Gemma n° 2221

“Ho pensato molto a che oggetto o fotografia portare quest’anno, ma nessuno mi convinceva completamente, nessuno mi faceva dire “questa è proprio la mia gemma!” Allora come mia ultima gemma del liceo ho deciso di portare la mia classe.
Mi sento enormemente grata di essermi trovata in una classe dove posso essere me stessa senza vergogna e senza sentirmi giudicata, accerchiata da amore e sostegno reciproco.
L’anno scorso è stato uno dei più duri della mia vita e grazie ai miei compagni di classe e alcuni professori sono riuscita a venirne fuori, trovando nella scuola e tra le mura della mia aula un angolo sicuro dove rifugiarmi quando soffrivo.
Mi ritengo fortunata, perché so che non tutti si sentono bene nella classe in cui si trovano e la scuola a quel punto diventa un incubo. Io nel mio cuore porto tutti i miei compagni, dal primo all’ultimo, e mi auguro di avere per sempre questo bel ricordo di loro e degli anni che abbiamo passato insieme. Quando da grande parlerò del liceo, sicuramente la prima cosa che mi verrà in mente sarà il tempo prezioso passato con loro e, da brava sensibilona quale sono, sicuramente mi scenderà una lacrima” (G. classe quinta).

Atto d’amore, canto di grazie

Non so se avrò la fortuna e il privilegio di fare il mio lavoro per sempre. Essere un insegnante sì, su quello non ho dubbi e poi dipende solo da me… ma non è difficile essere quel che si è, quel che si sente di essere fino in fondo alle proprie ossa.
Esercitare però quella professione è altra cosa. Mi sono già capitate nella vita delle occasioni per cambiare la mia strada, in parte o completamente, ma avverto un’irresistibile forza che mi tiene avvinto al mio lavoro. E’ il contatto quotidiano con la speranza, con il futuro, con l’introspezione, con la meraviglia, con le emozioni, con le sorprese, con l’arte, con l’inatteso, con i pianti, con l’insperato, con i sorrisi, con le viscere, con i sentimenti, con le teste, con i ghigni, con le delusioni, con i sottintesi, con l’inespresso, con l’inatteso, con la spensieratezza, con le profondità, con le riflessioni, con gli sguardi, con le voci, con gli occhi, con i passi, con quei corpi in cambiamento, con le fedi, con le pagine, con le canzoni, con i film, con le delusioni, con le illusioni, con i sogni, con le battute, con i ragionamenti, con quei buongiorno ripetuti almeno 50 volte al giorno, con le reciproche occhiate, con le radici, con la memoria, con i vuoti e con i pieni, con tutti quei cuori pulsanti…
Tutto questo alberga ogni giorno nel mio lavoro. Ed è irrinunciabile. Anche perché è una delle spiagge su cui mi piace far riposare il corpo dopo che ha lottato in mezzo alla tempesta e si prepara a riprendere il largo. E allora questo atto d’amore per il mio lavoro diventa canto di ringraziamento per tutti quei cuori che ho incontrato, incontro e continuerò a incontrare ogni giorno.

Ditemi che non avete dormito!

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Ditemi che non avete dormito! Mi rivolgo ai genitori delle ragazze e dei ragazzi che ieri sera sono saliti sul palco del Palamostre di Udine per la rappresentazione “Lo stato d’assedio” di Albert Camus. Sono tornato a casa con la gioia pura nel cuore. È vero, sono di parte perché molti di loro li conosco. Ho dormito poco e niente: ero travolto dall’emozione, dal fatto di vederli muovere sul palco, di guardarli trepidare, fremere, concentrarsi, esultare. Hanno imparato parti non da poco su di un testo di spessore altissimo, hanno lavorato tanto e si sono autogestiti. Li vedevo fermarsi a scuola per pranzare insieme e poi iniziare le prove guidati da Alessandra, Elisabetta e Valentina, tre studentesse dell’ultimo anno.
Stanotte, mentre ero a letto con gli occhi velati di emozionate lacrime e con cuore e cervello galoppanti, mi è venuto spontaneo pensare ai loro genitori: quanto orgoglio, quanta trepidazione, quanto trasporto dovete aver provato in quell’ora abbondante di intenso spettacolo? Se in noi insegnanti presenti c’era quel gran subbuglio, cosa mai poteva esserci in voi? Ditemi che avete condiviso la mia felice insonnia!

Tema

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Capo chino sul foglio, non più di dieci centimetri tra gli occhi e il banco. La schiena fa un arco che a quell’età non offre la rigidità dei miei anta. Le narici di tanto in tanto si muovono ad annusare la leggera fragranza di violetta che esce dalla penna colorata: “Prof, posso scrivere in viola? o devo ricopiare con una penna normale in bella copia?”. Odiavo copiare i temi. Al triennio del liceo cercavo sempre il buonalaprima: un’unica versione dei miei pensieri senza dover passare attraverso la forzatura della trascrizione. Che poi capitava sempre di modificare qualcosa che pareva migliorare le cose, e invece…

I lunghi capelli non sono raccolti in una coda, parte scende sulle spalle, parte si adagia sul banco. Le labbra si muovono ad accompagnare le parole: sussurri che spingono il movimento della mano sul foglio. Piccole rughe, che a quell’età possono solo essere grafia di concentrazione, si formano sulla fronte. Come ti sei addormentata ieri sera? Come ti sei svegliata stamattina? Non so se la mente e il cuore siano leggeri o pesanti, se hanno ali capaci di sollevarti l’anima al cielo o se hanno ancore che te la inchiodano alla terra.

Gli occhi si muovono veloci e spaziano: il foglio, la parola appena scritta, il banco, lo smalto sulle unghie, il muro, una compagna, me, il mondo fuori, la parola ancora da scrivere, il proprio riflesso sullo schermo dello smartphone. Cercano, afferrano, studiano, scoprono, leggono, indagano, mangiano, amano, scelgono, escludono, capiscono, illuminano. Dove li poserai domani?

La mano si stacca dalla carta e stende un appunto veloce sul banco, servirà più tardi, quando le veloci parole dell’immediato lasceranno spazio alla lentezza del pensiero. Poco dopo gli passi sopra la gomma e soffi sui rimasugli, resti di un pensiero fugace.

“Prof, posso scrivere in matita?”. Sì. Il sibilo della mina che si accorcia lasciando la grafite sul foglio: ti dona quello che ha di più caro, la sua anima, consumandola. Quali saranno i tuoi fogli bianchi?

Andirivieni tra bellezze

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Faticosetta la mattina di oggi: prima ora in succursale, seconda in centrale, terza in succursale, quarta in centrale, quinta in succursale. Potrei anche evitare l’amichevole di stasera, per oggi mi sono allenato…
Poi ripenso un attimo: una studentessa racconta la sua passione per un cantante che non ti aspetti, Mario Tessuto; un’altra dopo un’unica visione ti riporta per filo e per segno il videoclip “Jesus walks” di Kanye West; altri si meravigliano davanti al genio di Jesus Christ Superstar; una classe quinta segue con attenzione la quarta delle sette brevi lezioni di fisica di Rovelli e riflette sull’importanza della ricerca della verità anche quando significa riconoscere di aver buttato 40 anni di ricerca; poco dopo si emoziona davanti alla storia di una bimba affetta da hiv raccontata da Spike Lee; con una prima emerge il tema dell’identità e dell’importanza delle relazioni, con tutte le conseguneti contraddizioni; un’altra seconda, dopo che una studentessa ha raccontato l’emozione di “Collateral Beauty”, si cimenta con la lentezza cinematografica di Decalogo 1 di Kieslowski e si interroga sulla frase “Dio esiste, è molto semplice, se ci si crede”. Infine una quarta si appassiona ai riti quotidiani dell’induismo e ammira la bellezza e la colorata precisione di alcuni mandala, dopo che uno studente ha proposto una riflessione sulla possibilità di cercare la fortuna anche là dove sembra che non ci sia.
Ecco allora che quell’andirivieni tra succursale e centrale acquisisce un senso e mi fa capire che senza di esso mi sarei perso tutta questa bellezza. Un po’ di meraviglia in meno sarebbe entrata nella mia vita.

Riflettendo 2.0

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Insegno dal 1998. Fin da subito mi sono portato dietro, oltre alla borsa con libri, quaderni, fogli e penne, uno stereo portatile con musicassette e cd. Più di dieci anni fa ho iniziato a girare per la scuola con uno zaino sulle spalle. All’interno: pc portatile, proiettore, prolunghe, casse musicali. Il cavo di rete l’ho aggiunto qualche anno dopo. Poi è arrivato il wi-fi, sono giunti i tablets e gli smartphones. Oggi sono iscritto a molti gruppi di insegnanti che sui social e sulle piattaforme virtuali si scambiano idee, riflessioni, consigli sulla didattica 2.0 e sull’introduzione e gestione del digitale nella scuola. Vedo spesso scornarsi molti colleghi su quale sia lo strumento migliore da adottare, la app più funzionale ad un determinato lavoro, l’ambiente più congeniale ad un certo indirizzo di studi o ad una certa età. Penso che fin tanto che non si comprenderà che si tratta di una metodologia didattica saranno ancora molti i passi da compiere. E vorrei porre l’accento certo sulla parola metodologia, ma anche sull’articolo UNA. UNA, fra le tante che un insegnante può decidere di mettere in campo, non l’unica. Ultimamente sembra che tutte le altre possibilità siano vetuste, fuori moda, inutili, inefficaci (sigh). Pare che gli insegnanti debbano trasformarsi da un lato in intrattenitori di studenti annoiati dediti solo al divertimento, dall’altro in esperti tecnico-informatici in grado di gestire reti wi-fi per centinaia di persone. Penso pure io che gli studenti debbano sviluppare anche delle competenze digitali e maturare una sana e adulta cittadinanza digitale, ma non può essere questa la principale e talora unica missione di una scuola. Ricordo ancora con emozione e piacere le lezioni del prof. Bianco sul nichilismo in Nietzsche e Leopardi all’Università di Trieste: sarei stato ad ascoltarlo per ore, senza multimedialità, senza alcuno strumento tecnologico. Certo merito del docente, ma anche dell’allenamento fatto negli anni di liceo, della palestra dell’ascolto: che è una competenza che va coltivata e sviluppata. Accanto alle altre.
Ritorno al punto di partenza di questa breve riflessione: non sono contro le tecnologie. Sono parte integrante della mia didattica, non vi rinuncerei. Ma fanno parte della parte metodologica di essa. Pertanto non mi sento di “sposare finché morte non ci separi” alcun partner specifico, veicolo di tale metodologia. Legarmi mani e piedi ad unico device, ad una sola piattaforma, mi dà la sensazione di perdere di vista l’obiettivo.

Un nuovo primo giorno

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Mi piace arrivare in anticipo sul lavoro, non siamo in tanti a farlo. Quest’anno saremo anche di meno perché Marina è andata in pensione. Lei spesso arrivava anche prima di me, in bicicletta e col Messaggero: mi mancherà. Voce tonante, la sua, fin dal primo mattino: quella non mi mancherà.
Mi piace arrivare in anticipo sul lavoro, soprattutto il primo vero giorno di scuola, quello in cui tornano tutti. Mi diverte guardare i modi diversissimi in cui viene vissuta la medesima esperienza. L’emozione di chi è lì per la prima volta (primini che sono stati padroni della scuola per il breve lasso dei due giorni dell’accoglienza e che ora la vedono stravolta e travolta da una masnada). Gli occhi indagatori di secondini e terzini che tentano di capire le sorti delle corse affannose alla ricerca del loro posto. Lo sguardo esperto di chi è lì per la penultima volta (quartini saggi che hanno già studiato la dislocazione delle aule e vanno a colpo sicuro a cercare di occupare quella benedetta ultima fila). La pacatezza alle 9.00 che si trasforma già nell’ansia delle 12.00 di chi è lì per l’ultima volta ma sa che a giugno lo attende l’abisso orrido immenso ov’ei precipitando il tutto spera di non obliare. Colleghi già sul pezzo che chiedono lumi sulle password del registro elettronico e quelli che si muovono alla ricerca di un caffè, alcuni già in servizio da settimane a lavorare su incastri impossibili di orari precari (vi stimo), altri che programmano attività e incontri, segretarie che iniziano il loro ultimo giorno di scuola, collaboratori alle prese con insegnanti che già chiedono di prenotare laboratori (sì questo sono io), aule che sembrano forni in questo settembre che sa di agosto, ore buche da coprire, circolari da preparare per corsi da organizzare in giorni da stabilire in luoghi da definire (se leggendo ‘sta cosa ti sei perso, amen, non è così importante, non ti sei perso niente, vai avanti in tranquillità), due tramezzini al volo per pranzo, un incontro al volo con Francesca (ex studentessa… “Ciao, come stai?” “Tutto bene, prof, mi laureo mercoledì a Milano, poi inizio un master, poi … chissà!”… che bello Francesca, in bocca al lupo!!!), un saluto al volo con Vale che ha trovato un altro lavoro e con Asia che ha trovato un’altra scuola, tante cose sono state al volo oggi.
Mi piace arrivare in anticipo sul lavoro, per soffermarmi su tutto questo e non lasciare che mi scivoli addosso, come gli sguardi che ogni giorno incroceranno il mio. Quelli di studentesse e studenti che mi guarderanno con la punteggiatura pitturata in faccia: chi un punto di domanda, chi un punto esclamativo, chi dei punti di sospensione, chi un punto, chi una virgola, chi un punto a capo… E cercheremo di mettere insieme parole e punteggiatura per trovare sensi e significati, per scrivere e leggere vita, per esistere.

Prof, a cosa serve?

Prof, a cosa serve?”

astrazioneAmmetto di averlo pensato spesso quando ero al liceo, in riferimento a varie materie, o a vari argomenti di singole discipline. Ne ho anche parlato al volo oggi, uscendo da scuola con un mio collega di matematica e fisica a cui una studentessa aveva appena rivolto la stessa domanda. E proprio ieri sera, un’altra collega scriveva così su fb: “… la scuola sta sempre più diventando un’azienda in cui si inseguono vuote competenze, si deve insegnare solo ciò che è utile, si valuta la prestazione. Certo che serve anche contestualizzare quello che si insegna e far intuire quali possono esserne le applicazioni nel reale. Ma i ragazzi avranno una vita intera per imparare a fare, a lavorare, ad affrontare e risolvere problemi. Mentre per molti di loro la scuola sarà l’ultima occasione per imparare per il piacere di imparare, per godere del bello del sapere che non per forza deve essere utile, per sorprendersi, per intraprendere esperienze intellettuali, per sapersi porre problemi prima di imparare a risolverli. La matematica che io insegno ha innumerevoli e importanti applicazioni, è bene farlo sapere agli allievi. Ma io la amo per la sua straordinaria bellezza, per le creazioni astratte e fantasiose di menti non soggiogate dalla sola ricerca dell’utile”.

Leggo le perplessità di molti colleghi davanti a forzature a cui sono sottoposti, davanti a metodologie di programmazione per nulla condivise. Ne riconosco il disorientamento e talvolta la frustazione. C’è da riflettere, e molto. Pubblico il post di un altro collega, Riccardo Giannitrapani, che sul suo blog ha scritto una lettera aperta al ministro un po’ più lunga e articolata: da ex studente di liceo scientifico e di due anni di Scienze Geologiche mi ci ritrovo pienamente. Lascio spazio alle sue parole, magari un giorno scriverò completamente ciò che penso, aggiungendolo a quanto ho già digitato sul mio blog.

Lettera aperta al Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca
Gentile Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (l’aggettivo Pubblica si è perso da tempo, peccato). Le scrivo poche righe nonostante mi fossi imposto, anni fa, di non contaminare questo mio spazio privato con nulla che fosse attinente al reale. Ma il reale trova sempre il modo di rompere l’esilio, ed ecco questa lettera. Lei non mi conosce, ma per la simmetria dello scrivere pubblico io non conosco lei. So vagamente che aspetto ha in questo tempo, se mi sforzo riesco persino a ricordare il suo nome. Non è molto importante, come non è importante il partito a cui lei fa riferimento, il governo che la sostiene, le idee che sta mettendo in atto. Sono colpevole, mi rendo conto, di non interessarmi a tutto questo; sconto da anni la pena subendo qualsiasi tipo di riforma, modifica, riduzione, decurtamento, avvilimento, umiliazione della mia categoria senza lamentarmi. Ed infatti sono qui a scriverle non per motivi legati alla mia professione, ma in difesa dell’unica cosa che ormai mi lega alle aulee ed ai miei studenti e studentesse: la matematica. Da anni ho intuito un disegno, studiato o casuale non so, per diluire e sminuire il ruolo culturale che la matematica ha nel nostro insegnamento e nella nostra società in generale. Di nuovo colpevole, sono stato zitto, pensando di poter opporre silenziosa resistenza ogni mattina nel mio lavoro quotidiano con i ragazzi e le ragazze a cui parlo (la parola insegno mi sembra esagerata) di matematica. Qualche giorno fa però ho subito (non mi vengono in mente termini diversi) la simulazione della prova di matematica che il Ministero (quindi lei) ha inviato alle scuole italiane per preparare studenti e studentesse del Liceo Scientifico al nuovo esame finale. Ho resistito qualche giorno, ma ora non riesco più a mantenere il mio amato esilio e le scrivo. Lacerò perdere ogni considerazione sul contenuto matematico e sulla facilità della simulazione (che era facile oltre ogni modo); non credo da anni agli esami e tantomento alla valutazione, quindi se è intenzione del Ministero ridurre la difficoltà degli esami finali non posso che gioirne ed essere felice per i miei ragazzi e le mie ragazze. Vorrei invece parlarle della forma e di due aspetti per me fondamentali che questa simulazione, probabilmente indicativa delle linee future governative in materia di matematica nell’istruzione superiore, ha sollevato. Premetto che questa (sembra ridicolo doverlo affermare, ma in un’epoca di proclami apodittici di tutti su tutto credo sia doveroso) è sola la mia umile opinione, il pensiero di un professore marginale di una materia ormai considerata (o almeno a me così sembra) marginale. Altri colleghi, probabilmente più accorti ed esperti di me, avranno diverso orientamento, diverso entusiasmo. Nondimeno è la mia opinione e siccome questo spazio è mio, la esprimo (a lei la insindacabile libertà di non leggere, le concedo lo stesso diritto all’esilio dalle mie idee che io mi sono arrogato anni fa rispetto alle vostre idee).
Prima di tutto la forma delle domande; le riporto qui solo la prima del primo problema, è estratta dal contesto, ma emerge in ogni caso in tutta la sua pochezza: “Aiuta Marco e Luca a determinare l’equazione che rappresenta la curva…”.
Le risparmio il seguito della storia (anche perché come Ministro probabilmente l’avrà avvallata, se non approvata). Io sono una persona mediamente altruista e con me anche i miei studenti e le mie studentesse; tutti noi aiutiamo volentieri persone reali o immaginarie, come Marco e Luca. Ma lei deve aiutare me a capire come si possa presentare ad un ragazzo od una ragazza di 19 anni, persona ormai adulta come me e come lei, un quesito sotto forma di simpatica sfida alla Geronimo Stilton. Molte volte con mio figlio, che però ha 9 anni, ho allegramente abbracciato la sfida di un “Aiuta Geronimo a trovare l’uscita dal labirinto .. “. Sono l’unico a trovare non dignitoso un compito di matematica messo in questa forma? Forse sì, nel qual caso si conferma la mia inadeguatezza all’insegnamento o a cercare di aiutare Marco e Luca.
Ma lasciamo pure perdere la forma dei quesiti, che a me comunque pare importante (la scuola si rende KANDINSKY-Composizione-VIIItacitamente complice, in questo modo, di alimentare una società dell’apparenza in cui la sostanza nessuno sa più dove si trovi). Il secondo aspetto che mi preme può apparire di nuovo legato alla forma esteriore, ma non lo è, secondo me. Cambio prospettiva e le parlo del secondo quesito dove si chiedeva allo studente di aiutare (sic) Mario a progettare una teca di vetro di forma conica che contenesse un antico e prezioso mappamondo. Il succo della sostanza era il seguente: “trovare il cono di superficie minima che inscriva una sfera di raggio R fissato”. È una domanda matematica, semplice, lineare, diretta, comprensibile, ma prima di tutto matematica. Qual’è il valore aggiunto di travestire questa domanda con una implausibile storia di mastri vetrai e di teche di cristallo? Io non lo vedo. O meglio, vedo un ulteriore tentativo (in atto da anni a dire il vero) di impoverire il discorso matematico facendo credere (addirittura insegnando) che la matematica è un linguaggio con cui si possono risolvere problemi quotidiani, di tutti giorni. Vede Ministro, io credo che dietro questa impostazione ci sia un pensiero pericoloso ed avvilente: la matematica ha senso farla, studiarla, impararla solo in quanto utile a qualcosa. È un discorso che si inquadra perfettamente nel nostro tempo dove alla vecchia domanda “cos’è” si sostiuisce ormai immancabilmente un terribile “a cosa serve”, riducendo la curiosità a mera lista della spesa degli attrezzi utili. A cosa serve? A cosa serve trovare il cono di area minima? Allora inventiamoci una matematica del fantabosco che invece serva: troviamo la forma della teca di cristallo che il mastro vetraio deve inventarsi.
Perché non è più pensabile insegnare la matematica per il valore della matematica? Perché dobbiamo diluirla in problemi fintamente quotidiani? Le svelo un segreto, Ministro, nessun mastro vetraio al mondo farà mai una derivata per trovare il minimo di una superficie. Così come nessun matematico al mondo usa la matematica per fare la spesa, guidare la macchina, trovare la morosa, giocare ad un videogioco. Perché non possiamo insegnare, e chiedere, ai nostri ragazzi ed alle nostre ragazze, un ragionamento puramente e meravigliosamente matematico? Perché dobbiamo forzatamente costruire dei contesti quotidiani del tutto inventati e privi di fondamento? Riscopriamo la gioia dell’inutile, del concetto astratto senza applicazione che è proprio della poesia più alta. È il problem solving, mi dicono i colleghi. Dobbiamo insegnare a risolvere problemi, la lettura di un testo, sono le competenze. Ed in nome delle competenze (qualcuno un giorno mi spiegherà cosa sono le competenze, se ne parla da anni e ancora non ho sentito una definizione ragionevole e ragionata, ma solo tante parole per riempire carta, convegni, documenti e le tasche di chi si costruisce una fortuna con l’idea del momento), in nome delle competenze possiamo buttare via una delle più grandi conquiste intellettuali dell’umanità: l’astrazione matematica. Ci sono voluti più di duemila anni per renderci conto che la matematica non parla (solo) del mondo reale, ma è un’attività che ha una sua dignità astratta indipendente da qualsiasi applicazione. Fare matematica significa saper risolvere un’equazione di secondo grado (per dire) indipendentemente dal fatto che rappresenti il moto di un corpo soggetto ad accelerazione costante, l’energia potenziale di un oscillatore armonico, le piccole oscillazioni dell’asse di una trottola durante il moto di precessione, l’andamento di un certo titolo in borsa o il segnale elettrico del cuore di un topo della Birmania. Ed è proprio nell’astrazione dal problema specifico che risiede la sua natura più profonda e la sua bellezza (si può ancora parlare di bellezza a scuola? anche se non serve a nulla?).
Prevengo la critica dicendo subito che non sono ovviamente contrario ad insegnare anche la matematica in un contesto applicativo. Anche. I miei studenti e le mie studentesse sanno lo sforzo che faccio quotidianamente per inquadrare la matematica anche nel suo contesto di linguaggio scientifico, con applicazioni in fisica, economia, biologia etc. Ma lo si faccia non in modo esclusivo, ma a supporto di un’idea comunque astratta e dignitosa ed indipendente della matematica. Altrimenti la si tolga dall’insegnamento come materia fondante, si può tranquillamente fare durante le ore di fisica (o di altra materia) tutta la matematica che serve. Ma se si decide di avventurarsi sugli aspetti applicativi (ed io sono favorevole), lo si faccia sul serio e per bene. Non si inventino problemi assolutamente improbabili e (mi scusi) ridicoli su mastri vetrai o su meteoriti che si scontrano (parlo del primo problema; bisognerebbe accertarsi, al Ministero, sul significato delle parole, provi a capire cos’è un meteorite e perché non può scontrarsi con alcunché se non il suolo terrestre. Ma questo è un altro discorso.). Si pretenda da chi costruisce problemi da dare ai nostri ragazzi ed alle nostre ragazze serietà e competenza. Si costruisca un problema reale, anche di fisica perché no, in cui la matematica sia un punto cardine per la soluzione. Altrimenti si farà solo una parodia, piuttosto indigesta a mio avviso, della matematica e delle sue applicazioni.
Mi sono dilungato anche troppo e non sono nemmeno sicuro che il messaggio che volevo far arrivare sia arrivato. Le chiedo solo questo, Ministro, da insegnante e da padre. Non privateci della matematica pura nell’insegnamento superiore, non togliete uno degli ultimi fertili terreni di fantasia che il reale ancora non è riuscito a corrompere. Lasciateci la poesia dell’inutile, almeno a scuola.
Cordiali saluti, un professore confuso.”

Finire il liceo a 18 anni?

scuola (1)Oggi è il 1° settembre. Per gli insegnanti questa data significa un’unica cosa: inizio del nuovo anno scolastico. Nella maggior parte delle scuole si svolge il Collegio Docenti; così è stato anche nella mia. Tra i vari temi toccati dalla Dirigente c’è stato anche quello della possibile futura riduzione da 13 a 12 anni del percorso scolastico. Negli anni si sono ipotizzati anticipi della scuola primaria, tagli della scuola secondaria di primo grado, taglio del quinto anno di quella di secondo grado… Personalmente non sono un sostenitore convinto al 100% della necessità di terminare gli studi a 18 anni piuttosto che a 19. Semplicemente mi interrogo sulla questione. “Tutta l’Europa termina a 18 anni, ci dobbiamo adeguare”. Non è vero e non sempre, in quei paesi, i risultati sono lusinghieri. Alla fine del liceo scientifico mi sono iscritto a scienze geologiche e mi ci sono voluti due anni per capire che quella non era la strada fatta per me e che dovevo cambiare rotta. Di conseguenza, l’ingresso nel mondo del lavoro è avvenuto, per me, con due anni di ritardo (in realtà ho recuperato dopo, ma questo è un altro paio di maniche). Non mi sento tuttavia così penalizzato rispetto ad altri. Questo mi fa pensare che una delle cose più importanti per una scuola dovrebbe essere l’orientamento, non nel senso di una serie di attività da organizzare, ma nel senso precipuo di una scuola orientante, che permetta ai suoi studenti, attraverso tutta la sua offerta formativa, di capire quale sia la strada da percorrere. Ciò chiederebbe molta flessibilità e di conseguenza una diversa organizzazione: questa la riterrei una vera riforma. E in tal senso un anno non farebbe proprio la differenza: vi sono esperienze talmente significative e formanti che non hanno bisogno di periodi così lunghi e altre che invece richiedono esperienze pluriennali, proprio nel senso di una qualità della scuola.

E ai miei dubbi aggiungo le domande che Nicoletta Viglione scrive su IR di maggio-giugno: “Sono le finalità della scuola che vanno riviste: è più importante puntare sulla professionalizzazione oppure privilegiare una buona preparazione di base come spazio di educazione civile? E’ opportuno anticipare le scelte prevedendo un doppio binario che consenta, a chi non ha interesse per gli studi, di iniziare al più presto percorsi di avviamento al lavoro? Come garantire il reale assolvimento dell’obbligo e diminuire la dispersione scolastica?”.

Ieri ho incontrato A.

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Ieri ho incontrato A. fuori da scuola. E’ una mia ex studentessa. Era raggiante, felice, serena, come raramente l’avevo vista negli ultimi anni del liceo. Ad A. era capitato di recuperare materie a fine agosto e non era per niente certa dell’ammissione all’Esame di Stato. Nell’ultimo anno l’ho vista spesso con gli occhi rossi, sfiduciata, arrabbiata e delusa. Una delle ultime lezioni mi aveva detto: “La cosa che più mi dà fastidio è essere giudicata, male, prima di poter dimostrare quanto valgo”. Ieri la prima cosa che mi ha detto, con un enorme sorriso, è stata: “Ieri ho dato il quarto esame, è andata benissimo”.
Urge una riflessione, è tanto che lo penso e lo dico. C’è qualcosa che non va, che non funziona. Dobbiamo cambiare qualcosa, non possiamo più aspettare. Emerge anche dalle discussioni di fine anno che sto facendo con le mie classi, soprattutto quelle del triennio. Gli studenti non chiedono di studiare meno, ma che gli venga riconosciuto quanto fanno. Anzi, molti di loro chiedono di poter essere formati meglio in certe discipline, quelle per cui hanno delle predilezioni. Non possiamo non ascoltare queste e altre richieste. Ciao A., è stato bellissimo vederti sorridere, ancora una volta, buona strada…

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