Mariasole ha poco più di 19 mesi: è una spugna in grado di assorbire qualsiasi cosa, dai gesti alle parole, dalla musica ai silenzi. Sara ed io a volte dobbiamo usare giri di parole o sinimi perché appena capta qualche nostra intenzione la tramuta subito in azione: “andiamo a fare un giro in bici?” diventa “ti va di fare una pedalata?”, “andiamo al mare?” diventa “capatina al piccolo oceano?” (Lignano, Grado, spiaggia, sabbia, ruote, raggi, sellino, seggiolino… sono tutti termini che fan già parte del suo vocabolario, per cui inutilizzabili in questi casi). Sfogliando uno dei suoi libri mi sono imbattuto in una filastrocca di Gianni Rodari che avevo letto tanti anni fa e che purtroppo avevo dimenticato. Eccola, si intitola “Un signore maturo con un orecchio acerbo”:
Un giorno sul diretto Capranica-Viterbo vidi salire un uomo con un orecchio acerbo.
Non era tanto giovane, anzi, era maturato tutto, tranne l’orecchio, che acerbo era restato.
Cambiai subito posto per essergli vicino e potermi studiare il fenomeno per benino.
Signore, gli dissi dunque, lei ha una certa età di quell’orecchio verde che cosa se ne fa?
Rispose gentilmente: – Dica pure che sono vecchio, di giovane mi è rimasto soltanto quest’orecchio.
È un orecchio bambino, mi serve per capire le voci che i grandi non stanno mai a sentire:
ascolto quello che dicono gli alberi, gli uccelli, le nuvole che passano, i sassi, i ruscelli,
capisco anche i bambini quando dicono cose che a un orecchio maturo sembrano misteriose…
Così disse il signore con un orecchio acerbo quel giorno, sul diretto Capranica-Viterbo.
Ho trovato così il proposito per questo nuovo anno scolastico che si avvicina a passo sostenuto: avere un orecchio bambino, “per capire le voci che i grandi non stanno mai a sentire” e “ i bambini quando dicono cose che a un orecchio maturo sembrano misteriose”. Per farlo penso sia necessaria una cosa che avevo scritto tempo fa come commento alla foto che c’è in apertura di questo post. L’avevo scritta in friulano, la lingua che parla il mio cuore quando scende a fondo a dialogare con la mente. La riporto qui con la traduzione. “La cjalade smaraveade di un frutin cuant che un grant lu cjape tal braç: un gnûf mont gi si mostre, une gnove prospetive, un gnûf pont di viste, lis stessis robis somein diviersis… Par provâ chestis sensazions il grant al à di fâsi piçul, frutin; il cjâf al à di tornâ plui dongje de tiere”. “Lo sguardo stupito di un bimbo quando un adulto lo prende in braccio: un nuovo mondo gli appare, nuove prospettive, nuovi punti di vista, le stesse cose paiono diverse. Per vivere queste sensazioni il grande deve farsi piccolo, bimbo; la testa deve tornare più vicina alla terra”.
Due notizie che riguardano la terza compagnia estrattiva al mondo, l’anglo-australiana Rio Tinto Group (ricerca, estrae e lavora vari materiali, dalla bauxite al rame, dall’oro ai diamanti, dal carbone all’uranio…). Entrambe sono tratte dal numero di agosto di Rocca.
La prima riguarda gli Stati Uniti e in particolare l’Arizona: qui, nella parte centrale dello Stato, c’è Oak Flat, terra sacra agli Apache. Oak Flat ha la sfortuna di trovarsi “sopra uno dei più grandi giacimenti di rame al mondo. L’area rischia di essere venduta a una compagnia legata alla multinazionale estrattiva Rio Tinto. A fronte di questa notizia è sorto un movimento di protesta, per affermare il diritto del popolo apache alla difesa della terra e del suo patrimonio culturale e religioso.”
La seconda notizia ci porta invece in Australia: qui “durante i lavori di ampliamento della miniera di ferro di Marandoo, di proprietà della Rio Tinto Group, è stato distrutto un sito che gli aborigeni considerano sacro, le grotte nella gola di Juukan. In queste grotte diversi scavi hanno rinvenuto manufatti risalenti a 28.000 anni fa, tra cui strumenti, oggetti sacri e una ciocca di capelli umani intrecciati di 4.000 anni fa, dimostrando l’esistenza degli antenati diretti degli attuali custodi della zona, il popolo Puutu Kunti Kurrama e Pinikura (Pkkp). Per capire la dimensione del danno culturale, basta riferirsi alla dichiarazione dell’Unesco, secondo cui «la distruzione archeologica nella gola di Juukan è paragonabile alle statue dei Buddha Bamiyan buttate giù dai talebani in Afghanistan o all’annientamento della città siriana di Palmira voluto dall’Isis».”
Non mi è difficile accostare a queste notizie le parole poste all’inizio di Querida Amazonia, l’esortazione apostolica dell’attuale papa: “Sogno un’Amazzonia che lotti per i diritti dei più poveri, dei popoli originari, degli ultimi, dove la loro voce sia ascoltata e la loro dignità sia promossa. Sogno un’Amazzonia che difenda la ricchezza culturale che la distingue, dove risplende in forme tanto varie la bellezza umana. Sogno un’Amazzonia che custodisca gelosamente l’irresistibile bellezza naturale che l’adorna, la vita traboccante che riempie i suoi fiumi e le sue foreste”. Che bello se Jakob Stausholm, CEO della Rio Tinto Group, facesse sue queste parole (e tanti altri con lui…)
Sto leggendo, ascoltando e guardando notizie, immagini, video cha arrivano dall’Afghanistan. Fa male e per questo ho deciso di non mettere nulla qui sul blog di quanto visto: ho preferito un quadro nero. Lascio spazio alle parole che il giornalista Toni Capuozzo ha scritto sul suo profilo fb: “Prima accompagnano l’aereo , un corteo disperato e festoso. Qualcuno riesce ad aggrapparvisi. Ci sono delle immagini che non se ne vanno più. Dell’11 settembre, visto e rivisto, non sono, nel mio album, quelle degli aerei che si conficcano nelle torri. Ho comprato, a New York, il libro che raccoglie le storie di ogni vittima. Ma non è quello che si apre, nei miei ricordi. E’ un libro di letteratura, un romanzo. “Molto forte, incredibilmente vicino”. E’ la storia di Oskar, orfano di un padre ucciso nel crollo delle torri gemelle. Nel libro ci sono le fotografie delle persone che si lanciarono dagli ultimi piani. Il bambino le scorre all’indietro – come facevamo noi da bambini con certi libriccini – come se fosse possibile tornare indietro nella storia, far risalire agli ultimi piani quelle silhouette nere, che scivolano per sempre lontano. E’ quella l’immagine che non cancellerò mai: il tempo di caduta, la scelta di morire per mano propria, piuttosto che soffocare nel buio…… oggi a Kabul altre figurine…. si erano aggrappati ai portelloni di un aereo in decollo. Quando i portelloni si sono chiusi, sono precipitati. Il tempo di caduta, l’ignoranza del volo aereo, la scelta di morire così, non lo so. Ma nella grande mappa delle vittorie e delle sconfitte, nel mappamondo della geopolitica, resteranno queste piccole tracce nere.”
La mia adolescenza ha avuto spesso come colonna sonora il metal, sparato al massimo del volume attraverso gli auricolari di un walkman della Sony che dovrei avere ancora in qualche cassetto dei ricordi.
Oltre alle due parti di Keeper of the seven keys dei tedeschi Helloween di Michael Kiske, uno degli album che ho ascoltato maggiormente è sicuramente Trash di Alice Cooper. Era sicuramente un altro modo di ascoltare musica: niente Spotify o Deezer o Amazon, niente streaming. L’unica possibilità di “piratare” qualcosa era l’amico che ti prestava un cd o un vinile o una cassetta e tu li masterizzavi o li riversavi restituendogli poi l’originale. Insomma, non grandissime sperimentazioni. Soprattutto, quando trovavi qualcosa che ti piaceva, chi viveva con te benediceva l’esistenza di cuffie e auricolari perché la ripetizione si faceva continua.
Ma torniamo ad Alice Cooper. Ogni anno propongo alle classi seconde un lavoro: portare una canzone sul tema del sacro, della fede, di Dio. Può essere anche di critica o di dubbio o di negazione, l’importante è che vengano toccati quei temi. Studentesse e studenti devono preparare una presentazione in cui introducono artista e canzone e spiegano il motivo della scelta. Quest’anno una studentessa ha proposto I am made of you. Penso che per comprendere il reale significato di questa canzone sia utile inquadrare brevissimamente il personaggio e dare un’occhiata ad alcune dichiarazioni di Alice Cooper, rilasciate in varie interviste.
Alice Cooper oggi ha 73 anni e il suo vero nome è Vincent Damon Furnier. Nel corso della sua lunga carriera è spesso stato protagonista di scene che hanno colpito gli spettatori dei suoi concerti: camicie insanguinate, pupazzi ghigliottinati, serpenti al collo, simboli fallici, immagini horror, mostri, seghe elettriche… Gli eccessi si sono poi spostati dal palcoscenico alla vita privata, con l’abuso di alcol e droga, al punto che la moglie lo abbandona: “Sheryl se n’era andata – era andata a Chicago e aveva detto ‘Non posso vederti così’. Ma la cocaina parlava molto più forte di lei. Alla fine, mi sono guardato allo specchio e sembrava il mio trucco, ma era il sangue che scendeva [dai miei occhi]. Forse avevo delle allucinazioni, non lo so. Ho buttato la droga nel water. L’ho chiamata e le ho detto: “È fatta, basta”. E lei dice: “Bene. Ma devi provarlo.” Uno degli accordi era che iniziassimo ad andare in chiesa. Sapevo chi era Gesù Cristo ma lo respingevo. Sapevo che dovevo arrivare ad un punto in cui avrei accettato Cristo e iniziato a vivere quella vita, o sarei morto. Ed è quello che mi ha davvero motivato. Sono arrivato al punto di dire: “Sono stanco di questa vita”. E alla fine capisci che è la scelta giusta quando il Signore ti apre gli occhi e improvvisamente ti rendi conto chi sei e chi è Lui” (fonte Metalitalia). Afferma ancora: “Amo considerarmi il vero figliol prodigo. Dio ha permesso che io facessi qualsiasi cosa per poi richiamarmi a sé. È come se mi avesse detto ‘Hai visto abbastanza, è ora di tornare a casa’. Ero un alcolista malato, autodistruttivo. Bevevo in continuazione, vomitavo sangue tutti i giorni. Poi ho ricominciato ad andare in chiesa. Le case, le macchine, le cose materiali non sono la risposta, c’è solo un grande nulla al di là di queste cose. Si dice che nel cuore c’è un buco a forma di Dio. Solo quando lo riempi sei soddisfatto ed è dove sono io adesso. Ed è per questo che io adesso sto bene” (fonte Il Manifesto). Sui primi anni della carriera dice: “Mi sono risparmiato una targa nel club dei 27 [artisti morti a 27 anni, vedi wikipedia] e di finire come gli amici con i quali negli anni ’70 a Los Angeles formavamo il nucleo originale degli Hollywood Vampires. Ci incontravamo in una sala del Rainbow Bar and Grill ed era puro spasso. C’erano John Lennon, John Belushi, Keith Moon, il più grande batterista della storia, che ogni sera veniva vestito diverso, una volta da Regina d’Inghilterra, un’altra da Hitler. Bevevo con Jim Morrison e Jimi Hendrix, tutti finiti tragicamente […] Non so fino a che punto sia stata una scelta. La verità è che non conoscevamo il limite fra libertà e autodistruzione. Passammo tutti dal guadagnare pochi dollari a sera a contratti milionari e nessuno di noi aveva un manuale di istruzione per gestire il ruolo di rockstar, la fama e i soldi. Era molto facile esagerare con alcol, droghe, donne, e in tanti si sono consumati. La generazione successiva ha imparato da loro a non morire. Steven Tyler, Mick Jagger, Rod Stewart, Iggy Pop e io abbiamo attraversato la giungla di eccessi e siamo sopravvissuti. La nostra sì, è stata una scelta […] Mi sono salvato con la fede e la spiritualità. Sono diventato discepolo di Cristo e ho cambiato stile di vita. Se c’è una cosa che Dio non ha detto è che io non potevo essere una rockstar. Mi ha creato rockstar e, visto che ci vuole eccellenti e non mediocri, lo faccio al meglio. Avere fede non significa mica stare tutto il giorno inginocchiati a pregare” (fonte Il Messaggero).
Fatto questo inquadramento, ecco che le parole della canzone non hanno bisogno di molti commenti. Riecheggiano immagini e parole dell’inizio della Bibbia, della Genesi, della creazione: “In principio ero solo un’ombra, in principio ero solo, in principio ero cieco, stavo vivendo in un mondo privo di luce. In principio c’era solo la notte. Ero distrutto, a pezzi e mi sentivo così freddo dentro. Poi ti ho chiamato dalle tenebre dove mi nascondo. Io sono creato da te… All’inizio eri una rivelazione, un fiume di salvezza e ora credo. Tutto ciò che volevo, tutto ciò che mi serviva era che qualcuno mi salvasse: stavo annegando, stavo morendo, ora sono libero. Io sono creato da te… Eccomi qui ora, adesso posso restare perché il tuo amore mi ha reso forte e per sempre tu sarai il cantante ed io sarò la canzone. Io sono creato da te…”
E questo essere la canzone di Dio si traduce anche nel suo impegno nei confronti di altri musicisti con problemi di dipendenze, un vivere la fede in modo attivo e concreto: “Studio molto la Bibbia, penso che la gente abbia un’idea sbagliata dei cristiani. Anche noi amiamo il rock. Oggi continuo a suonare dal vivo, sicuramente ho un altro sguardo su quello che ho fatto. Molte delle mie vecchie canzoni erano sicuramente eccessive, ma le mie hit, anche se erano provocatorie, sono del tutto accettabili. È facile bere birra, distruggere le camere d’albergo. Ma essere cristiano è una scelta dura. È questa la vera ribellione” (fonte Il Manifesto).
A volte capita di imbattermi in citazioni di libri che poi sento l’esigenza di fare miei. E’ il caso di Danny l’eletto di Chaim Potok del 1967. Il passo che mi ha conquistato è questo:
“Gli esseri umani non vivono in perpetuo, Reuven. Viviamo meno di quanto dura un batter d’occhio, se si commisurano le nostre vite all’eternità. Può esser lecito chiedere qual è il valore della vita umana. C’è tanta sofferenza, in questo mondo. Che significa dover tanto soffrire se le nostre vite non sono nient’altro che un batter d’occhio?” S’interruppe di nuovo, e aveva lo sguardo velato, adesso, poi riprese: “Reuven, ho imparato molto tempo fa che un batter d’occhio è nulla, di per se stesso. Ma l’occhio che batte, quello sì che è qualcosa. Lo spazio di una vita è nulla. Ma l’uomo che la vive, lui sì che è qualcosa. Lui può colmare di significato questo spazio minuscolo, cosicché la sua qualità sia incommensurabile, sebbene la quantità possa essere irrilevante. Comprendi quel che dico? L’uomo deve colmare la sua vita di significato, il significato non viene attribuito automaticamente alla vita. E’ un compito duro, bada, e questo non credo che tu lo comprenda, per ora. Una vita colma di significato è degna di riposo”.
Mi ha fatto venire in mente la differenza tra il sapere oggettivo e il sapere soggettivo: prendiamo ad esempio il morire. Sappiamo che la morte c’è, ce ne accorgiamo continuamente, basta ascoltare o leggere le notizie di ogni giorno. Ma saperlo soggettivamente, ossia farne esperienza quando ci tocca da vicino è tutt’altra cosa. Ecco allora un’altra citazione che utilizzo nelle classi quarte. E’ di Lev Tolstoj, da La morte di Ivan Il’ic:
“Caio è un uomo, gli uomini sono mortali, Caio è mortale”. Per tutta la vita gli era sembrato sempre giusto ma solo in relazione a Caio, non in relazione a se stesso. Un conto era l’uomo-Caio, l’uomo in generale, e allora quel sillogismo era perfettamente giusto; un conto era lui, che non era né Caio né l’uomo in generale, ma un essere particolarissimo completamente diverso da tutti gli altri esseri: era stato il piccolo Vanja, con la mamma e il papà, Mitja e Volodja, i giocattoli, il cocchiere, la governante, e poi Katen’ka, e tutte le gioie, le amarezze, gli entusiasmi dell’infanzia, dell’adolescenza, della giovinezza. Aveva mai sentito Caio l’odore del pallone di cuoio che il piccolo Vanja amava tanto? Aveva mai baciato la mano alla mamma, Caio, e aveva mai sentito frusciare le pieghe della seta del vestito della mamma, Caio? E Caio aveva mai strepitato tanto per avere i pasticcini quando andava a scuola? E Caio era mai stato innamorato? E Caio sapeva forse presiedere un’udienza in tribunale? Caio è mortale, certo, è giusto che muoia. Ma per me, per me, piccolo Vanja, per me, Ivan Il’ic, con tutti i miei sentimenti, i miei pensieri, per me è tutta un’altra cosa. Non può essere che mi tocchi morire. Sarebbe troppo orribile.”
Sono giorni di Olimpiadi, di sportivi conosciuti ai più che vincono o no e di sportivi sconosciuti ai più che fanno lo stesso. Dei primi si continuerà a parlare e scrivere comunque e anche le persone non vicine al mondo dello sport riconosceranno il loro nome; il nome dei secondi finirà in un cassetto polveroso per tre anni, quando riemergerà per una passata di straccio per la prossima Olimpiade. E nel caso di una vittoria nipponica quest’anno e di una malaugurata sconfitta parigina futura, dovranno prepararsi a essere definiti “una delusione”.
Il 12 novembre 2016 se n’è andato a soli 22 anni Vittorio Andrei, rapper conosciuto come Cranio Randagio; nella canzone Petrolio racconta della madre che l’ha spinto a partecipare a X Factor, ma soprattutto parla delle cose importanti, di ciò che conta, di quanto possa essere difficile vivere in un contesto che tarpa le ali al volo, che smorza gli entusiasmo con le continue critiche. “Io volerò, io volerò via ,ome un gabbiano pure se il petrolio mi pesa sul dorso smorzando la scia. Io volerò via, volerò via perché nel cielo c’è molto di più che in questa terra sbranata da gru, che in quest’oceano sempre meno blu. Dammi un motivo per restare, per mollare l’ancora, qui dove è tutto un detestare cio che l’altro fa. Ci hanno oppressi per testare quanto è forte l’anima, per quanto a pezzi possa amare un giorno spirerà.” E ancora “Ma non sarà certo X Factor a dirvi quanto valgo. La gente si dimentica, si scorda in un secondo anche soltanto che tu possa stare al mondo. Ma come disse un sommo dall’alto del suo intelletto: non puoi fermare il vento, solo fargli perder tempo.”
E conclude: “Io ho qualcosa di importante da dovervi raccontare: nessun “Non ce la farai” vale quanto un “Non mollare””.
Penso sia bene pensarci bene prima di usare “delusione, scontentezza, disillusione, amarezza, insoddisfazione” come parole che descrivono lo stato d’animo del tifoso davanti alle prestazioni di sportivi che hanno fatto mille sacrifici per essere lì. Le medaglie sono tre: non è pensabile che tutto il resto sia delusione (e a volte persino il bronzo o l’argento). E tutto questo portiamolo nella nostra vita: fare tutto il possibile non è detto che ci porti alla medaglia d’oro assoluta perché può esserci chi ci sopravanza. Ma fare tutto il possibile è la nostra medaglia d’oro.
Sono praticamente due anni che non scrivo sul blog. Devo decidere che fare: riprendere a scrivere oppure lasciarlo congelato per qualche mese ancora e quando scade l’abbonamento già pagato chiudere tutto. In questi due anni ci sono stati due eventi su tutto: un evento comune che ha cambiato la vita di tutti (il Covid) e un evento personale che ha cambiato la mia vita (la nascita di mia figlia). Agosto porterà consiglio?