
A volte capita di imbattermi in citazioni di libri che poi sento l’esigenza di fare miei. E’ il caso di Danny l’eletto di Chaim Potok del 1967. Il passo che mi ha conquistato è questo:
“Gli esseri umani non vivono in perpetuo, Reuven. Viviamo meno di quanto dura un batter d’occhio, se si commisurano le nostre vite all’eternità. Può esser lecito chiedere qual è il valore della vita umana. C’è tanta sofferenza, in questo mondo. Che significa dover tanto soffrire se le nostre vite non sono nient’altro che un batter d’occhio?”
S’interruppe di nuovo, e aveva lo sguardo velato, adesso, poi riprese: “Reuven, ho imparato molto tempo fa che un batter d’occhio è nulla, di per se stesso. Ma l’occhio che batte, quello sì che è qualcosa. Lo spazio di una vita è nulla. Ma l’uomo che la vive, lui sì che è qualcosa. Lui può colmare di significato questo spazio minuscolo, cosicché la sua qualità sia incommensurabile, sebbene la quantità possa essere irrilevante. Comprendi quel che dico? L’uomo deve colmare la sua vita di significato, il significato non viene attribuito automaticamente alla vita. E’ un compito duro, bada, e questo non credo che tu lo comprenda, per ora. Una vita colma di significato è degna di riposo”.
Mi ha fatto venire in mente la differenza tra il sapere oggettivo e il sapere soggettivo: prendiamo ad esempio il morire. Sappiamo che la morte c’è, ce ne accorgiamo continuamente, basta ascoltare o leggere le notizie di ogni giorno. Ma saperlo soggettivamente, ossia farne esperienza quando ci tocca da vicino è tutt’altra cosa. Ecco allora un’altra citazione che utilizzo nelle classi quarte. E’ di Lev Tolstoj, da La morte di Ivan Il’ic:
“Caio è un uomo, gli uomini sono mortali, Caio è mortale”. Per tutta la vita gli era sembrato sempre giusto ma solo in relazione a Caio, non in relazione a se stesso. Un conto era l’uomo-Caio, l’uomo in generale, e allora quel sillogismo era perfettamente giusto; un conto era lui, che non era né Caio né l’uomo in generale, ma un essere particolarissimo completamente diverso da tutti gli altri esseri: era stato il piccolo Vanja, con la mamma e il papà, Mitja e Volodja, i giocattoli, il cocchiere, la governante, e poi Katen’ka, e tutte le gioie, le amarezze, gli entusiasmi dell’infanzia, dell’adolescenza, della giovinezza.
Aveva mai sentito Caio l’odore del pallone di cuoio che il piccolo Vanja amava tanto? Aveva mai baciato la mano alla mamma, Caio, e aveva mai sentito frusciare le pieghe della seta del vestito della mamma, Caio? E Caio aveva mai strepitato tanto per avere i pasticcini quando andava a scuola? E Caio era mai stato innamorato? E Caio sapeva forse presiedere un’udienza in tribunale? Caio è mortale, certo, è giusto che muoia. Ma per me, per me, piccolo Vanja, per me, Ivan Il’ic, con tutti i miei sentimenti, i miei pensieri, per me è tutta un’altra cosa. Non può essere che mi tocchi morire. Sarebbe troppo orribile.”
La consapevolezza, quella sconosciuta!
Il “significato” di per sé va al di là delle teorizzazioni di de Saussure su “referente” e “significante”: più che un mero “concetto mentale”, dovrebbe elevarsi a “concetto cosciente”, interiore, frutto d’attenta elaborazione… Ebbene, ciò capita assai raramente: in un mondo dominato dalla frenesia – dove la velocità la fa da padrone nella comunicazione così come nei trasporti (un po’ meno forse in quelli pubblici) e dove il contatto umano si perde a favore di quello virtuale – è divenuto sempre più complicato trovare modi e tempi per riflettere su ciò che ci circonda, siano esse sovrastrutture o le piccole quotidianità della vita… É innegabile il bombardamento di stimoli cui siamo volenti o nolenti sottoposti, un po’ per imprudenza nostra (pur di leggere quell’articoletto che tanto ci interessa il più delle volte siamo disposti ad accettare pedissequamente forme di archiviazione e tracciamento dati che, per non allarmarci troppo, hanno pensato bene di chiamare “cookies”), un po’ per colpa dei nuovi ritrovati della tecnologia (che spesso sfuggono a un uso consapevole)… Insomma, abbiamo talmente tanto di superfluo cui pensare che ciò che significa veramente viene dato perlopiù scontato: vita e morte, morale ed etica, libertà e coercizione, sono tutti termini (puramente esemplificativi) di cui ci si impasta la bocca ma dall’alto, con immotivata indifferenza, come se riguardassero sempre un Caio qualsiasi!
Nella società del 4.0 la capacità di riflettere é sempre più soppiantata dall’istinto di prevaricazione: pare più semplice e automatico competere con/contro altri per l’ottenimento di un vantaggio di qualsivoglia natura anziché considerare le conseguenze delle proprie azioni (Ho soppiantato la carriera di qualcuno? Mi sono inimicato Tizio? Sono felice adesso o devo fare di più per esserlo?)…
Leggendo il tuo post, non ho potuto fare a meno di pensare alla grandiosa Rita Levi Montalcini e a un celebre aforisma attribuitole: “Meglio aggiungere vita ai giorni che non giorni alla vita”… Imprimere significato a ciò che facciamo, consapevoli dell’ineluttabilità della morte ma anche della bellezza dell’esistere, renderebbe l’essere umano più attento al prossimo, nonché empatico e sensibile, qualità che latitano assai oggigiorno…
…e dopo queste riflessioni randomiche non posso che annotare con grande entusiasmo il consiglio di lettura di Chaim Potok: la lista si allunga inesorabilmente!
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Leggendo le tue parole mi è venuta in mente una tipologia di libri di saggistica dalla quale cerco di stare lontanissimo: quelli che presentano già grassetti, sottolineature e schemi! Come se questo dovesse farmi guadagnare del tempo, togliendomi l’impegno della comprensione, della selezione e dell’apprendimento: mica capiscono che quel tempo è un investimento e non un perdita!
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