibran preso da Il Profeta.

E un oratore disse: Parlaci della Libertà.

E lui rispose: Alle porte della città e presso il focolare vi ho veduto, prostrati, adorare la vostra libertà, così come gli schiavi si umiliano in lodi davanti al tiranno che li uccide. Sì, al bosco sacro e all’ombra della rocca ho visto che per il più libero di voi la libertà non era che schiavitù e oppressione. E in me il cuore ha sanguinato, poiché sarete liberi solo quando lo stesso desiderio di ricercareprisonerofmyownbyshimoda75bm.jpg la libertà sarà una pratica per voi e finirete di chiamarla un fine e un compimento. In verità sarete liberi quando i vostri giorni non saranno privi di pena e le vostre notti di angoscia e di esigenze. Quando di queste cose sarà circonfusa la vostra vita, allora vi leverete al di sopra di esse nudi e senza vincoli. Ma come potrete elevarvi oltre i giorni e le notti se non spezzando le catene che all’alba della vostra conoscenza hanno imprigionato l’ora del meriggio? Quella che voi chiamate libertà è la più resistente di queste catene, benché i suoi anelli vi abbaglino scintillando al sole. E cos’è mai se non parte di voi stessi ciò che vorreste respingere per essere liberi? L’ingiusta legge che vorreste abolire è la stessa che la vostra mano vi ha scritto sulla fronte. Non potete cancellarla bruciando i libri di diritto né lavando la fronte dei vostri giudici, neppure riversandovi sopra le onde del mare. Se è un despota colui che volete detronizzare, badate prima che il trono eretto dentro di voi sia già stato distrutto. Poiché come può un tiranno governare uomini liberi e fieri, se non per una tirannia e un difetto della loro stessa libertà e del loro orgoglio? E se volete allontanare un affanno, ricordate che questo affanno non vi è stato imposto, ma voi l’avete scelto. E se volete dissipare un timore, cercatelo in voi e non nella mano di chi questo timore v’incute. In verità, ciò che anelate e temete, che vi ripugna e vi blandisce, ciò che perseguite e ciò che vorreste sfuggire, ognuna di queste cose muove nel vostro essere in un costante e incompiuto abbraccio. Come luci e ombre unite in una stretta, ogni cosa si agita in voi. E quando un’ombra svanisce, la luce che indugia diventa ombra per un’altra luce. E così quando la vostra libertà getta le catene diventa essa stessa la catena di una libertà più grande.

Gesù e Mario Luzi

Continuo la serie dei letterati e Gesù: tocca a Mario Luzi

 

 

Mario Luzi (n. 1914) in Epifania (1955, in M. Luzi, Tutte le poesie, Garzanti, Milano 1988, pp. 243-244) descrive la realtà terrena piena di questa attesa di un Avvenimento e disseminata dei semi, dei germi dell’Eterno. Chi, come i Magi è andato, ha visto che il tempo si è aperto a un futuro nuovo. L’Incarnazione è questo momento umano e divino, comprensibile non in modo intellettuale ma con la sensibilità umana di chi vede la Grazia nell’istante presente. Il verso conclusivo ricorda che il mistero della manifestazione di Dio in Cristo (“epifania”) non è remoto o lontano, ma vicino, prossimo, presente:

“Non più tardi di ieri, ancora oggi”.

In La vita cerca la vita (in M. Luzi, Frasi e incisi di un canto salutare, Garzanti, Milano 1990, pp. 23-26) c’è il confronto tra le persone massificate, che hanno dimenticato Cristo e le folle che ascoltano Gesù “in tempi di meraviglia e desiderio” e “ne avevano pace, pace e tormento”.

La mancanza di speranza è vista come la colpa più grave perché Cristo ha già salvato; anche il “punto estremo del declivio” e il più basso, è il primo passo “per l’ascesa nella misericordiosa orbita”.

Nei versi finali riecheggiano le parole di Giovanni: “ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è” (1Gv 3, 1) e quelle di Paolo: “finché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, allo stato di uomo perfetto, nella misura che con viene alla piena maturità di Cristo” (Ef 4, 13).

“[…] Non sperano. È il peccato più tremendo –

deprecavano nei loro antichissimi

ammonimenti

quelle lingue che ad essi non parlano,

quelle valve forte brusicanti del mare

di sapienza

Punto

estremo del declino

e per questo

infimo gradito per l’ascesa

nella misericordiosa orbita?

Non sappiamo ancora.

Cresce ciascuno alla sua statura,

camminano i suoi passi nella sua andatura.”

In questa visione della realtà, Luzi afferma che solo attraverso Cristo è possibile parlare di Dio; Cristo è la nostra misura. Il suo Cristo è una presenza costante, che lavora sotterraneo, nella clandestinità, una presenza reale ma mai clamorosa, evidente, senza retorica. Il Cristo di Luzi è un combattente, venuto a svegliare le coscienze, che cerca la vita e la risveglia. Ma è anche un Cristo sofferente, segnato dalla passione, la cui morte è reale, infamante, totale. Da questo punto inizia la scommessa sulla risurrezione (cfr. l’intervista a M. Luzi in E. Ferri, Quel che resta di Cristo dopo duemila anni, Edizioni Paoline, Milano 1995).

Epifania

I Magi

Ora come in ogni tempo io posso vedere con l’occhio della mente,

nei loro abiti rigidi, dipinti, i pallidi insoddisfatti

apparire e scomparire nell’azzurra profondità del cielo

con tutti i loro volti antichi simili a pietre solcati dalla pioggia,

e tutti i loro elmi d’argento che ondeggiamo l’uno accanto all’altro,

e i loro occhi ancor fissi, sperando di trovare ancora una volta,

essendo insoddisfatti del tumulto del Calvario,

l’incontrollabile mistero sul pavimento bestiale.

W.B. Yeats

Gesù e Salvatore Quasimodo

Continuo la serie dei letterati e Gesù: tocca a Salvatore Quasimodo

 

 

Salvatore Quasimodo (1901-68) appartiene alla “scuola ermetica”, che si caratterizza anche per la sua capacità di introdurre al Mistero attraverso una “poesia nutrita di stupore”. Troviamo in Quasimodo una suggestiva limpidezza e una gradevole orecchiabilità nel suo modo di scrivere. Ed è subito sera è un esempio di tutto questo:

“Ognuno sta solo sul cuor della terra

Trafitto da un raggio di sole:

Ed è subito sera.”

Nella lirica Al tuo lume naufrago il poeta si confronta con se stesso e si scopre naufrago, sradicato dai vivi, cuore provvisorio, limite vano, uomo solo.

“[…] Tu m’hai guardato dentro

nell’oscurità delle viscere:

nessuno ha la mia disperazione

nel suo cuore.

Sono un uomo solo,

un solo inferno.”

Questa poesia riprende il tema del Salmo 138, dove Dio conosce tutto dell’intimo dell’uomo. Da qui nasce la sua invocazione: “Destami dai morti”. Il poeta sa di avere da Dio il dono di “parlare” (“il tuo dono di parole”), ma è una missione che gli costa.

Con l’esperienza della II guerra mondiale Quasimodo si “converte” ai temi sociali, innanzitutto il tema del dolore e della catastrofe bellica, con riferimenti cristiani e anche al tema della risurrezione:

“E si rovescia la tua pietra

Dove esita l’immagine del mondo”

(S. QUASIMODO, Di un altro Lazzaro)

Alle fronde dei salici apre questa seconda “stagione” della produzione poetica di Quasimodo. La lirica riprende le parole del Salmo 136, che racconta la desolazione del popolo ebreo deportato a Babilonia; qui il poeta parla dello strazio della guerra e delle sue vittime, che sono descritte come Cristo sofferente. Il lamento dei fanciulli è come quello “d’agnello” e il figlio trucidato è “crocifisso”. “Le vittime rievocate dalla figura dell’agnello, vengono ora definite dal riferimento alla vittima per eccellenza, il Cristo. […] nella morte di tanti innocenti si rinnovano il sacrificio di Cristo e la sofferenza di Maria ai piedi della croce” (R. Filippetti, Gettare ponti tra poesia e vita: la Scuola ermetica e Quasimodo, in “Insegnare religione”, maggio-agosto 1999, p. 71).

Il riferimento a Cristo diventa esplicito in Uomo del mio tempo:

“Sei ancora quello della pietra e della fionda,

uomo del mio tempo ho visto: eri tu,

con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio,

senza amore, senza Cristo.”

L’uomo continua a essere violento e a uccidere come gli animali; il progresso scientifico e tecnologico hanno accresciuto questo potere di morte e la scienza esatta, senza amore, difficilmente può frenare l’istinto omicida. L’accostamento immediato “senza amore, senza Cristo” induce l’idea che Cristo sia quasi un sinonimo fatto persona della parola “amore”. Solo alla luce dell’esempio di Cristo l’uomo scopre che cosa sia la vera fraternità e non la semplice fratellanza che accomunava anche Caino e Abele, una fratellanza ricordata perché diventata il primo omicidio della storia.

L’invito finale a dimenticare pare sintonizzarsi con l’invito di Cristo: “Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu va’ e annunzia il regno di Dio” (Lc 9, 60). Non è quindi un invito a lasciare cadere la memoria ma a guardare al futuro.

Gesù ed Eugenio Montale

Continuo la serie dei letterati e Gesù: tocca a Eugenio Montale

 

 

Di Eugenio Montale (1896-1981) si ricordano raccolte famose di poesie come Ossi di seppia (1925) e Le Occasioni (1938). Dal 1967 fu sentore a vita e nel 1975 ricevette il Nobel per la letteratura.

Meriggiare pallido e assorto (del 1916) è la più famosa poesia di Montale. E’ una “lirica costruita sintatticamente su una serie di infiniti, collocati a capoverso. …dal punto di vista metrico l’ultima strofa, di cinque versi, si stacca dalle tre precedenti quartine: il gioco di rime (AABB / CDCD / EEFF / GHXGH) ci permette di scoprire il verso chiave, il 15°, l’unico non in rima sebbene mimetizzato nel fitto delle assonanze (abbaglia – meraviglia – TRAVAGLIO – muraglia – bottiglia): “com’è tutta la vita e il suo travaglio”. Pertanto al riconoscimento della vita come “travaglio” voleva condurci il poeta. Travaglio: viaggio (travel) sofferto (il latino tripalium è uno strumento di tortura), faticoso (travailler, trabajar), teso a dare alla luce, o in attesa che venga alla luce (travaglio del parto) il senso ultimo del reale, che dimora, però, irraggiungibilmente, oltre la muraglia” (R. Filippetti, Eugenio Montale: Oltre la muraglia?, in “Insegnare religione” novembre 1994, pp. 50-51).

La raccolta La Bufera e altro (1956) è il libro più religioso di Montale, dove ripetute volte compare il nome di Dio e la poesia Iride connota in senso cristiano questa religiosità. Iride nella mitologia è l’inviata di Giunone; nella Bibbia l’iride è il segno dell’alleanza tra Dio e Noé dopo il diluvio. Iride è una poesia difficile: la donna (il riferimento è a Irma Brandeis, incontrata attorno il 1932 e il 1933 e la cui figura è presente in molte poesie), chiamata in altre liriche con il nome di Clizia, è investita di una missione di salvezza che la unisce e assimila a Cristo. In apertura troviamo subito un accenno a Cristo:

“[…] il Volto insanguinato sul sudario

che mi divide da te”.

Il poeta ricorda la condizione del mondo e l’atrocità della guerra “nella lotta che me sospinge in un ossario” e nemmeno la speranza di una terra promessa impedisce di vedere questa condizione di desolazione. Che cosa dunque motiva la presenza e la missione di Clizia? Non è soltanto l’attaccamento sentimentale al poeta:

“[…] è forse quella maschera sul drappo bianco,

quell’effige di porpora che t’ha guidata?

Perché l’opera tua (che della Sua

è una forma) fiorisse in altre luci

Iri del Canaan ti dileguasti”

(E. MONTALE, Iride, in Poesia italiana del Novecento, a cura di E. Gioanola, Librex Marietti, Milano 1989, pp. 430-433)

Iride/Clizia dà forma presente all’opera di Cristo e ne continua la missione; gli ultimi due versi sottolineano come un cristiano vivo sia continuazione dell’opera di Cristo stesso. Iride diventa quindi la donna che “porta Cristo”, portatrice di senso ultimo e figura “ponte” tra Dio e il mondo, che assume deliberatamente su di sé il ruolo di vittima, facendosi continuatrice dell’opera di Cristo.

Gesù e Ada Negri

Continuo la serie dei letterati e Gesù: tocca a Ada Negri

 

Ada Negri (1870-1945), secondo alcuni critici, è la più grande poetessa italiana del XX secolo e infatti godette di grande fama internazionale durante la sua vita. Nella poesia Atto d’amore esprime tutta la sua libera e convinta adesione al mistero di Dio. E’ un atto d’amore, una dichiarazione d’amore non verso una idea astratta di Dio ma verso una “persona”. L’uso di evidenziare in nero il pronome personale indica che Dio è una persona che si può incontrare, cioè Cristo. Infatti la lirica chiude con l’invito “Resta con me”, che richiama direttamente l’incontro tra i discepoli di Emmaus e Gesù risorto (cfr. Lc 24, 13-35):

“[…] tutto

per me Tu fosti e sei, mi fa tremante

d’una gioia più grande della morte.

Resta con me, poi che la sera scende

sulla mia casa con misericordia

d’ombre e di stelle. Ch’io ti porga, al desco

umile il poco pane e l’acqua pura

della mia povertà. Resta Tu solo

accanto a me tua serva; e, nel silenzio

degli esseri, il mio cuore oda Te solo.”

(A. NEGRI, Mia giovinezza, Rizzoli, Milano 1995, pp. 70-71)

 

Gesù e Ungaretti

Continuo la serie dei letterati e Gesù: tocca a Giuseppe Ungaretti

 

Nel 1928, Giuseppe Ungaretti (1888-1970) trascorre una settimana nel monastero di Subiaco, ospite di un suo amico monaco: è la settimana santa e l’attenzione è concentrata sul mistero della passione e morte di Cristo. L’interrogativo su Dio è chiaro fin dalle composizioni del 1916 come Peso e soprattutto Dannazione (1916):

“Chiuso fra cose mortali

(Anche il cielo stellato finirà)

Perché bramo Dio?”

Tale interrogativo sul mistero di Dio si era reso più urgente durante le ore difficili della guerra del 1914-18 a cui aveva partecipato come soldato (cfr. poesie come Veglia, Soldati). Ma in alcune liriche l’attenzione si sposta sulla figura di Cristo.

In La Preghiera (del 1928) le prime tre strofe descrivono la condizione umana di peccatori; poi inizia l’invocazione tre volte ripetuta: “Fa’ che…” . Il poeta domanda che l’uomo riconosca il mistero dell’Incarnazione e della Redenzione che Cristo ha portato a termine: è l’“infinita sofferenza” che dà senso al dolore umano, ma

“L’uomo si sottrae, folle,

Alla purezza della tua passione.”

All’uomo che “deifica” la propria ragione e pretende di essere il metro di giudizio e di avere la spiegazione di tutto, il poeta prega Cristo: “Sii la misura, sii il mistero”. E’ questo un verso decisivo, in cui si contesta la pretesa moderna dell’uomo di essere il centro e la misura di tutto.

“[…] Fa’ che l’uomo torni a sentire

Che, uomo, fino a te salisti

Per l’infinita sofferenza

Sii la misura, sii il mistero.”

Mio fiume anche tu è una composizione del 1943-44, durante la seconda guerra mondiale, dopo che il poeta era rientrato dal Brasile nel 1942. Il fiume Tevere, e quindi la città di Roma, è visto come il punto di incontro tra la cultura classica e la fede cristiana. L’interrogativo sul dolore si apre e diventa un inno alla sofferenza umana che Cristo ha preso su di sé con la propria morte. Sempre in Cristo è svelato il volto di Dio. Il poeta può dire: “Vedo ora chiaro nella notte triste / Vedo ora nella notte triste, imparo”. E’ il passaggio alla chiarezza e alla certezza della salvezza in Cristo “pensoso palpito / Astro incarnato nell’umane tenebre”. Il cuore di Cristo è la fonte dell’amore vero, non quello vano e vuoto. Negli ultimi versi riecheggia in modo evidente il Sanctus della Messa e più ancora la visione di Isaia che vede i cherubini glorificare Dio tre volte Santo (cfr. Is 6, 3): qui la maestà e la grandezza di Dio sono nella sua sofferenza: “come fratello t’immoli” per riedificare l’uomo e liberare dalla morte.

“[…] “Cristo, pensoso palpito,

Perché la Tua bontà

S’è tanto allontanata?”. […]

L’uomo si sottrae, folle,

Alla purezza della Tua passione […]

Cristo, pensoso palpito,

Astro incarnato nell’umane tenebre,

Fratello che t’immoli

Perennemente per riedificare”

(G. UNGARETTI, Mio fiume anche Tu, in Vita d’un uomo, I Meridiani, Mondadori, Milano 1977)

Cristo resta il modello di giustizia insuperabile; per questo Ungaretti scrive:

“Bisogna riuscire a unire, a fondere il sentimento della giustizia e dell’uguaglianza con il sentimento della libertà, che è poi il sentimento che ci ricongiunge all’insegnamento più profondo del Vangelo. E credo che l’adempimento del messaggio di Gesù sia la missione alla quale deve tendere ogni uomo di buona volontà.”

(G. UNGARETTI, in La guerra di Ungaretti, in “Avvenire”, 15 agosto 2000, p. 25)

Gesù e Manzoni

Inizio con oggi una nuova sezione, frutto non di idee mie ma del saccheggio di vari autori. Posterò dei testi che mostreranno come la figura di Gesù è stata affrontata da alcuni letterati italiani. Partiamo da Alessandro Manzoni

 

Alessandro Manzoni (1785-1873), dopo l’avvicinamento al cristianesimo, presenta una fede fondata sulla ragione che scopre la validità e l’evidenza del cristianesimo. In questa prospettiva la sua produzione letteraria ha cercato anche di affermare la presenza di Cristo al centro della storia (Inni Sacri) e di mostrarne l’incidenza anche nella vita quotidiana e civile (liriche civili, tragedie, romanzo).

In Il Natale del 1813, l’uomo è presentato come incapace di salvarsi con le sole sue forze, non può autoredimersi. Contrappone la sorte del genere umano, avvilito dal peccato, al messaggio di salvezza recato dalla nascita di Cristo. Per questo “Oggi Egli è nato” (v. 57): quell’“Oggi”, pur cronaca d’un giorno passato, ha la data di ogni giorno e ripete l’antifona liturgica propria del Natale. Cristo, nato a Betlemme, è Dio, il Re del Cielo, ma è anche un fanciullo, un bambino che “all’uomo la mano Ei porge”: è l’offerta di salvezza che viene da Dio. I fortunati pastori videro e riconobbero in Gesù il Figlio di Dio, ma

“[…] i popoli

Chi nato sia non sanno;

Ma il dì verrà che nobile

Retaggio tuo saranno;

Che in quell’umil riposo,

Che nella polve ascoso,

Conosceranno il Re.”

(A. MANZONI, Il Natale, vv. 106-112)

Nella nascita di Cristo si sigla la nuova alleanza tra Dio e l’uomo, “raccontata” attraverso una rivisitazione originale del testo dei Vangeli. Ma il misterioso amore di Dio è presente anche nella crocifissione di Cristo.

“Egli è il Giusto che i vili han trafitto,

Ma tacente, ma senza tenzone;

Egli è il Giusto; e di tutti il delitto

Il Signor sul suo capo versò.

Egli è il Santo,

Volle l’onte, e nell’anima il duolo,

E l’angosce di morte sentire,

E il terror che seconda il fallire,

Ei che mai non conobbe il fallir.”

(A. MANZONI, La Passione , vv. 25-40)

La Risurrezione è il completamento del mistero di Cristo: ora la salvezza è offerta a tutti gli uomini destinati a risorgere con Cristo.

“È risorto; non è qui.

[…] Nel Signor chi si confida

Col Signor risorgerà.”

(A. MANZONI, La Risurrezione , vv. 68, 111-112)

E’ sul mistero di Cristo Salvatore che si fonda la dignità dell’uomo; l’uomo scopre il proprio valore “pensando a Cui somiglia”. Sempre questa “somiglianza” con Cristo fonda anche la vera fratellanza, non quella di derivazione illuminista, ma quella cristiana:

“Tutti fatti a sembianza d’un Solo,

figli tutti di un solo Riscatto

[…] siam fratelli”

(A. MANZONI, dal grande Coro del Conte di Carmagnola)

Anche tutto il romanzo dei Promessi sposi è pervaso da questa presenza di Dio e della salvezza cristiana. Sono i “poveri in spirito”, come Gesù ha insegnato nelle Beatitudini, che sanno riconoscere la presenza della Provvidenza nella storia e sanno attraversare le prove e le difficoltà, fino a imitare Cristo nell’offerta del proprio dolore, nel perdono offerto e nella preghiera per i propri nemici.

Ma nel romanzo emerge con chiarezza che la figura di fra Cristoforo è l’immagine di Cristo. Dopo la sua conversione, Ludovico si fa frate: la nuova identità di Ludovico è quella di essere “Cristoforo”, cioè “portatore di Cristo”, fino a morire curando il prossimo, amato da Dio. Renzo lo ha incontrato – “sensibil forma” di Cristo – e lo porta nel cuore. Si può dire che Fra Cristoforo, come Gesù, “passò beneficando e risanando” (At 10, 38). Alcuni tratti della sua personalità somigliano a quelli di Gesù: nel lazzaretto, quando a Renzo la rabbia fa “perdere il lume degli occhi” (cap. XXXV), fra Cristoforo allontana il giovane bruscamente, come Cristo con Pietro (cfr. Mt 18, 22); allora Renzo perdona di cuore il suo persecutore. Infine c’è la consegna del “pane del perdono”: è la continuazione di una memoria, di un perdono offerto e ricevuto, la consegna ultima e definitiva con la quale fra Cristoforo si congeda, come il pane consegnato da Cristo ai i suoi discepoli nell’ultima cena perché sia memoria viva della sua presenza.

Nei Promessi sposi non compare come personaggio Gesù; e il cercarlo è come la sfida dell’Innominato davanti al cardinal Federigo Borromeo:

“Dio! Dio! Dio! Se lo vedessi! Se lo sentissi!! Dov’è questo Dio?”.

Ma Manzoni lascia intendere le tracce della presenza di Cristo e del suo messaggio nei personaggi, nei gesti, nelle parole.

 

Accusare Dio

Usa, un senatore vuole fare causa a Dio 1999251223.jpg

“Respinta, l’Onnipotente non ha indirizzo”

Il giudice: è impossibile notificare l’atto all’accusato

di MARCO PASQUA

Aveva fatto causa a Dio, responsabile, a suo dire, di aver diffuso paura e terrore in tutto il mondo. Ma il procedimento giudiziario non avrà alcun seguito: un giudice del Nebraska lo ha infatti respinto, perché Dio non ha alcun indirizzo al quale poter notificare l’avvio della causa. Si chiude così la vicenda che vede protagonista lo storico senatore democratico del Nebraska, Ernie Chambers, che, il 14 settembre dello scorso anno, aveva depositato la sua provocatoria causa in una corte del Nebraska.

Secondo il documento redatto dal senatore 71enne (definito da molti “l’uomo di colore più arrabbiato di tutto lo Stato”), Dio e tutti i suoi seguaci, sarebbero responsabili “delle continue minacce terroristiche, con conseguenti danni per milioni e milioni di persone in tutto il mondo”. Minacce la cui credibilità è avallata, secondo Chambers, “dalla storia personale di Dio”.

Nel documento gli si attribuisce anche la responsabilità di “terremoti, uragani, guerre e nascite di bimbi con malformazioni”. Ancora: Dio è accusato di aver “distribuito, in forma scritta, documenti che servono a trasmettere paura, ansia, terrore e incertezza, al fine di ottenere obbedienza” da parte degli uomini.

Chambers ha spiegato di aver avviato questo procedimento per dimostrare che “tutti possono avere accesso a una corte, indipendentemente dal fatto se siano ricchi o poveri” e per sottolineare che “ognuno può essere citato in giudizio”. Il suo obiettivo era di ottenere dai giudici una diffida, in cui si sarebbe dovuto sollecitare Dio a interrompere ogni genere di “minaccia” sul mondo.

La causa, comunque, non avrà alcun seguito, perché “non è stato possibile reperire un indirizzo ufficiale di Dio”. Il giudice Marlon Polk si è appellato a una legge del Nebraska, secondo la quale chi avvia un procedimento giudiziario deve avere l’indirizzo della persona chiamata a difendersi in aula.

Chambers non si dà per vinto, e anzi si è detto soddisfatto della decisione del giudice. “La corte – ha dichiarato – ha ammesso l’esistenza di Dio. La conseguenza di questa decisione è che viene riconosciuta l’onniscienza di Dio. Quindi, se è vero che sa tutto, deve anche essere a conoscenza di questa causa”. Il senatore, che è in carica da 38 anni, ha adesso 30 giorni di tempo per decidere se fare appello.

Mumble mumble

Nel libro “Tenebre su tenebre” di Ferdinando Camon a pag. 9 si leggono queste parole che mi sono tornate alla mente in questi giorni in cui si è riparlato di Eluana Englaro:38551527.jpg

“Di fronte ai casi di giovani o vecchi tenuti in vita in condizioni dì enorme sofferenza (sepolti in polmoni d’acciaio, in camere di rianimazione, intubati, con assistenza ininterrotta, diurna e notturna, tra strumenti e medicinali di ogni tipo), esseri umani che non possono né lavorare né godere ma soltanto soffrire, e che comunicano solo con uno sguardo, un sospiro, il silenzio, noi sentiamo che i medici curanti conducono una lotta meritoria, anche se si dovesse tradurre, come spesso succede, non nella guarigione, ma in un semplice prolungamento dell’esistenza per qualche settimana, qualche giorno, qualche ora, un minuto: in quel minuto è possibile che colui che è ancora vivo senta qualcosa che non aveva mai sentito, un pensiero, un’emozione, che scopra una novità: fosse pure che tutti vogliono salvarlo pur sapendo già che non ce la faranno che nessuno si arrende pur sapendo già che lui si è arreso: se egli se ne va con la sensazione che tutti vogliono trattenerlo mentre precipita, la sua vita è profondamente diversa da quella di chi precipita sentendo che tutti lo mollano e lo spingono.

Un mondo in cui gli altri ti aiutano anche quando non ce la fai più, è migliore del mondo in cui, se vuoi un’iniezione mortale, c’è il medico pronto con la siringa in mano.

Ma questo vale finché un filo, magari sottile, congiunge la corteccia cerebrale al sistema nervoso. Tagliato quel filo, è tagliata la vita. Il malato non è più tra noi, e non potrà tornare.

Il credente non vuole che al malato in stadio vegetativo da quindici anni si stacchi la macchina che lo nutre, perché la vita del malato è legata a un principio che la supera. Ma questa è fede, non è amore.

Il medico lascia che il malato muoia di fame e di sete, anche se ci mette settimane, perché non vuole infrangere la legge.

L’amico va al malato e gli da una morte dolce, istantanea e indolore.

Il credente ama Dio, il medico ama la scienza, solo l’amico ama l’amico.

Ma l’amico ama l’uomo e ama Dio: Dio ha deciso che quell’uomo deve finire, l’amico rispetta questa decisione e vi collabora.

Il credente che fa vivere il malato nell’incoscienza all’infinito non ha pietà del malato né dei famigliari né degli uomini in generale. Il medico che lascia morire il malato di morte naturale, per giorni e giorni, non ha pietà del malato né dei suoi parenti né di chiunque venga a conoscere quella morte. L’amico che uccide il malato dolcemente ha pietà dell’amico, e avendo pietà dell’amico ha pietà di sé stesso e della condizione umana.”

Seminari: e i seminatori?

Traggo dal sito di Adista un’interessante notizia

 

UN PRETE DENUNCIA: I SEMINARI CI FORMANO PER ESSERE FUNZIONARI DI UNA CHIESA SONNOLENTA

34612. ROMA-ADISTA. Qualche tempo fa (v. Adista n. 45/08), raccontavamo la vicenda di un seminarista – Cristian Leonardelli – che, per poter diventare prete aveva dovuto trasmigrare dalla sua diocesi – Trento – fino a Livorno. Motivo: il suo “eccessivo” spirito critico, unito alla lettura di una stampa considerata non “edificante” per un aspirante presbitero, come quella di Adista, aveva suggerito al vescovo di Trento, mons. Luigi Bressan, di soprassedere all’ordinazione. Ebbene, qualche giorno fa don Cristian ci ha scritto, per precisare ulteriormente la sua vicenda e inserirla all’interno della più generale questione di come avviene oggi la formazione dei nuovi preti. La riproduciamo qui di seguito (v. g.)

Cara Adista,

sono don Cristian e scrivo in relazione all’articolo del n. 45 di Adista, intitolato: “Hai spirito critico? Leggi Adista? Allora non puoi fare il prete.” In esso si racconta brevemente della mia traversia nella diocesi di Trento conclusasi poi con l’ordinazione nella diocesi di Livorno. Ci tenevo a far sì che quanto mi è accaduto non si riducesse ad una faccenda personale tra me e il vescovo, ma desse l’opportunità per una riflessione di più ampio respiro, magari su Adista, riguardo i criteri di selezione dei candidati al sacerdozio. Penso infatti che questi criteri siano lo specchio di come oggi vive e ragiona la nostra Chiesa. Quale prete vogliamo oggi? E quale Chiesa sogniamo? Sono due facce della stessa domanda. La mia esperienza mi dice che nella “recluta” e nella formazione dei preti ben difficilmente sono “premiate” quelle persone leali, vere e dotate di quello spirito di amore per la ricerca e per la critica costruttiva. Quasi sempre sono preferite persone conformiste, inquadrate nei ranghi e che raramente sollevano questioni: è ovvio sono più funzionali alla nostra sonnolenta istituzione Chiesa che preferisce non aver a che fare con “rompiscatole” che potrebbero mettere in discussione modi di fare e di pensare. Difficilmente trovano spazio quelle persone che portano avanti “visioni” differenti da quelle ufficiali, coloro che manifestano dissenso, anche se affettuoso e creativo, fanno fatica ad esprimersi… come mai? Quale idea di Chiesa e, ancora più profondamente, quale idea di Dio nasconde questo modo di fare e di agire? Forse che arruolando nel clero (o tra i cristiani con responsabilità ecclesiali) persone appiattite nel sistema, prive di “spina dorsale”, di capacità critica, di amore per la verità, si pensa di portare elementi di pace? Penso che scansare problemi, evitare i riscontri, negarsi la realtà non siano elementi di pace ma piuttosto il modo per introdurre conflitti più ampi. Rinviare il confronto significa accumulare equivoci, frustrazioni, voglia di rivalsa. La pace di Cristo è proiettata nel futuro e non può crescere e realizzarsi finché ci sono ipocrisie in agguato, pronte a rivangare problemi accantonati. Pensare secondo Dio, uscire dall’individualismo, cercare il bene comune anche a rischio di generare conflitti: ecco il Regno di Dio. Infatti sovente nella storia i seguaci di Gesù sono stati perseguitati, e non soltanto da chi militava su fronti avversi, ma anche da appartenenti all’ambiente cristiano, da coloro che usano strumentalizzare il nome di Cristo per adattarlo a interessi di governo e di potere. L’indicazione è sempre la stessa: non chi dice “Signore Signore” rischia persecuzioni, ma “chi fa la volontà del Padre” (Mt 7,21). Certo non è utile nessuna contrapposizione conflittuale, ma solo un paziente, deciso e perseverante lavoro di trasformazione, per poter continuare a credere che al ripetersi della domanda: “Ma il figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?” (Lc 18,8), ci sarà qualcuno che risponderà: “Eccomi!”.

P. S. Dalla lettera di don Milani a don Coccio (3/2/1961):

“La vocazione di don Abbondio (cioè quella che in un seminario viene presentata come perfezione sotto il falso nome di Prudenza, Umiltà, Sottomissione) non era la vocazione dei Martiri che han fatto la Chiesa. E se l’essere cristiano non implicasse automaticamente l’opposizione alle autorità costituite, ai benpensanti, ai potenti, Gesù non sarebbe stato condannato a morte e nessuno degli altri suoi martiri che vennero dopo di lui. Dunque dai seminari così come sono ora non può in nessun modo uscire un cristiano cioè un chiamato alla persecuzione dei potenti (compresi i potenti ecclesiastici) e se è necessario al martirio”.

Radici

E’ da un po’ che nelle librerie è uscito il libro “Inchiesta sul cristianesimo. Come si costruisce una religione”654670880.jpg (Mondadori), scritto a due mani da Augias-Cacitti. Non voglio entrare nel merito del libro, ma desidero cogliere l’occasione per postare un interessante fondo di Roberto Beretta uscito su Avvenire il 24 settembre.

 

Ma intanto noi cristiani che cosa sappiamo delle nostre origini? 
Però su una cosa, almeno, Corrado Augias ha ragione. 
Dopo la polemica sollevata dal
Codice da Vinci (libro e film); dopo i presunti scoop sul Vangelo della Maddalena e su quello di Giuda; dopo il precedente lavoro di Augias, in coppia con Mauro Pesce e dedicato a un’Inchiesta su Gesù: dopo tutti questi segnali, raggruppati per giunta in un breve spazio di tempo, dovremmo aver finalmente imparato che le origini cristiane fanno davvero problema ai nostri contemporanei. Nel senso che interessano e creano difficoltà.
Interessano: sono passati gli anni dell’indifferenza snobistica o addirittura compassionevole verso le «cose della fede», dell’alzata di spalle strafottente o del risolino razionalista; oggi la gente – soprattutto i non credenti, o i non del tutto convinti, e quelli di un certo livello culturale – sono comunque interessati a saperne di più sulle origini storiche e culturali del cristianesimo, a penetrare almeno un po’ le complessità di un mistero che è comunque affascinante per l’intelligenza. Chiedono però di farlo con strumenti « obiettivi » nel senso di non dichiaratamente confessionali (della Chiese non si fidano più).

Inoltre le origini cristiane creano anche difficoltà, e ciò soprattutto in casa cattolica: ne fanno testimonianza le scandalizzate reazioni spesso seguite ai fenomeni di cui sopra (e che in realtà non hanno fatto altro che amplificarne gli effetti e la pubblicità…), gli ostracismi o le censure, l’impostazione difensiva e vetustamente «apologetica» assunta in molti casi nei confronti dei vari Brown e Augias. Non che non si debba supporre del veteroanticlericalismo anche da quella parte; ma il punto è: quanti di noi credenti – compresi quelli praticanti e « impegnati » , starei per dire compresi i preti – sono informati delle questioni problematicamente poste sul tappeto dalle opere sopra citate e dall’Inchiesta
sul cristianesimo in specie? Informàti, dico: nemmeno si pretende che sappiano correttamente rispondere o porre pertinenti contro-deduzioni in materia, ma solo che siano consapevoli dell’esistenza – a livelli esegetici o storici – di una questione aperta… Non rispondo, ma penso alle migliaia di catechesi imbandite in tutte le parrocchie dello Stivale, alle centinaia di prediche domenicali, alle ore di religione cui partecipano il 90% e oltre degli alunni delle scuole d’ogni ordine. Stiamo a lambiccarci il cervello da decenni sui modi per raggiungere i mitici « lontani » oppure sull’impostazione da dare alle catechesi per gli adulti, e ci lasciamo scippare sotto il naso una materia che sarebbe «nostra» in tutto e per tutto, che interessa proprio degli adulti e dei «lontani» e che ottiene persino successo di pubblico! Io, a questo punto, qualche domanda me la farei. E prima ancora di gridare allo scandalo contro i «dissacratori» della fede.

Perché è venuto Gesù e non Dio?

Molto interessante questo articolo di Luigi Accattoli preso da Il Regno 

«Perchè Dio Padre non è venuto lui?»

Le domande impossibili che assediano i credenti

Perché Dio Padre non è venuto lui invece di mandare il Figlio? A lui avrei creduto»: è la domanda più straordinaria che mi sia stata fatta al termine di una conferenza. L’ho ascoltata a Opera (Milano), giovedì 3 maggio, da un operaio con la quinta elementare. «Credere oggi» era il tema dell’incontro che si teneva presso la Biblioteca comunale. Altre domande a cui nessuno potrebbe rispondere mi ero sentito rivolgere in altre serate. «Perché Dio non si fa sentire anche oggi in maniera chiara, come quando chiamò Mosè dal roveto ardente?». «Perché i miracoli li dobbiamo leggere solo sui libri? Se io vedessi un morto che torna in vita allora sì che crederei!».

f095fc0602bd193192b357b58e242afb.jpgSe avremo un corpo perché non potremo amarci?

«Perché non ci sono intorno a noi delle persone con il dono delle guarigioni? Io credo che sarebbe un grande aiuto a credere se il Signore ne mandasse almeno una in ogni città». «Come conciliare il dolore fisico e l’inferno con l’affermazione che Dio è amore?». «In paradiso riconosceremo le persone?». «Se avremo un corpo perché non potremo amarci?». «Come farò a riconoscere il mio bambino che è nato morto e che non mi hanno fatto vedere?». «Nel Regno dei cieli ritroveremo gli animali?».

C’è anche chi mi prende da parte e m’interroga sull’apertura alla vita perché ha già tre figli e il prete gli ha detto che non può usare contraccettivi. Su come comportarsi con una figlia ribelle. O con una sorella «prodiga». Chi mi chiede se non tradisca la moglie morta risposandosi e me lo chiede perché ha sentito che io mi sono risposato. Come perdonare il tradimento del marito. Come si fa a essere cristiani lavorando a Repubblica e al Corriere della sera.

Le domande sui comportamenti le accetto tutte e propongo la mia riflessione. Ma le domande teologiche mi lasciano ammutolito e per fortuna non sono un teologo!

Perché non è venuto il Padre? Chi potrebbe rispondere? Dio nessuno mai l’ha veduto e nessuno può vederlo e restare vivo. Nessuno può azzardare un ragionamento mettendosi dal suo punto di vista. Quando toccò a Mosè entrare in contatto con lui dovette limitarsi a vederlo «di spalle». E ciononostante il suo volto divenne «raggiante» tanto che doveva «velarsi» quando si mostrava al popolo.

Ho provato a dire così a Opera ma il mio interlocutore insisteva: «Se si faceva vedere, io gli credevo».

«Si è fatto conoscere attraverso il Figlio. “Chi vede me vede il Padre”, ci ha detto Gesù».

«Provi a convincermi che debbo credere a quello che degli uomini ci hanno raccontato riguardo a uno che ci ha parlato del Padre».

Ci ho provato ma non ci sono riuscito. Ho detto che ne andava di mezzo la nostra libertà. Che Dio vuole essere amato e non vuole imporsi con la potenza. Manda dunque il Figlio a parlare ai figli. Alcuni ne convince e questi trasmettono agli altri il messaggio, da uomo a uomo. Questa è la via di Dio tra noi. L’uomo è la sua via. Il mio interlocutore scuoteva la testa. Gli ho chiesto se mai avesse posto quella domanda ad altri e mi ha detto che era la prima volta che la faceva in pubblico, ma da tanto la pensava. Proprio a me doveva farla!

I deboli segnali che manda nel mondo

La domanda sul perché Dio parli sottovoce e non si preoccupi di farsi udire bene e da tutti mi era invece arrivata spesso. L’ultima volta ho potuto rispondere seguendo la traccia più autorevole: quella fornita da Joseph Ratzinger – Benedetto XVI nel libro Gesù di Nazaret (Rizzoli, Milano 2007).

Ci assicura il papa – facendoci avvertiti che ognuno può contraddirlo, in quanto parla da cristiano e non da vescovo di Roma – che Dio non tace ma il suo è un «silenzioso parlarci». E’ necessario il dono di una particolare «sensibilità interiore» che ci renda «capaci di udire e vedere i deboli segnali che Dio manda nel mondo».

Sono riflessioni che trovo alle pagine 117 e 116 del volume del papa. A pagina 56 svolge una riflessione più ampia sulla fioca parola di Dio, invitandoci ad accettarne il mistero, che possiamo penetrare solo con lo «slancio del cuore» e come uscendo da noi stessi: «Naturalmente ci si può chiedere perché Dio non abbia creato un mondo in cui la sua presenza fosse più manifesta; perché Cristo non abbia lasciato dietro di sé un ben altro splendore della sua presenza, che colpisse chiunque in modo irresistibile. Questo è il mistero di Dio e dell’uomo, che non possiamo penetrare. Noi viviamo in questo mondo nel quale appunto Dio non ha l’evidenza di una cosa che si possa toccare con mano, ma può essere cercato e trovato solo attraverso lo slancio del cuore, l’esodo dall’Egitto».

Più indifesi di quanto vorremmo

Fin dalla prima lettura del volume questi richiami all’accettazione del mistero sono le righe che più mi hanno segnato. Il papa c’invita a considerare la condizione indifesa in cui i cristiani si trovano nel mondo. Più indifesa di quanto non vorremmo. Privi di qualsiasi prova provata, chiamati a gettare le reti sulla parola del Signore che giunge a noi – appunto – come un «debole segnale».

Dio che parla sottovoce fa parte dunque del mistero. E da qui si può capire la ribellione dell’uomo tecnologico, teso alla funzionalità dei gesti e dei concetti. Di questa ribellione del-l’umanità contemporanea aveva già detto sapientemente l’altro papa in una delle sue parole più profonde: «L’uomo non è capace di sopportare l’eccesso del mistero. Non vuole esserne pervaso e sopraffatto» (GIOVANNI PAOLO II, Varcare la soglia della speranza, Mondadori, Milano 1994, 44).

Se si sceglie di stare di fronte al mistero anche solo per breve tempo – come forse si addice a un giornalista – si raccolgono rapidamente contrarietà e sberleffi, non tanto in occasione di conferenze ma poniamo con il blog (www.luigiaccattoli.it). Ecco un visitatore agnostico che denuncia «tutta questa enfasi sul mistero», controproponendo una sua idea del cristianesimo come «religione sperimentale», che si fonda «su un fatto tecnico, la risurrezione di un morto, che in sé non ha niente di misterioso».

Prima che nella fede il mistero è nella realtà

Con questo visitatore ho insistito a dire che la parola «mistero» non è affatto inflazionata e andrebbe meglio intesa e amata. Perché dovrebbe disturbare? Chi non crede potrà anzi gradirla come segnale di una minor pretesa del credente, il quale dicendo «mistero» rimanda – per la lingua corrente – a una realtà più grande di cui non sa rendere ragione.

Il visitatore ribatte che di veramente «misterioso» egli conosce solo il coraggio dei cristiani di «credere a tutte le storie» che vengono a noi dalla Bibbia. Controreplico che anche rifiutando le «storie» cristiane il «mistero» resta comunque centrale nella vita dell’uomo: ognuno può capirmi se parlo di mistero della vita, della morte, dell’amore o dell’universo. Prima di essere nella fede il mistero è nella realtà e anche abbandonando la fede biblica il più e il decisivo resta sconosciuto alla nostra mente. Invece di accogliere l’idea di un Padre e Creatore immagineremo di essere capitati per caso in un mondo venuto dal caso, ma «credere» in questo «mistero» della casualità non sarà meno impegnativo.

Anche la speranza nel ritrovamento oltre la morte può essere oggetto di satira da parte di chi pur prova lo strazio della separazione ma ironizza così – con commenti lasciati nel blog – sull’aldilà cristiano: «Se quelli che “partono” e che volevano tanto bene a quelli che restano fossero andati veramente da qualche parte, come pensarli così crudeli da lasciarci qui a piangere disperati quando basterebbe una qualche specie di telefonata?».

Un argomento – questo dell’aldilà – che ci riconduce al concetto di «mistero». Chi crede in Dio – rispondo al visitatore – non crede a un cielo dal quale i beati ci possano raggiungere con qualche sistema fastweb o wireless. Crede a un mistero d’amore dove nulla va perso e ognuno si ritrova, certamente. Ma crede a un «mistero», non a una favola, e dunque si affida a qualcosa che va oltre ogni esperienza e conoscenza. Ciò che troverà il credente sarà «altro» dalla sua aspettativa – impreveduto, strabiliante – tanto quanto quella stessa realtà risulterà sconcertante per il non credente.

Riferisco queste diatribe per dire che nel blog e nelle conferenze mi sono capitati antagonisti decisi, ma nessuno mi è parso più determinato di quell’operaio di Opera che avrebbe preferito fosse venuto il Padre invece del Figlio. A ripensarci, mi sembra di poter dire che il libro del papa sia la migliore risposta a quell’obiezione: in particolare l’introduzione e il capitolo sulle «grandi immagini giovannee», al centro delle quali è quella della vite e del vino, con la parabola dei vignaioli, magistralmente applicata all’oggi dal papa teologo a p. 299: «Dichiariamo Dio morto, così saremo noi stessi Dio!» L’antefatto è appunto quello del proprietario della vigna che invia a trattare con i vignaioli ribelli il suo «figlio diletto».

Approfittiamo del libro su Gesù per amare il papa

Penso che tornerò sul libro del papa ma da subito butto là un’idea per i lettori che hanno qualche contenzioso con Benedetto XVI: approfittino di questo libro per amarlo. Il papa che parla di Gesù non è ciò che tutti attendiamo? Egli ci dà ora questo volume e ne promette un altro. Se non ci va granché il papa che batte sulle «radici cristiane dell’Europa» o sui «principi non negoziabili», non potremmo sintonizzarci con lui ora che affronta l’argomento degli argomenti?

In nulla Benedetto mi risulta vicino come nell’interrogazione sulla fede che caratterizza la sua predicazione. Da papa si è chiesto in che modo possiamo divenire «certi di Dio anche se tace», e ha risposto che la via è la preghiera (cf. Discorso ai vescovi svizzeri, 9.11.2006). La «forza della preghiera, della fede e dell’amore» l’aveva indicata da cardinale come via per «sollecitare Dio» a «lasciarsi coinvolgere» nella storia del mondo (Dio e il mondo, San Paolo, Cinisello Balsamo [MI] 2001, 62).

Giovedì Santo

Non c’è niente da fare, ogni volta che leggo questo brano di Turoldo mi prende una roba dentro che è qualcosa di impressionante…

Avanzatosi un poco, si prostrò con la faccia a terra e pregava. (Mt 26,39)

I
«Ed ora a noi due», avanti
di aprire per l’estremo giudizio le carte:

anche Tu
inoltrando ti ormai nella Notte
solo, assenti
i tuoi o lontani,
gravati gli occhi dal sonno;

solo
anche tu con la mole
del mondo sul cuore;

solo,
sotto la cupa volta del cielo,
un cielo ancor più assente
e sordo
e lontano;

e la Notte nera,
via via ancor più nera; e gli occhi
un grumo di lacrime e fango,
lacrime e sangue:
sangue dalla fronte, dal viso,
dalle mani, sangue e terra
e fili d’erba sulla bocca;

anche Tu, solo:
solo uomo, perfettamente uomo, pienezza
di umanità: «Per questo,
per questo…».

Interrompa
il novello scriba le ciance,
ritorni il silenzio!
Mai nessuno ha saputo.
Pur voi, o Teologi, lasciate…

II
Perfino gli olivi piangevano
quella Notte, e le pietre
erano più pallide e immobili,
l’aria tremava tra ramo e ramo
quella Notte.

E dicevi:
«Padre, se è possibile…». Così
da questa ringhiera
quale un reticolato da campo
di concentramento, iniziava
la tua Notte.

Si è levata la più densa Notte
sul mondo: tra questa
e l’altra preghiera estrema:

«Perché, ma perché, mio Dio…».
Notte senza un lume: disperata
tua e nostra Notte. «Perché…?».

III
[… ]
Anche Tu
hai urlato «perché» dall’alto
di quella Cima, e nessuna
risposta è venuta (allora!).
E l’urlo si spandeva a onde
nel cielo cupo e sordo;
un cielo – almeno allora – vuoto,
squarciato dal tuo grido cui
una eco interminabile
ancora si effonde
di balza in balza su clivi
di millenni: «perché, perché…».
E dunque,

anche Tu
finivi con la certezza di essere
un abbandonato.

Anche Tu
non sapevi! E hai gridato il perché
di tutti i maledetti, appesi
ai patiboli. E non era
desiderio di sapere le ragioni del morire:
non questo, non la morte è l’enigma (oh,
la bella morte di chi
operoso e carico di anni
saluta i figli e tramonta come
dopo lungo giorno il sole
si cala a sera).

Mistero è che nessuno comprende
come tu possa, Dio, coesistere
insieme al Male, insieme al lungo
penare di un bimbo, insieme
alla interminabile agonia del Giusto;
quando la certezza di essere soli divampa

dagli occhi del torturato (e Tu
non intervieni); quando
il sospetto del Nulla ti avvinghia e navighi,
mozzato il respiro, entro irreali abissi.
È questo tuo abbandono
il più nero enigma, o Cristo.

IV

E dunque
anche Tu
ateo? … Fu questa
la tua vera Notte, Signore,
la tua discesa agl’Inferi
avanti che ti accogliesse
nel suo ventre la Terra.

La filosofia di Charlie Brown

Alcune cose non le condivido, ma penso sia comunque interessante

Charlie Brown esistenzialista

L’assenza del Grande Cocomero

di Nathan Radke

Il successo di un anti-eroe

Il nostro anti-eroe è seduto e abbattuto, è solo, sia fisicamente sia psicologicamente, lontano dai suoi simili sta aspettando impaurito la punizione per le sue azioni. Disperato, cerca conforto e speranza in Dio. Invece l’angoscia lo pervade e si manifesta come dolore fisico. Non trova conforto. Povero Charlie Brown: sta fuori dell’ufficio del direttore, aspettando di sentire che cosa gli succederà. Formula una piccola preghiera, ma tutto quello che ottiene è un mal di stomaco. Quando si è abituati a qualcosa, si può perderne di vista il valore: i lettori di giornali hanno avuto sott’occhio le strisce di Charles Schulz, Peanuts, per più di mezzo secolo. Anche adesso, dopo pochi anni dalla morte di Schulz, molti giornali continuano a pubblicare le sue strisce e le librerie offrono collezioni dei Peanuts. I suoi personaggi sono molto utilizzati nella pubblicità, e in dicembre i networks programmano lo speciale Charlie Brown Natale. Quale teoria può vantare una diffusione così grande e duratura?

Il Vangelo secondo i Peanuts

Si è molto dibattuto se i Peanuts possano essere considerati come una voce del cristianesimo conservatore e sono anche stati pubblicati parecchi libri, come quello del 1965 The Gospel According To Peanuts. Ciò non è senza motivo: anche uno sguardo superficiale ad un’antologia Peanuts evidenzia moltissimi riferimenti biblici. Però sarebbe un errore pensare che i riferimenti filosofici di Schulz si limitino alla religione. Schulz aveva un grande interesse per la Bibbia e gli insegnamenti di Gesù Cristo, ma era anche molto diffidente rispetto agli atteggiamenti religiosi dogmatici. In un’intervista del 1981, rifiutò di definirsi religioso sostenendo di “non sapere che cosa significa religione”. Charlie Brown non è stato certo un missionario a fumetti, votato a diffondere per il mondo la religione. Se ci si riflette, le esperienze e i dispiaceri del piccolo eroe forniscono riferimenti all’esistenzialismo molto profondi e toccanti. Una tale miscela di pensiero religioso ed esistenzialista non è comune. Il filosofo danese cristiano Soren Kierkegaard fu uno dei primi esistenzialisti, ma le sue credenze religiose influenzarono la sua filosofia, anziché limitarla. Egli pose a confronto la sua profonda certezza dell’esistenza di Dio con il silenzio assoluto che echeggiava dalle preghiere degli uomini e il risultato fu la sua teoria della fede e della libertà. Per quanto riguarda Schulz, non si considerava né religioso né esistenzialista. Non ebbe dimestichezza con questo termine fino alla metà degli anni cinquanta, quando lesse qualche articolo di giornale su Jean Paul Sartre. Certamente non aveva una gran preparazione filosofica, eppure i suoi disegni semplici e lineari forniscono lumi sulle domande e i problemi posti dall’esistenzialismo. Per capire le attitudini filosofiche di Schulz basta far riferimento ai suoi fumetti.

Bambini senza adulti, gettati nel mondo

Nel suo lavoro del 1946, L’esistenzialismo è un umanesimo, Sartre mette in evidenza alcuni aspetti fondamentali delle sue teorie: una delle idee forti è quella dell’abbandono. Kierkegaard sentiva la presenza di un abisso incolmabile tra l’uomo e Dio, Sartre aggiunge che, anche ammessa l’esistenza di un Dio inconoscibile e irraggiungibile, non ne consegue alcuna differenza per la condizione umana. In ultima analisi noi esistiamo in uno stato di libertà e abbandono, siamo responsabili delle nostre azioni e, poiché Sartre sostiene che non esiste un Dio creatore della natura umana, noi siamo responsabili della nostra stessa creazione. Quale relazione esiste tra tutto questo e i Peanuts? Come gli esistenzialisti in un mondo di divinità silenziose e assenti, i personaggi di Schulz sono immersi in un mondo in cui l’autorità degli adulti è silenziosa e assente. In effetti, lo stile della striscia, con i piccoli attori che occupano tutta l’inquadratura, esclude la presenza degli adulti. L’autore sostiene che, se nelle strisce comparissero degli adulti, i racconti perderebbero significato. Anche se talvolta compaiono riferimenti agli adulti, quasi sempre insegnanti, queste figure rimangono sempre estranee e silenziose; i bambini dei Peanuts sono lasciati ai loro impulsi, a sperimentare e a capire il mondo nel quale si trovano immersi e devono darsi una mano l’un l’altro – vedi il fiorente chiosco psichiatrico di Lucy (cinque cents a consultazione, un prezzo davvero buono).

Linus e la divinità assente

L’esempio ideale d’abbandono è la relazione tra Linus e il Grande Cocomero: alla festa di Halloween Linus aspetta fiducioso vicino al campo delle zucche nella speranza di essere benedetto dalla santa esperienza della visita del Grande Cocomero, che ovviamente non si mostra mai e non risponde alle sue lettere. Nonostante ciò, Linus rimane fermo nelle sue convinzioni, anzi va in giro a parlare della sua divinità assente. Esiste il Grande Cocomero? Non si può mai sapere. Ma da un punto di vista esistenzialista questo non importa, la cosa più importante è che Linus è solo e abbandonato nel suo campo di zucche. Sartre malvolentieri nega l’esistenza di Dio, invece considera “estremamente svantaggioso che Dio non esista, perché ciò fa sparire ogni possibilità di trovare valori in un paradiso conoscibile”. Senza Dio, tutto ciò che noi facciamo come umani è assurdo e senza significato, e lo sarebbe anche passare una notte intera in un campo di zucche. In assenza di qualsiasi indirizzo da parte delle famiglie, i personaggi dei Peanuts sono diventati così esperti di filosofia da stabilire da soli che cosa è giusto e che cosa è sbagliato. Quando Linus ha una spina nel dito, scoppia un conflitto tra il determinismo teologico di Lucy – egli è punito per qualche sua azione malvagia- e l’indeterminatezza filosofica di Charlie Brown. Poi, quando il dito guarisce, la posizione di Lucy crolla. A Natale Linus in una lettera a Babbo Natale ne mette in discussione i principi etici riguardo alle azioni buone o cattive d’ogni singolo bambino. “Che cosa è bene e che cosa è male?” chiede Linus. Buone domande.

Codardia, disperazione e malafede

Dall’enorme libertà, che deriva dall’abbandono, scaturisce un’altra considerazione importante e drammatica. Nel nostro piccolo mondo, noi siamo ciò che facciamo e siamo responsabili delle nostre azioni, quindi siamo responsabili della nostra stessa creazione. Ciò che siamo è la somma di tutto ciò che abbiamo fatto, niente di meno e niente di più. Ma perché questo provoca disperazione? Per rispondere a questa domanda Sartre esamina le caratteristiche della codardia e del coraggio. Quando illustra la posizione opposta alla sua, sottolinea che non essere responsabili della propria creazione può far comodo: “Se tu sei nato vigliacco puoi essere contento, perché non puoi far niente per cambiare e rimarrai vigliacco per tutta la vita, qualsiasi cosa tu faccia; se invece sei nato eroe puoi stare altrettanto contento perché sarai eroe tutta la vita e mangerai e berrai da eroe. Invece l’esistenzialista afferma che il vigliacco rende se stesso vigliacco e l’eroe rende se stesso eroe e che c’è sempre la possibilità per il vigliacco di superare la codardia e per l’eroe di non esserlo più”. E’ proprio questa possibilità la causa della disperazione. Perché Charlie Brown si strugge per la ragazzina dai capelli rossi? La possibilità reale di trovare la forza per parlarle è molto più penosa della sua stessa incapacità ed egli deve prendere atto del proprio fallimento. Quando lei è vittima di un bullo nel cortile della scuola, la disperazione di Charlie Brown esplode: egli non soffre perché non può aiutarla, ma perché potrebbe aiutarla, ma non n’è capace. “Perché non posso correre là a salvarla? Perché finirei fatto a pezzi, ecco perché!”. Quando in sua difesa interviene Linus, capace di far uso della propria libertà d’azione, egli cade in depressione. Per reagire contro la malinconia, Charlie Brown si abbandona alla malafede, mettendo in dubbio la propria libertà: “Mi chiedo che cosa succederebbe se io andassi là e tentassi di parlarle! Tutti riderebbero…anche lei sarebbe insultata…”. Solo rinnegando la sua libertà può resistere alla disperazione. Ma nascondendosi dietro la propria malafede non fa un favore a se stesso: trascorre un’altra pausa pranzo da solo, su una panchina, con il solito panino al burro d’arachidi.

L’orrore di sentire la propria lingua

La vita è problematica e faticosa. In una striscia Schulz descrive succintamente l’orrore di scoprire la propria esistenza nel mondo. Linus: “Sono consapevole della mia lingua….E’ una sensazione terribile! Ogni tanto m’accorgo di avere in bocca una lingua, poi mi sembra d’averla ingoiata….Non posso farci niente…Non posso scacciare la sensazione… Comincio a pensare dove sarebbe la mia lingua se io non la pensassi e poi comincio a sentirla premere contro i denti…” Sartre dedicò un’opera intera a questa sensazione, il suo romanzo del 1938, La nausea, nel quale il personaggio Roquentin è spaventato nello scoprire la propria stessa esistenza. Linus esprime il concetto molto bene in poche vignette.

Continuare a giocare, nonostante tutto

L’esistenzialismo è stato accusato d’essere disfattista e depressivo, e Sartre ha confermato questa posizione con l’uso di termini come “abbandono”, “disperazione” e “nausea”, ma i Peanuts presentano anche l’aspetto ottimistico della filosofia. Perché Charlie Brown continua a giocare a baseball, nonostante cinquanta anni di lanci perdenti? Perché tentare ancora un tiro, quando Lucy gli ha sempre soffiato la palla all’ultimo secondo? Perché c’è sempre una cesura tra passato e presente: senza tener conto di ciò che è già successo, c’è sempre la possibilità di cambiare. La libertà è un’arma a doppio taglio: noi esistiamo e siamo responsabili. Questo è insieme liberatorio e terrificante. Schulz potrebbe essere considerato membro del gruppo d’autori attivi nel periodo della seconda guerra mondiale, come Joseph Heller, Kurt Vonnegut e lo stesso Sartre, e non sarebbe giustificabile escluderlo solo perché i suoi lavori si pubblicano nelle pagine dei quotidiani dedicate allo svago. I semplici disegni di Schulz e i suoi dialoghi contengono tante considerazioni sulla condizione umana quante interi scaffali di libri. Mentre è difficile affermare che cosa avrebbe pensato Sartre dei Peanuts, si conosce ciò che Schulz pensava di Sartre: “Ho letto di lui sul New York Times, dove ha definito la condizione umana come molto dura e che l’unico modo per superare le difficoltà è condurre una vita attiva, il che è proprio vero”. Se c’è un personaggio che ha descritto le difficoltà dell’esistenza, questo è proprio Charlie Brown. (Traduzione di Vera Nicola dal n. 44 di Philosophy now. A magazine od ideas).

un senso

Per le quarte e per chi vuole posto questo articolo, che penso interessante, anche se non condivido alcune cose.

 

 

di Angelo Crespi
Spesso solo la morte restituisce dignità alla vita. “Un bel morir, tutta la vita onora” epigrammava Petrarca. Ma al di là della retorica e delle frasette, molti saggi e molti santi hanno insegnato che la vita davvero è un prepararsi al morire. Pur essendo il morire un fatto prettamente individuale (“Non è che ho paura di morire, solo che non voglio esserci quando accadrà” ironizza Woody Allen), resta il fatto che la morte da sempre ha risvolti sociali, perché il morto è morto, mentre i vivi restano. Sarà per questo che ogni civiltà ha tramandato modi e forme per elaborare il lutto sempre più rivolti ai vivi che ai morti. Gli egiziani approntavano di cibo le tombe per il defunto, duemila anni dopo i Sepolcri del Foscolo servivano soprattutto ai vivi perché ne traessero insegnamenti e aspirazioni.
Oggi le cose sono ancora cambiate. La morte da costante della vita si è trasformata in una variabile sociale sempre meno considerata. Ciò nonstante, sembra incredibile, si continua a morire. Allontanata dall’orizzonte di una società inconsapevole, scacciata in termini collettivi, resta un fatto privato difficile da gestire. Si muore in silenzio, da soli, si viene tumulati in fretta e furia, senza preci, nessun corteo funebre per non intralciare il traffico, nessuna prefica. Che a pensarci bene, viene da chiedersi: perché dunque morire?
Ci sono però casi eclatanti, in cui la morte diventa di nuovo fatto pubblico: morti eccellenti, morti tragiche di bambini o soldati. Proprio qui ci si accorge che i riti difettano, che non abbiamo più neanche la mimica per celebrare il defunto. Spesso a questi funerali, quando transita il feretro la folla applaude, come si applaude allo stadio. I visi degli astanti si irrigidiscono in espressioni di circostamza.
Nei giorni scorsi, una foto sui giornali ci spinge a qualche ulteriore riflessione. Il funerale di un attore hollywoodiano, il ventottenne Heath Ledger, si è concluso con una festa, una sorta di beach party stile australiano. Ledger pare sia morto per un’overdose accidentale di farmaci. Nessuno ci toglie dalla mente l’idea che il giovane attore, nonostante il successo mondiale, non avesse trovato ragione per vivere, come molti altri della sua generazione, della mia generazione, di tante altre generazioni precedenti. è sempre una scommessa la vita, un gioco il cui scopo è trovare le regole del gioco.
Vedere gli amici di Ledger spiaggiati, l’ex compagna, l’attrice Michelle Williams, concedersi un bagno tra spruzzi e risa, genera un senso di spaesamento. Quasi che la morte non fosse nulla. Ma non perché la combriccola ridanciana e miliardaria abbia dato senso definitivo alla morte, o possa chiamarla “sorella” al pari di San Francesco. Piuttosto, ci sembra, perché non sono riusciti a dare un senso neppure alla vita.

Essere cristiani oggi

A fine dicembre su Adista è comparsa questa intervista a Enzo Bianchi, priore della Comunità di Bose, ripresa poi a fine gennaio da Rocca. Non è molto semplice e, pur consigliandone la lettura a tutti, la suggerisco alle V visto l’argomento che stiamo trattando (il concetto di Dio dopo Auschwitz)

 

Adista Contesti N.90 – 22 Dicembre 2007

POCHI MA BUONI

intervista a Enzo Bianchi a cura di Jean-Marie Guénois per “ La Croix ”

Lei arriva ad affermare che la fine della cristianità è una chance per il cristianesimo…

E lo confermo, perché il cristianesimo ha vissuto su una ambiguità, quella di «essere» cristiani senza doverlo diventare, di essere praticante senza vivere veramente un cammino di fede personale. La coincidenza fra fede e società non esiste più, e la nuova situazione di minoranza dei cristiani è una chance per manifestare che la loro fede è vissuta nella libertà e per amore. La libertà e l’amore sono infatti le condizioni della fede cristiana. Non sono più un caso o una necessità.

Il diventare minoritari può essere un passo verso la scomparsa: questo non la preoccupa?

Essere minoritari non vuol dire essere insignificanti.

Ci sono minoranze efficaci, che agiscono nella società perché sia compreso il messaggio cristiano. Bisogna vigilare perché questo statuto di minoranza non conduca ad uno spegnimento, ma sia come il sale o la luce del mondo. Bisogna che la minoranza cristiana abbia la possibilità reale di esercitare una vera influenza evangelica in seno all’umanità.

Da minoritari, i cristiani devono cercare di esercitare un’influenza sulla società?

Intanto non bisogna avere l’ossessione dell’influenza, come non bisogna averne paura.

La vera vita cristiana porta in sé un messaggio di umanizzazione. La spiritualità cristiana è, in fondo un’arte di vivere umanamente. Se gli uomini percepiscono che i cristiani hanno una vita buona, vera e felice, si porranno la questione del fondamento di questa vita, e l’annuncio di Gesù Cristo diventerà quasi naturale. Si farà nel dialogo, senza imporsi.

La transizione da un’epoca segnata da un cristianesimo dominante a questo nuovo statuto di minoranza è vissuta come un trauma da molti nella Chiesa. E da lei?

È un passaggio doloroso e una prova, ma non bisogna avere paura. I nostri occhi fanno fatica a discernere e non bisogna fidarsi delle statistiche, perché la fede non è misurabile. Nessuno, nella nostra società secolarizzata, è in effetti capace di misurare quanto dura l’influenza del Vangelo quando tocca il cuore di un uomo.

Lei perciò non è preoccupato per il futuro?

Io ho una grande fiducia, perché se crediamo che il cristianesimo è una forma di umanizzazione, allora gli uomini si interesseranno al cristianesimo. Se ci fossero degli ostacoli a questo, verrebbero da noi, non dal mondo. Siamo noi che non siamo capaci di dire la nostra speranza, di dare entusiasmo con la nostra arte di vivere e di fare della nostra vita umana con Cristo un autentico capolavoro.

Lo stato di minoranza può accompagnarsi ad un complicato riflesso comunitario: che ne pensa?

Bisogna riconoscere che il dialogo, l’apertura agli altri, l’esercizio dell’alterità sono diventati più difficili, perché suscitano diffidenza e noi stiamo attraversando una specie di inverno in tutte le religioni. Ma è un pericolo che passerà. Se la Chiesa resiste alla mondanità, se la Chiesa capisce che pregare Gesù per l’unità non è una moda ma appartiene all’essenza stessa della vita cristiana, allora avremo una nuova primavera dell’ecumenismo, un tempo nuovo per il dialogo.

È ottimista!

Ho davvero speranza. È un momento che passerà. Una volta ancora, il cristianesimo supererà tutte queste contraddizioni.

Ma come evitare il peggio?

Siamo condannati alla dinamica della Pentecoste. Il crsitianesimo è plurale. Deve imparare la diversità e non l’uniformità. E spero che si troverà nel ministero di Pietro un ministero di unità che è necessaria per tutte le Chiese, come ha voluto il Signore. Il papa in effetti può avere un suo ruolo da giocare perché si realizzi la comunione delle

Chiese. Così è stato durante il primo millennio del cristianesimo. Oggi soffro per lo spirito ecumenico perché nelle Chiese ci sono persone che lavorano contro l’unità o mettono in atto prassi difensive. Non prevarranno, perché lo spirito del Vangelo vincerà queste opposizioni. Ma diffidiamo del disprezzo per le altre culture: non è lo spirito cristiano. Cristo è stato capace di sedersi alla tavola dei peccatori, è morto fra due malfattori… La Chiesa è il suo corpo, non può seguire altra rotta che quella del suo Signore! Ma deve avere il coraggio di essere uno spazio di incontro e di ascolto di ogni uomo allora il Vangelo potrà dilatarsi e raggiungere tutti.

L’avvenire dei cristiani passa anche attraverso un accresciuto dialogo con le altre religioni?

Bisogna essere molto chiari su questo punto.

Io non sono d’accordo quando si afferma che il cristianesimo è uno dei tre monoteismi. Il cristianesimo è un monoteismo speciale, perché la via che ci porta a Dio come comunione e Trinità è un uomo. È per l’umanità di Cristo che possiamo andare a Dio.

Un’altra specificità è che il cristianesimo ha stabilito tre rotture: fra il sangue e la famiglia, fra la terra e la patria, fra il tempio e la religione. Queste tre rotture impediscono ai cristiani di essere fondamentalisti, nazionalisti e uniformi…

Certo, la verità resta una – è Cristo! – ma l’antropologia cristiana è plurale, e deve assolutamente passare attraverso un’interpretazione umana.

Una terza specificità crsitiana consiste nel credere che ogni uomo è ad immagine e somiglianza di Dio. Anche se un uomo perde la somiglianza con Dio, conserva in sé l’immagine di Dio e resta perciò sempre capace di fare il bene.

A partire da queste specificità, e con questa capacità di ascolto, è necessario che portiamo avanti un dialogo per essere insieme fratelli. Questo non vuol dire progredire nel dialogo interreligioso con spirito irenico, ma condurre questi dialoghi sul piano dell’umanità e sul piano della ragione.

Avendo il coraggio del confronto, e di chiedere all’Islam come all’ebraismo di leggere i testi come parole umane dove si può ritrovare la parola di Dio, ma senza dare spazio al fondamentalismo o a letture senza rapporto con la realtà.

Pensa che il futuro del cristianesimo possa essere offuscato dallo scontro di civiltà?

È sull’etica che si avrà lo scontro di civiltà. In Italia, per esempio, vedo montare un anticlericalismo che non c’era dieci anni fa, si trasforma anche in anticristianesimo.

Come evitarlo?

Bisogna cercare uno stile di ascolto. I cristiani – e soprattutto i cattolici – ascoltano troppo poco. Senza ascolto, niente comunicazione e niente avvenire comune. Solo l’esercizio dell’ascolto può condurre alla comunicazione, e poi la comunicazione portare alla comunione. La Chiesa , nel campo etico, vuole essere al servizio della dignità dell’uomo: com’è possibile che certe volte passi per fondamentalista? Ci espriamiamo con interdetti, e allora non siamo capiti. Dobbiamo parlare ai credenti e ai non-credenti con altri termini che non siano quelli della catechesi. Se noi presentiamo la legge naturale come l’abbecedario della qualità umana dell’uomo, potremo partecipare alla costruzione di un’etica mondiale.

2 novembre

Riporto l’editoriale di oggi su Avvenire:

LA MEMORIA DEI DEFUNTI
 SIAMO SOFFIO ACCENTO D’ETERNO

  DAVIDE RONDONI

O
ggi la notizia è la morte. Ma non co­me tutti gli altri giorni. Quando la morte di uno o di tanti ci arriva come no­tizia, violenta e penosa, e pur così con­sueta, triturata e quasi predigerita per il fatto stesso d’esser divenuta titolo o ar­ticolo sui giornali o in tv. No, oggi la mor­te arriva come notizia che ci riguarda. Siamo una società dominata dalla mor­te, dal suo sentimento e dalla sua spet­tacolarizzazione. Nutriamo depressioni e sensi opprimenti del limite, nell’arte spesso esibiamo corpi in preda ad ana­tomie o autopsie. E notiziari e vari you­tube pullulano di immagini di morte. Di sorella morte, come la chiamò rispetto­so e familiare il primo grande poeta e santo italiano, facciamo spesso carne­vale e commedia, esorcizzando. A volte simpaticamente. A volte, con più bana­le e oscura ovvietà, seguendo mode e mi­sere magie.
  Fissata in un tempo in cui non c’erano giornali e tv, la ricorrenza della memo­ria dei defunti arriva a ricordarci la noti­zia della nostra stessa morte, che per co­sì dire inizia e più ci duole in quella dei nostri amati. Arrivava sui calendari e og­gi sui giornali la notizia che portiamo scritta nelle ossa, nel correre del sangue, tra le linee della mano: siamo qui prov­visori. Siamo meno di un soffio: così a­vrebbero dovuto titolare oggi i giornali. E forse avrebbero offerto, una volta tan­to, un colpo salutare. Un salutare scora­mento, un venir meno di sicurezze cri­stallizzate, una ferita. Siamo un soffio in un turbinoso e vasto movimento di astri e millenni. Ben prima che la scienza ce lo facesse vedere, e analiticamente cal­colare, i salmisti e i poeti da sempre di­cevano che la vita di un uomo è un ‘qua­si’ niente nel gran teatro della vita. No­tizia dunque che ben più di altre abbat­te la nostra superbia e la ubriaca alacrità con la quale tutti, o quasi tutti, sembria­mo presi dal breve giro degli affanni, dei tornaconti immediati. E notizia che ben più di altre innalza la nostra dignità: non siamo fatti solo per misurarci e compierci in un soffio d’anni, ma per confrontarci con il grande mare dell’eterno che si a­pre dietro a quella porta.
  La morte è un problema della vita. Un laicissimo e religioso problema della vi­ta. Come dire: un ragionevole problema. Da come guardiamo la morte – altrui e nostra – si capisce come guardiamo la vita. Siamo quasi niente. La morte dun­que è la conferma del nostro niente? O al contrario la conferma, del nostro es­ser ‘quasi’ niente? In altre parole, è una sorta di coperchio finale che cala sulla nostra esistenza breve o lunga, e sigilla nel nulla tutto quel che abbiamo vissu­to e sentito? O è una specie di accento fi­nale, di intonazione ultima data alla vi­ta, di accordo trovato tra il tempo e l’e­terno, tra il finito e l’infinito? Mille e mil­le sono i modi con cui gli uomini hanno immaginato di trovare questo accordo. Mille i modi con cui hanno cercato di modulare questo accento, di lanciare il ponte tra tempo e durata oltre di noi. Mo­di religiosi e modi idolatri.
  Oggi prevale la cura della fama, come se essa piccola o grande che sia, assicuras­se un merito alla vita. Durare sì, nelle chiacchiera degli uomini o nelle intito­lazioni delle strade. I famosi sembrano i più fortunati e forti tra gli uomini. Ma ‘l’uom s’etterna’ solo perché la sua fa­ma dura oltre la sua fine? O forse, come ha espresso Dante, la fama è la preoccu­pazione un po’ isterica di intellettuali co­me Brunetto Latini, una finta, una ma­lacopia dell’eterno? Solo l’incontro con Beatrice, con una presenza amata e pie­na di grazia, introduce l’uomo a speri­mentare la vertigine e il mistero buono dell’al di là, dell’eterno che inizia nel tem­po e ci chiama. Senza quell’incontro, la memoria dei morti diventerebbe solo un incubo, un farsi amaro sangue, un’om­bra da cui dopo breve sosta fuggire, co­me nelle struggenti epigrafi antiche.
  Invece oggi li ricordiamo, i nostri cari morti, con dolente desiderio. Sapendo che l’aggettivo cari è più importante e duraturo di quell’altra parola lì accanto.