In alcune seconde abbiamo finito di vederlo, in altre quasi. Ho trovato questo breve commento in rete.
“Mondi separati, non comunicanti, che se per caso si accostano sono incapaci di comprendersi, questo racconta Francesco Munzi nel suo film “Saimir”. Essere immigrati, non avere gli strumenti necessari per mettersi sulla stessa lunghezza d’onda di chi vive nel proprio paese: questo è ciò che sente Saimir, la cui adolescenza sembra essere stata compromessa per sempre dalla condotta del padre e dallo squallido universo che lo circonda. Non accetta la vita propostagli dal padre con la promessa di un mondo migliore. Questa esistenza gli pesa ogni giorno di più. Sembra aprirsi uno spiraglio quando incontra una ragazza italiana, che accetta senza riserve di uscire con lui. Saimir per un attimo ridiventa ragazzino, ritrova la spensieratezza della sua età, sorride, si sente come gli altri, ma poi il desiderio di trattenere la prima cosa bella che ha incontrato in un paese così estraneo gli fa commettere una serie di sbagli.
Un regalo troppo costoso e precoce, il racconto del suo tipo di vita spaventano la ragazza e la allontanano irrimediabilmente da lui. Non è questione di razzismo, è che la differenza di cultura e di stili di vita crea tra i due giovani una tragica incomunicabilità, rinchiudendo Saimir nel recinto di emarginazione e di solitudine che imprigiona molti come lui. La sequenza della scenata nella classe di Michela ha una grande forza espressiva: con la rabbia il protagonista cerca di abbattere il muro dell’indifferenza sociale, della discriminazione, e la macchina da presa prende le sue difese, si identifica con lui senza provare pietà o compassione. Vede solo attraverso i suoi occhi profondi, avidi di vita e di libertà.
Essere immigrati vuol dire non avere gli strumenti necessari per mettersi sulla stessa lunghezza d’onda di chi vive nel proprio paese. Nel film c’é un cameo, una specie di ringraziamento a una famiglia rom che lo ha aiutato a conoscere i rapporti generazionali tra padri e figli, il furto nella casa dei ricchi. Nell’appartamento i ragazzi rubano tutti i ritratti incorniciati, come se volessero appropriarsi, più che degli oggetti, della vita delle persone fotografate; indossano pellicce, frugano tra i ricordi personali, ma la soddisfazione più grande se la prende il giovane rom dal corpo scheletrico buttandosi nella piscina, simbolo di un agio che si può solo “rubare”. Al caos rumoroso dell’intrusione segue il tuffo al rallentatore del ragazzino rom nella piscina. La musica di Vivaldi che lo commenta aumenta il gradiente di drammaticità e offre l’appiglio per una lettura simbolica che esce dal feroce realismo, anche sonoro. La regia non sembra mai a corto della giusta luce. Albe che sembrano grigi crepuscoli, giorni che sembrano sempre alla soglia del tramonto raccontano il vuoto interiore, la disperazione dei personaggi, una vita ai margini del benessere, ma non dei sentimenti. Una storia fatta di ordinaria routine di sfruttamento e sopravvivenza, in una città che sembra aver definitivamente annesso periferie, sterrati e spiagge nella sua illimitata area di estensione.”
Queste, invece, sono alcune domande su cui ci soffermeremo…
- Che cosa pensi del dialogo tra Saimir e il bimbo sul camion? Cosa rappresenta l’Italia?
- Che cosa pensi del lavoro che svolge il padre di Saimir?
- Descrivi il rapporto tra Saimir e il padre. Cosa rimprovera Saimir al padre?
- Saimir è contento della vita che fa? Che cosa sogna Saimir?
- Chi sono gli amici di Saimir?
- Perché il rapporto tra Saimir e Michela non può funzionare?
- Perché è difficile l’inserimento di Saimir tra i suoi coetanei?
- Che cosa pensi della decisione finale di Saimir?
- Che cosa pensi del mondo degli adulti incapaci di essere modelli per gli adolescenti?
- Che cosa pensi del problema dell’immigrazione? E’ solo quella vista nel film?
