Gmg e catechesi

gmg(1).jpg

Nel 2005 ho partecipato alla Gmg di Colonia ed è stata un’esperienza particolare, sicuramente forte. Una delle cose che ricordo con più felicità è il momento delle catechesi mattutine (a parte le difficoltà logistiche che hanno caratterizzato tutta quell’avventura: organizzazione tedesca pessima!). Le ho trovate decisamente arricchenti e meno dispersive degli altri appuntamenti, magari più suggestivi. Pubblico allora la sintesi che Silvia Guidi ha fatto per L’Osservatore romano delle due catechesi di Bagnasco e Crociata, entrambe molto interessanti.

«Ognuno sta solo sul cuore della terra / trafitto da un raggio di sole / ed è subito sera»: il cardinale Angelo Bagnasco, nella sua prima catechesi alla Giornata mondiale della gioventù di Madrid, il 17 agosto, cita la lirica sulla precarietà della vita di Salvatore Quasimodo. Un canto accorato su «giorni che sono come un raggio, presto inghiottito dall’oscurità della morte»; un canto apparentemente in contraddizione con il tema della settimana madrilena, «Radicati e fondati in Cristo, saldi nella fede». «Sembrerebbero queste parole — ammette lo stesso presidente della Conferenza episcopale italiana (Cei) — non avere particolare significato per il nostro tema; ma così non è. Il canto della brevità inarrestabile dell’esistenza ha uno sfondo sottinteso ma presente: il desiderio di non morire, di vivere per sempre, di una felicità senza fine. Qui emerge il paradosso e il dramma umano di tutti i tempi, anche dei nostri». Il cardinale cita Camus, che nel suo romanzo Il mito di Sisifo porta questo paradosso alle sue estreme e tragiche conseguenze: «Vi è assolutamente un problema filosofico veramente serio: quello del suicidio. Giudicare se la vita valga o non valga la penna di essere vissuta. Il resto (…) viene dopo». L’uomo non solo vuole vivere, ma vuole sapere: sapere inteso come ricerca e conoscenza sempre più ampia e profonda del mondo, ma anche come conoscenza del perché e del significato del mondo, e, innanzitutto, di se stesso. L’esperienza insegna che vivere non è consumare delle cose e del tempo, non è un calendario di giorni, ma è un intreccio di significati, un orizzonte di senso. È conoscere non solo gli scopi immediati delle nostre singole azioni e scelte particolari — il lavoro, gli affetti, la casa — ma soprattutto il fine ultimo dell’esistenza, è rispondere alla domanda che vibra dentro ciascuno: perché, per che cosa vivo? Qual è il fine pieno che dà valore a ogni altro scopo particolare? Lo stupore di fronte al mistero dell’Essere, ha ricordato ancora Bagnasco, è profondamente radicato nel cuore dell’uomo: «Difficilmente — affermava Albert Einstein — tra i pensatori più profondi nel campo scientifico riuscirete a trovarne uno che non abbia un proprio sentimento religioso». Ma viandante e pellegrino non sono sinonimi, spiega il cardinale: «La meta di un pellegrinaggio ci fa pellegrini, che conoscono da dove partono e verso dove vanno; tutto ciò che accade nel tempo del pellegrinaggio è segnato e misurato dall’obiettivo, dalla meta. Altrimenti siamo dei vagabondi senza casa e senza terra, naufraghi della vita, che vivono alla giornata, come viene, per i quali ciò che conta è quanto sta loro davanti momento per momento: sarà naturale allora cercare di spremere la maggiore soddisfazione possibile dall’attimo presente».

L’istante presente va accolto come un dono, non «spremuto»; il carpe diem tanto spesso raccomandato dai cattivi maestri della nostra epoca nasconde un retrogusto amaro, e un pericoloso e «nevrotico» potenziale di violenza e prevaricazione. Lo ha spiegato, nella stessa giornata, il vescovo Mariano Crociata, segretario generale della Cei: i beni materiali non sono una rete di protezione sufficiente dagli imprevisti della vita. «Quando anche avessi assicurato tutto ciò di cui ho bisogno, chi può dirmi che la mia vita sarà sempre al sicuro? In realtà non c’è nulla di empirico, ma alla fine nemmeno di umano, che possa darmi questa garanzia. Potremmo anzi riconoscere nella ricerca spasmodica di una sicurezza sempre maggiore il meccanismo che sta all’origine di tendenze e comportamenti umani ultimamente frustranti anche se talmente diffusi da sembrare naturali e ragionevoli». All’idolatria della sicurezza materiale — ha ricordato Crociata — si affianca «un altro meccanismo, più elaborato, che può essere innescato dalla ricerca di sicurezza, ed è quello che si basa non tanto, o soltanto, sul possesso di beni, ma sul bisogno di riconoscimento, di stima, di amore, e perciò cerca negli altri il punto di appoggio alla propria ricerca di un solido fondamento alla vita. Anche in questo caso si produce facilmente una distorsione che trasforma le relazioni in una prigione insopportabile. Questo si verifica quando si cerca di ottenere con la costrizione o altre forme di strumentalizzazione un riconoscimento e un amore che raramente arriva spontaneamente dagli altri. Sono molte le forme che assume la pretesa di estorcere dagli altri riconoscimento e amore ad ogni costo; questo genera solo un groviglio di ricatti, insoddisfazioni e infelicità». La vittoria contro le insicurezze è frutto di uno stabile rapporto con Dio, continua il segretario generale della Cei: diventiamo «liberi da ogni possibile schiavitù di cose e persone, poiché la sicurezza della nostra vita non ha bisogno di essere cercata nel surrogato di un possesso pur sempre alienabile né in creature finite come noi, il cui riconoscimento e apprezzamento è pur sempre sottoposto alle evenienze imponderabili della revoca improvvisa o semplicemente degli imprevisti esistenziali. Adesso che la vita trova la sua sicurezza e il suo fondamento in Dio, nell’unico Dio che è il Dio di Gesù, posso usare di tutti i beni senza ansia o nevrosi di sorta, posso vivere le relazioni con tutti senza aspettare o pretendere una dedizione e un riconoscimento che hanno trovato una realizzazione piena e irrevocabile nell’incontro con Gesù e con il Padre suo e nostro».

«Se l’esistenza di Dio — tornando all’intervento di Bagnasco — cambia tutto nella vita dell’uomo, e questo significa un vivere sensato e bello, vuol dire che Dio corrisponde all’uomo, al suo essere, e quindi dovrebbe essere facile e desiderabile accoglierlo nel proprio orizzonte di vita». Allora perché — si interroga l’arcivescovo di Genova — l’uomo contemporaneo fa così fatica a fidarsi di Dio? Il clima culturale che oggi si respira certamente non aiuta. «Che cosa significhi il termine nichilismo ce lo dice Nietzsche: significa “che i valori supremi perdono valore”. Vidi una grande tristezza invadere gli uomini — scrive in Così parlò Zarathustra — I migliori si stancarono del loro lavoro. Una dottrina apparve, una fede le si affiancò: tutto è vuoto, tutto è uguale, tutto fu! (…) Che cosa è accaduto quaggiù la notte scorsa dalla luna malvagia? Tutto il nostro lavoro è stato vano, il nostro vino è divenuto veleno (…) Aridi siamo divenuti noi tutti (…) Tutte le fonti sono esauste, anche il mare si è ritirato. Sentiamo un opprimente senso del tramonto. In questo orizzonte, le domande radicali – quelle che ci siamo posti insieme all’umanità – sembrano perdere di valore, sembrano diventare “domande oziose” come dicevano Comte, Marx e Feuerbach». Un’analisi puntuale del modo di pensare che sembra diffuso in Europa — continua il presidente della Cei — può essere rintracciata tra le pagine de I fratelli Karamazov di Dostoevskij: «Secondo me, non c’è proprio da distruggere nulla, ma è sufficiente che sia distrutta, nell’umanità, l’idea di Dio: ecco il punto su cui bisogna far leva! Di qui, di qui bisogna partire: ah, ciechi senz’ombra di intendimento! Una volta che l’umanità si sarà distaccata, nella totalità dei suoi membri da Dio, allora di per sé, senza bisogno di antropofagia, cadrà tutta la precedente concezione del mondo, e soprattutto la precedente morale, e a queste succederà qualcosa di assolutamente nuovo. Gli uomini si conosceranno per prendere dalla vita tutto ciò che essa può dare, ma senz’avere altra mira che la felicità e la gioia in questo mondo presente. L’animo dell’uomo si innalzerà in un divino, titanico orgoglio, e farà la sua comparsa l’uomo-Dio. (…) il problema ora è questo: esiste o non esiste la possibilità che un simile periodo sopravvenga un giorno? (…) Siccome, tenendo conto della radicale stupidità umana, questa sistemazione potrebbe tardare magari anche mille anni, a chiunque abbia fin d’ora riconosciuto la verità è permesso sistemare la propria vita come più gli fa comodo, su nuove basi. In questo senso, a costui “tutto è permesso”. (…) All’uomo nuovo è permesso mutarsi in uomo-Dio, dovesse essere il solo a farlo in tutto il mondo, e, inseritosi ormai nel nuovo ordine, con cuor leggero saltare oltre ogni vecchio ostacolo morale del vecchio uomo-schiavo: tutto è permesso, e tanto basta!».

Arroganza versus debolezza

Ieri, navigando nel web mi sono imbattuto in un articolo di un mese fa del priore di Bose Enzo Bianchi che conduceva un elogio della debolezza. Oggi nella sezione di economia del sito del Corriere della Sera leggo un pezzo breve dal titolo “Sei odioso? Fai carriera e guadagni di più”. Potremmo dire di essere agli antipodi: li posto entrambi.

Corriere della Sera, 17 agosto 2011

gordon_gekko.jpgMILANO – Quanto aiuta nella carriera essere arroganti, sgradevoli e magari anche profondamente antipatici? Moltissimo. Se poi sei uomo la scalata verso il successo è assicurata. A giungere a questa conclusione è un team di ricercatori guidati da Timothy Judge, docente di Managment presso il Mendoza College of Business dell’Università statunitense di Notre Dame, e al quale hanno partecipato anche Beth Livingston, della Cornell University e Charlice Hurst della University del Western Ontario. I ricercatori hanno raccolto e analizzato i dati di venti anni di studi, aggregando i risultati di interviste e sondaggi a più di 10 mila dipendenti e impiegati e interpretandoli in un report dal titolo «Do Nice Guys—and Gals—Really Finish Last?». In vetta alla classifica degli impiegati più premiati ci sono gli uomini odiosi, o quantomeno giudicati tali dai colleghi. Gli antipatici e sgradevoli infatti arrivano a percepire un reddito addirittura il 18,31 per cento superiore rispetto alla loro controparte gentile. Mentre le signore insopportabili guadagnano mediamente il 5,47 per cento in più delle colleghe simpatiche e solidali. Il che significa che nello scalino più basso della carriera lavorativa si trovano le donne piacevoli e amabili. Dunque va notato che il premio all’odiosità è molto più alto per gli uomini che per le donne e che la par condicio tra sessi non esiste nemmeno a questo proposito. In sostanza, come spiega Judge in un’intervista, la percezione dei colleghi cambia di fronte all’arroganza maschile e femminile, forse perché nella società la prevaricazione e la fermezza vengono tollerati meglio da parte di un uomo, quando addirittura non vengono visti in un’accezione positiva e associate all’abilità nell’essere ottimi negoziatori. Se un maschio è capace di imporsi con durezza, anche a costo di essere sgradevole, dimostra autorevolezza, mentre se una donna si afferma in modo troppo deciso rischia di essere etichettata come maniaca del controllo, pur essendo vista meglio rispetto alla collega dolce e gentile (che nel lavoro equivale a dire «mollacciona»). La gradevolezza è in tutti i casi una penalità, a conferma del luogo comune che rappresenta il vincente sul lavoro come un vero duro, poco umano, poco affabile e molto deciso. EMANUELA DI PASQUA

Avvenire, 10 luglio 2011 5244468932_66d37bb74b_b.jpg

Come scriveva Gilbert K. Chesterton, il paradosso attraversa il tessuto della fede cristiana. E così la debolezza, l’asthenía che nasce dalla malattia, dall’handicap, dall’umiliazione, dalla sofferenza imposta dalla vita, nel cristianesimo se è vissuta come un cammino pasquale può diventare addirittura un luogo in cui si fa sentire la forza di Dio. Questo viene proclamato da Gesù nel discorso della montagna, quando afferma che sono beati, felici, convinti di poter andare avanti con fiducia e di essere nella verità quanti sono poveri, miti, disarmati, perseguitati, affamati (cf. Mt 5,1-12). L’Apostolo Paolo nella Seconda lettera ai Corinzi compone addirittura quello che potrebbe essere definito un inno alla debolezza: «Il Signore mi ha detto: “Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si esprime pienamente nella debolezza”. Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché metta la sua tenda in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie debolezze, negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: infatti quando sono debole, è allora che sono forte» (2Cor 12,9-10). In questo testo vanno sottolineate due espressioni che normalmente sfuggono al lettore: la potenza del Signore si esprime pienamente nella debolezza e la potenza di Cristo mette la sua tenda – la Shekinah, cioè la presenza di Dio – là dove trova la debolezza dell’uomo. Si faccia però attenzione. Questo canto alla debolezza non è un canto al male, alla sofferenza, alla prova, alla miseria – come Friedrich Nietzsche ha imputato al cristianesimo –, ma è una rivelazione: la debolezza di fatto può essere una situazione in cui, se chi la vive sa viverla con amore (cioè continuando ad amare e ad accettare di essere amato), la potenza di Cristo raggiunge la sua pienezza. Ma questo messaggio, peraltro centrale nel Nuovo Testamento, è scandaloso e può sembrare follia (cf. 1Cor 1,18-31), e noi cristiani abituati a tali parole siamo disposti a ripeterle ma non a viverle nell’amore: quest’ultima è la vera sfida, perché la debolezza è fondativa dell’antropologia cristiana.

Confessiamolo però con onestà: quando osserviamo la vita nel suo svolgersi quotidiano, quando tentiamo di leggere la storia e le storie, constatiamo che sono la potenza, la forza, l’arroganza, la violenza ad avere successo, e perciò ci diventa arduo scorgere nella debolezza una possibile beatitudine. Siamo capaci di accogliere la nostra debolezza, che si presenta a noi sovente come umiliazione? Siamo disposti a vedere in essa un’occasione di spogliazione, per essere condotti all’«unica cosa necessaria» (Lc 10,42)? Non solo individualmente, ma come comunità, come chiesa siamo capaci di leggere nella debolezza il linguaggio della «discreta caritas», dell’amore discreto che è vissuto quotidianamente senza alzare la voce, senza voler «dare testimonianza» a noi stessi? Forse solo quando smettiamo di parlare di poveri, di handicappati, ma siamo di fronte a un uomo o a una donna in carrozzella, a una persona colpita nei mezzi abituali di comunicazione; quando ci troviamo davanti a un corpo ferito e dilaniato dalla malattia e dal dolore; quando stringiamo le mani di un povero che le ha tese verso di noi, mettendo le nostre mani nelle sue, forse solo allora comprendiamo il dramma della debolezza e siamo capaci di discernere dove Cristo ha messo la sua tenda.

C’è poi anche una forma particolare di debolezza, che non può essere dimenticata: quella dell’umiliazione che nasce dal nostro peccato, a volte dal nostro vizio o peccato ripetuto, in cui cadiamo e poi ci rialziamo, cadiamo e poi ci rialziamo ancora… Siamo umiliati davanti a Dio e agli uomini, anche in questo sia come singoli cristiani sia come chiesa. «Bene per me essere stato nella debolezza» (Sal 119,71), prega il salmista davanti a Dio, ma è bene anche per la chiesa essere umiliata, conoscere giorni di non-successo, di sterilità, di impotenza tra le potenze di questo mondo, a volte addirittura di insignificanza. Non è stato forse questo il tragitto di Gesù nell’ultima parte del suo ministero, dopo i successi e la favorevole accoglienza iniziale? Sì, dobbiamo nuovamente confessarlo: facile a dirlo, difficile da accettare e soprattutto da vivere senza tradire l’amore. San Bernardo, colui che conobbe forse il più grande successo possibile per un monaco nella storia, sperimentò pure un’ora di umiliazione, di fragilità e di miseria anche esistenziale. Fu, per sua stessa ammissione, una crisi spirituale e morale che lo obbligò a vivere per un anno fuori dal suo monastero. In quel tempo comprese molte cose della vita cristiana che non aveva capito prima; comprese soprattutto che nella debolezza si impara meglio la relazione con gli altri e con Dio, e conobbe veramente cos’è la grazia, la misericordia di Dio. E così giunse ad esclamare: «Optanda infirmitas!», «O desiderabile debolezza!» (Discorsi sul Cantico dei cantici 25,7). Sì, è possibile giungere ad affermare questo, ben sapendo però che nel mestiere di vivere la debolezza appare sempre anche come prova, come faticosa prova. ENZO BIANCHI

Oltre la genuflessione

Spiritualità e corporeità: dall’Oriente può arrivare una lezione utile? In questo articolo di Vittoria Prisciandaro sul numero di agosto di Jesus si sostiene di sì

photo.jpg

Yoga e lectio divina, T’ai Chi e dialogo interreligioso: in questi anni la sapienza asiatica, soprattutto indiana e cinese, si è fatta strada nelle parrocchie d’Occidente. Non è solo moda, tanto meno gusto per i sincretismi esotici. Piuttosto un aiuto, per analogia, nella meditazione e un arricchimento della propria fede cristiana.

La mano destra va a cercare la sinistra e la impugna: è un gesto antico, è l’unione tra il sole e la luna, tra Yin e Yang, il rito del saluto secondo l’antica sapienza Ming. Così, l’ultima settimana di luglio, ha avuto inizio il corso di T’ai Chi Ch’üan, nella casa Pastor Bonus di Lecce. Qualcuno tra i partecipanti indossa la divisa dell’antica arte orientale appena smessi i paramenti della celebrazione eucaristica. La Messa di primo mattino e poi la ginnastica e la meditazione T’ai Chi. A centinaia di chilometri di distanza, nell’eremo camaldolese di Monte Giove, agli inizi di luglio, la lectio divina su un brano della Scrittura è accompagnata dalle meditazioni sui testi del Mahabharata, uno dei più grandi poemi epici dell’India. Dopo il confronto verbale, i presenti – molte donne, alcuni religiosi, qualche sacerdote – fanno pratica yoga e realizzano alcune sequenze che vanno ad «aprire» quella parte del corpo – il cuore se si parla per esempio della carità – su cui la meditazione si è soffermata. Segue la preghiera silenziosa.

Sono solo due esempi, tra i tanti, che dicono come in questi anni la sapienza orientale, cinese e indiana, si sia fatta strada tra il popolo cristiano. Pochi sanno che in passato fu un gesuita francese, Jean Joseph Marie Amiot, che nel 1700 anticipò nei suoi scritti quella che sarà l’odierna comparazione tra la saggezza cinese e l’ascesi cristiana, introducendo, tra l’altro, come definizione sintetica di una qualsiasi attività svolta bene e virtuosamente, il termine Kung Fu. Oggi, sul solco aperto da questo religioso e da altri precursori del dialogo interreligioso, in Italia si muovono diverse realtà, alcune più attente al contesto della preghiera e della meditazione, altre – come il T’ai Chi – più specificamente legate alla riscoperta della corporeità quale luogo fondamentale e indispensabile della pratica spirituale e terreno fecondo dell’incontro interreligioso: le esperienze di meditazione di consapevolezza, tra le quali va citato l’autodidatta 96enne padre Piras, in Sardegna, o la sezione italiana della Christian Meditation, fondata negli anni ’70 dal monaco trappista Thomas Keating. E ancora, la meditazione profonda curata dal padre gesuita Mariano Ballester a Roma; la pratica dello zazen cristiano del missionario saveriano Luciano Mazzocchi; i gruppi che si rifanno all’esperienza dell’incontro tra cristianesimo e zen del tedesco padre Johannes Kopp Rosh; i corsi di meditazione silenziosa tenuti dal cappuccino Andrea Schnoller; quelli di meditazione profonda al convento dei Barnabiti di Campello, guidati da padre Antonio Gentili, o organizzati in giro per l’Italia da suor Marisa Bisi, delle Figlie della Croce. Si tratta di un universo che non cerca la ribalta e in gran parte ruota attorno alla rivista Appunti di viaggio, nata come coordinamento delle esperienze nel campo della meditazione profonda, dove è possibile trovare indicazioni su percorsi e date dei diversi corsi e appuntamenti. Va detto che i sospetti nei confronti di pratiche lontane dalla cultura occidentale, e quindi avvertite come «altre » rispetto allo specifico cristiano, non sono mancati. Un paio di anni fa, dalle pagine del quotidiano Repubblica, Eros Selvanizza, il presidente della Federazione italiana yoga, invitava a un dialogo aperto tra teologi e yogi, dichiarando che alcune «suore e monaci hanno maturato un’esperienza notevole, ma preferiscono non farlo sapere. Non è che se ne vergognino: non hanno capito se per la Chiesa è un bene o un male». Il disagio è comprensibile: la Congregazione per la dottrina della fede, nella Lettera ai vescovi della Chiesa cattolica su alcuni aspetti della meditazione cristiana pubblicata nel 1989, infatti, dichiarava: «Con l’attuale diffusione dei metodi orientali di meditazione nel mondo cristiano e nelle comunità ecclesiali, ci troviamo di fronte a un acuto rinnovarsi del tentativo, non esente da rischi ed errori, di fondere la meditazione cristiana con quella non cristiana». La Lettera entrava nello specifico: «Alcuni esercizi fisici producono automaticamente sensazioni di quiete e di distensione, sentimenti gratificanti, forse addirittura fenomeni di luce e di calore che assomigliano a un benessere spirituale. Scambiarli per autentiche consolazioni dello Spirito Santo sarebbe un modo totalmente erroneo di concepire il cammino spirituale». Eppure, più avanti, la stessa Congregazione affermava: «Ciò non toglie che autentiche pratiche di meditazione provenienti dall’Oriente cristiano e dalle grandi religioni non cristiane, che esercitano un’attrattiva sull’uomo di oggi diviso e disorientato, possano costituire un mezzo adatto per aiutare l’orante a stare davanti a Dio interiormente disteso, anche in mezzo alle sollecitazioni esterne».

«Il T’ai Chi Ch’üan, per esempio, è un’arte che è stata profondamente influenzata dalle più importanti correnti filosofiche e religiose cinesi: scuola Yin-Yang, confucianesimo, neoconfucianesimo, buddhismo Ch’an, taoismo…», dice Roberto Fassi, il pioniere di queste discipline in Italia, autore di alcuni volumi sul tema. «Siamo in un universo lontanissimo dalla meditazione e dalla preghiera cristiane. Non dimentichiamo tuttavia che, grazie al dialogo interreligioso che oggi fa parte della missione della Chiesa, si apre la possibilità di un arricchimento della tradizione cristiana. Certo, è necessario anche un accorto discernimento per evitare pericolosi sincretismi», aggiunge il gesuita Davide Magni, promotore con Roberto Fassi di corsi di T’ai Chi al Centro San Fedele di Milano. È su questa scia che si pongono le pratiche più serie prima citate. «Distinguerei il dialogo interreligioso a livello teologico dal piano della preghiera e meditazione», dice Antonia Tronti, che da molti anni tiene corsi di lectio divina e yoga in alcuni monasteri camaldolesi (Fonte Avellana, Monte Giove, Valledacqua); con l’Associazione Oreundici, dove lavora anche con i bambini; e con alcuni parroci, come a Padova, dove ha iniziato allo yoga un gruppo di giovani del coro e uno di preparazione alla Cresima. «Circa venti anni fa ho deciso di approfondire la mia fede cristiana cercando di trovare dei collegamenti con la spiritualità indiana», racconta Antonia. Un percorso sulle tracce di alcuni cristiani che agli inizi del ‘900 avevano provato a inculturare il Vangelo in terra indiana, come per esempio «il sacerdote francese Jules Monchanin e i monaci benedettini Henri Le Saux e Bede Griffiths», sottolinea padre Magni. «I primi due, nel 1950, fondarono nel Tamil Nadu il Saccidananda Ashram (Eremo della Trinità), a Shantivanam (Foresta della Pace). Alla morte di Monchanin, Le Saux si trasferì nel Nord dell’India, sulle rive del Gange, affidando l’ashram alla guida di Bede Griffiths, che trasformò l’eremo in una piccola comunità monastica di rito cattolico indiano affiliata all’ordine camaldolese, un luogo che sarebbe poi stato visitato da migliaia di persone da ogni parte del mondo». Proprio alla scuola dei camaldolesi Antonia Tronti ha approfondito la sua ricerca e oggi, con i suoi corsi, offre una mano a chi desidera conoscere un’altra via e a volte “usa” lo yoga come introduzione a un percorso più profondo di spiritualità che non finisce nella sola meditazione generica. «Sempre più spesso, capita che gente che si è allontanata dalla Chiesa scopra lo yoga e, facendo pratica, ritorni alla tradizione cristiana e si riavvicini alla fede conosciuta da bambini», dice Tronti. «Sento di fare un lavoro di servizio alla Chiesa, faccio da mediazione tra lo yoga e la preghiera ». In altri casi, capita che alcuni, «che si avvicinano allo yoga per un mal di schiena, poi scoprano un “oltre” e si accostino alla preghiera». Il successo dei corsi, anche tra i cristiani, testimonia – secondo Tronti – che «le persone sentono il bisogno di prendersi cura di sé in modo rallentato». Chi viene dall’area cattolica avvicina lo yoga anche perché sente che la spiritualità ha a che fare con qualcosa di più interno, che abita nel cuore dell’essere umano, e che va incontrata, riconosciuta, alimentata: «Un’esperienza che di solito è difficile fare nelle parrocchie». E scopre un approccio diverso alle discipline orientali, che all’immaginario collettivo vengono sempre più «vendute» per i risultati che permettono di raggiungere, associate all’idea di benessere e business: «Yoga, donne e leadership», «Yoga e T’ai Chi, le posizioni che aiutano a star bene», «La meditazione funziona da analgesico», «Yoga: la battaglia del copyright» sono alcuni titoli di articoli recenti sull’argomento.

Che ci sia, comunque, anche un risvolto salutista in queste pratiche, è ormai ufficialmente assodato: «In passato nei protocolli clinici il T’ai Chi era riconosciuto come medicina preventiva, ma adesso viene identificato anche come cura per la cronicità di alcune malattie», conferma il maestro Ignazio Cuturello, tra gli organizzatori del corso di Lecce e tra i promotori di numerose scuole in diverse regioni. «È interessante sapere che in Italia il T’ai Chi Ch’üan è conosciuto e apprezzato soprattutto per merito del maestro Chang Dsu Yao, che trascorse gli ultimi diciotto anni della sua vita nel nostro Paese. Militare di carriera e alto ufficiale dell’esercito cinese, per molti anni Chang Dsu Yao è stato istruttore capo delle Forze armate e della Polizia di Taiwan. Ha insegnato anche all’Università di Taipei», aggiunge padre Davide Magni, che con Francesco Tomatis, Roberto Fassi e Ignazio Cuturello ha curato un testo di prossima pubblicazione: Corpo e preghiera. La via del T’ai Chi Ch’üan. Il maestro Chang Dsu Yao era di fede cattolica e – ricorda Fassi – ogni sua lezione iniziava e terminava con la cerimonia del saluto a Dio, agli antenati e agli antichi maestri: «Metteva sovente in evidenza che, pur essendo questo un rito di matrice confuciana, i cristiani credenti dovevano rivolgere, prima e dopo la pratica, il loro saluto riverente al Dio uno e trino». Insomma – conclude padre Magni – ciascuna religione elabora differenti spiritualità, intese come cura della vita interiore: «La comparazione tra le diverse religioni e relative spiritualità è possibile solo nell’orizzonte dell’analogia, non attraverso la ricerca di equivalenze. E l’esperienza di questo dialogo mostra notevoli intersezioni tra cammini distinti. È per questa ragione che possiamo ricorrere a patrimoni lontanissimi dalla tradizione cristiana, quali lo yoga e il T’ai Chi Ch’üan: non facendo sincretismi, ma cogliendone le suggestioni per via analogica. Il luogo fecondo di questo dialogo è l’esperienza della corporeità». Una intuizione che è stata benedetta dallo stesso Pontefice: da 40 anni, infatti, Dominic Chan Chi-ming, attuale vicario generale della diocesi di Hong Kong, promuove la pratica del T’ai Chi quale via per una spiritualità matura, capace di integrare tutte le dimensioni della persona umana. Nel 2006 Benedetto XVI ha ufficialmente riconosciuto questa iniziativa pastorale, impartendo la sua benedizione apostolica all’associazione Holy Spirit Society for Tai Chi Spirituality.

Comitato internazionale di bioetica dell’Unesco, un italiano Presidente

Prendo da Jesus questo interessante pezzo di Roberto Carnero

È la prima volta che un italiano viene nominato alla presidenza del Comitato internazionale di bioetica dell’Unesco. Ma Stefano Semplici tale traguardo se l’è meritato con un curriculum di tutto rispetto in questo delicato settore. Eletto durante i lavori della diciottesima sessione, che si è svolta a giugno a Baku, in Azerbaijan, Semplici, classe 1961, è professore ordinario di Etica sociale all’Università di Roma “Tor Vergata” e direttore scientifico del Collegio universitario “Lamaro Pozzani” della Federazione nazionale Cavalieri del lavoro. È uscito in questi giorni nelle librerie, pubblicato dalla Editrice la Scuola, il suo volume Invito alla bioetica.

Professore, come ha accolto l’elezione a presidente del Comitato internazionale di bioetica dell’Unesco? col5a.jpg

«Prima di tutto, come credo si possa facilmente comprendere, con grande emozione. Quando fui nominato nel 2008 membro del Comitato dal direttore generale dell’Unesco, avevo già considerato un privilegio la possibilità di fare questa esperienza in un contesto davvero globale, che raccoglie 36 esperti che vengono da tutto il mondo. Aver ricevuto da questi colleghi e amici la responsabilità di guidare il Comitato per i prossimi due anni è stata per me la più bella conferma della validità del lavoro che abbiamo fatto insieme, ma anche un atto di fiducia che mi sento ovviamente impegnato a ripagare. Il presidente è eletto dal Comitato e non nominato. Questo significa che la prospettiva è in primo luogo quella del lavoro di squadra, con quel pizzico di lievito in più che viene da momenti davvero intensi e belli di convivialità. Le sessioni del Comitato durano quasi una settimana e i rapporti che si creano sono spesso profondi e duraturi. La mia elezione è poi avvenuta il 2 giugno: non avrei potuto immaginare, come italiano, una coincidenza più felice».

Di cosa si occupa il Comitato?

«Il Comitato è stato istituito nel 1993. La sua funzione, così come viene indicato dallo Statuto, è essenzialmente quella di promuovere la riflessione sulle questioni etiche e giuridiche che emergono nell’ambito delle scienze della vita e delle loro applicazioni, incoraggiando, in particolare attraverso i canali dell’educazione, lo scambio di idee e di informazioni. La sua specificità è appunto quella di mettere a confronto intorno allo stesso tavolo culture e tradizioni diverse, voci che sono espressione di contesti anche molto lontani per stili e prospettive di vita, livello di benessere, organizzazione istituzionale. È un lavoro difficile, ma proprio per questo appassionante. La molteplicità delle esperienze e delle linee argomentative non ha peraltro impedito al Comitato di produrre in questi anni documenti importanti, fino alla Dichiarazione universale sulla bioetica e i diritti dell’uomo, che è stata adottata per acclamazione dalla Conferenza generale dell’Unesco nel 2005».

Quali sono i temi più scottanti su cui si svolge la riflessione?

«Proprio per la sua dimensione globale, il Comitato dà nella sua agenda ampio spazio sia alle questioni bioetiche emergenti nei settori di punta dello sviluppo scientifico e tecnologico, sia a quelle che continuano a generarsi lungo le faglie della povertà e dell’ingiustizia e che costituiscono altrettante minacce persistenti alle quali far fronte per una effettiva tutela della vita e della sua dignità. In concreto: il Comitato, come è accaduto in questa ultima sessione, entra nel merito di problemi come la clonazione e la ricerca sulle cellule staminali embrionali, ma guarda con almeno pari attenzione alle ragioni di fondo per le quali ci sono uomini e donne che, a seconda della parte del mondo nella quale è toccato loro in sorte di nascere, hanno davanti a sé una speranza di vita che può essere di quaranta, anziché di ottanta anni. La bioetica dell’Unesco non può che prendere drammaticamente sul serio la sfida di questa dignità letteralmente dimezzata, come abbiamo cercato di fare anche nel rapporto sulla vulnerabilità e sul rispetto dell’integrità umana che abbiamo approvato a Baku».

Quali sono gli argomenti sui quali lei pensa di impegnarsi maggiormente in prima persona?

«Il Comitato dell’Unesco ha il compito di mettere a fuoco le questioni che, a partire soprattutto dalle scienze biomediche, sollecitano la responsabilità dei Governi, dei protagonisti della vita economica e sociale e in ultima analisi di ognuno di noi. Occorre far crescere sia la consapevolezza di questi problemi sia la volontà di affrontarli con strategie condivise. Nel mio intervento conclusivo a Baku, ho cercato di sottolineare in questa prospettiva l’importanza delle bridging issues, cioè di quei temi che più immediatamente esprimono questa interconnessione fra i popoli. Sia perché la scienza è globale e le nuove domande che essa pone non si fermano ai confini degli Stati, sia perché proprio la bioetica, intesa nel senso ampio al quale ci stiamo riferendo, è diventata il luogo nel quale misurarsi, per combatterle, con vecchie e nuove forme di sfruttamento e discriminazione. Si pensi, solo per fare qualche esempio, alla difficoltà di bilanciare la tutela del diritto alla proprietà intellettuale con il dovere inderogabile di garantire a tutti i farmaci indispensabili; a pratiche come il commercio di organi o la delocalizzazione nei Paesi più poveri di attività di ricerca inaccettabili o addirittura vietate in quelli più ricchi; alle asimmetrie crescenti dei fattori socio-economici che incidono direttamente sui livelli di salute delle persone. C’è poi, evidentemente, il capitolo degli argomenti bioetici al quale siamo più abituati: l’ingegneria genetica, le neuroscienze, le biobanche. Il presidente del Comitato, in ogni caso, non ha il compito di scrivere l’agenda. Deve aiutare a organizzare il lavoro di tutti in modo che il contributo di tutti possa essere pienamente valorizzato e ci si concentri sui problemi che a livello globale sono davvero prioritari».

Ci sono questioni che, come lei diceva poc’anzi, siamo più abituati a discutere. Questioni “sensibili” – fecondazione assistita, ricerca sulle cellule staminali, disposizioni sul fine vita, aborto… – sulle quali in Italia il confronto appare spesso aspro, conflittuale, talora persino antagonistico, soprattutto tra la cultura laica e quella cattolica, che sembrano incapaci di trovare una mediazione. È possibile uscire da questa situazione di stallo?

«I dissensi che coinvolgono tali argomenti hanno effetti particolarmente laceranti, perché in essi sono in gioco il principio fondamentale del rispetto per la vita umana, il riconoscimento dei soggetti ai quali tale rispetto è dovuto e il modo in cui le persone lo assumono all’interno del loro progetto di vita. Per allentare la tensione occorrerebbe prima di tutto “smilitarizzare” la bioetica: essa viene spesso praticata e soprattutto comunicata come strumento di battaglia politica, utile a raccogliere consensi, cementare appartenenze, spingere le persone alla sistematica bipolarizzazione di problemi che hanno invece bisogno della pazienza e del tempo di una ricerca attenta e dai toni pacati. Sono problemi, soprattutto, che non si prestano alla semplificazione che ci vorrebbe sempre e soltanto “o di qua o di là” e che, appunto per la loro difficoltà, non consentono di liquidare chi arriva infine a conclusioni diverse come l’oscuro predicatore di medioevali servitù della coscienza o, viceversa, come l’apripista di un rovinoso nichilismo. La gran parte degli studiosi che ho avuto la fortuna di conoscere in questi anni, e potrei dire la stessa cosa per la platea di gran lunga più ampia dei non addetti ai lavori, è fatta di persone che sono sinceramente interessate a pensare insieme e a trovare soluzioni il più possibile condivise. Il che non significa eludere il dissenso o cercare di edulcorarlo. Non sono però queste persone, purtroppo, che occupano gli spazi del confronto pubblico, che parlano in televisione o scrivono sui giornali».

In che modo, in particolare, la Chiesa cattolica potrebbe offrire contributi costruttivi?

«Nella Dichiarazione sull’eutanasia del 1980, per prendere un tema di particolare attualità in Italia in questo momento, la Chiesa cattolica riconosceva che “in molti casi la complessità delle situazioni può essere tale da far sorgere dei dubbi sul modo di applicare i principi della morale”. E da questo riconoscimento si traeva la conclusione che, nella concretezza di tali situazioni, “prendere delle decisioni spetterà in ultima analisi alla coscienza del malato o delle persone qualificate per parlare a nome suo, oppure anche dei medici, alla luce degli obblighi morali e dei diversi aspetti del caso”. Oggi, invece, i principi sono diventati “non negoziabili”. Ma credere che in questo modo essi vengano rafforzati potrebbe essere, alla resa dei conti, un’illusione. Ciò spinge a privilegiare, per la loro tutela, la forza esteriore della legge rispetto all’esemplarità della testimonianza che si propone senza costrizione. Ai principi astratti, preferisco l’ultima pagina dell’enciclica dell’attuale Pontefice Deus caritas est, in cui si additano come esempi sublimi di carità figure assolutamente concrete come Giuseppe Cottolengo e Teresa di Calcutta».

Fino a qualche mese fa la discussione sul Testamento biologico era nell’agenda politica italiana. Oggi l’argomento è stato messo in ombra dalla crisi dell’attuale maggioranza, ma prima o poi il Parlamento dovrà tornare a occuparsene. Secondo lei, quali aspetti vanno tenuti in considerazione per arrivare a una buona legge?

«Questo è davvero, a mio avviso, un esempio di tutto ciò che una legge su un argomento bioetico non dovrebbe essere. La proposta ha preso forma sotto la spinta emotiva di un episodio che ha profondamente coinvolto l’opinione pubblica, quello di Eluana Englaro, mentre il legislatore dovrebbe al contrario non essere coinvolto da passioni troppo “calde”. Si è subito cominciato a contestare da una parte l’invasione di campo delle gerarchie ecclesiastiche e il carattere strumentale della posizione di alcuni dei suoi più zelanti sostenitori e, dall’altra, la volontà dissimulata di arrivare a una vera e propria normativa eutanasica. Il risultato è che, ancora oggi, ci troviamo di fronte a un testo pieno di ambiguità e contraddizioni, tutto concentrato sull’obbligo della nutrizione artificiale, che è probabilmente insostenibile in questi termini, e assai meno attento ai rischi impliciti nella formulazione di alcuni articoli. Siamo in molti a pensare che l’esito potrebbe essere paradossale e che proprio applicando la legge si potrebbe arrivare all’abbandono di malati non più in grado di esercitare “qui e ora” il proprio diritto all’autodeterminazione. Si tratta a mio avviso di insistere proprio sulla differenza fra la volontà attuale e quella ora per allora, bilanciando in modo diverso, rispetto a tutti i trattamenti sanitari, i due principi della tutela della salute come interesse della collettività e del rispetto dell’autodeterminazione, che sono entrambi costituzionalmente rilevanti. Si può ancora fare: a condizione di abbandonare gli argomenti e i comportamenti della bioetica “con l’elmetto”».

Lei ha una formazione filosofica e insegna Filosofia all’università. Che cosa ha da dire specificamente la filosofia (ad esempio, rispetto alla politica e alla religione) sui temi legati alla bioetica?

«La bioetica ha una natura essenzialmente interdisciplinare e la filosofia può aiutare a coltivare questa sensibilità aperta, insieme all’abitudine alla contaminazione di linguaggi e metodi diversi. È vero però anche l’opposto. Stephen Toulmin ha scritto che proprio la medicina ha salvato l’etica, spingendo la filosofia a recuperare la sua capacità di dire qualcosa di rilevante e concreto per la vita e i problemi reali degli uomini. Le due cose vanno probabilmente di pari passo. E comunque anche il mio predecessore alla guida del Comitato dell’Unesco, Donald Evans, è un filosofo».

Fato? Fatto!

Ospito ancora una volta un articolo di Ferdinando Camon che si interroga, prendendo spunto da un fatto di cronaca, sul fato, sul destino, su Dio…

1468874487.jpg

Gli antichi, quattrocento-cinquecento anni prima di Cristo, avebbero detto: «È il Fato». Chi altri potrebb’essere, a volere la morte di un triestino, nel lontano Messico, in un incidente così banale come uno scontro stradale? E quando il fratello riceve le ceneri del morto, e le porta sulla montagna più alta delle Alpi Giulie, a 2.745 metri, 800 metri al di sopra del “limite della vegetazione”, per disperderle sul mondo, e viene colpito da un fulmine, che scendendo dal cielo piomba dritto sulla sua scala ferrata come un proiettile sparato da un cecchino dalla mira infallibile, e così folgorato precipita per oltre 40 metri e in breve tempo muore, quale altra causa si può inventare, quale altro colpevole si può accusare, se non il Fato? La morte dei due fratelli Dean, uno in Messico e uno qui sulle Alpi  Giulie, sembra il frutto di una volontà superumana e maligna, alla quale la volontà umana non può sottrarsi. Era un pensiero gentile, civile e umano, quello di portare le ceneri del fratello, morto così lontano, così solo, così fuori della vista e dell’aiuto dei suoi, portarle il più in alto possibile, dove la vegetazione non cresce più, e sei nudo sotto il nudo cielo, esposto allo sguardo di chi dà la vita e la toglie, e da lì spargerle e lasciarle trasportare dai venti: è come depositare il fratello su tutto il mondo, in un ultimo abbraccio globale. Del resto, questa era la volontà del morto: dopo la morte, disperdersi sul mondo.  Chi ama la montagna, sa come il trovarsi al di sopra del limite della vegetazione dia il senso di un contatto con l’assoluto, il supremo, quel qualcosa che era prima della vita e che è dopo la morte. Gli antichi lo chiamavano Fato, e lo collocavano al di sopra degli dèi. Gli dèi stessi ne avevano paura. Qui il Fato, o chi per lui, ha visto il fratello salire per le montagne, portando le ceneri del fratello morto, per spargerle all’aria col gesto con cui il vivo saluta il morto, un gesto che nessuno ha mai insegnato ma che ognuno impara da sé, perché sta sepolto nell’inconscio di ognuno. Con quel gesto il vivo dice al morto: “Una Forza superiore t’ha strappato a me”. Ma la Forza superiore vedeva e sentiva tutto, e rispondeva: “Ma io non voglio separarvi, io vi voglio prendere tutt’e due”. L’evento che è seguito ha l’astuzia e la malignità dell’agguato: nei cieli si raduna un temporale, dai nuvoloni scoccano tuoni e lampi, un lampo fila dritto sull’uomo inerme che ha appena compiuto un’opera pia, onorare un morto, quell’opera dalla quale, secondo i poeti, trae la sua vera origine la civiltà umana, il lampo di fuoco percorre tutta la scala ferrata e  stacca l’uomo e lo fa precipitare. Con la loro rozza teoria, del Fato che tutto può e contro il quale niente è possibile, gli antichi spiegavano tutto. Noi non possiamo più ragionare così. Noi questi eventi li subiamo e basta. Sono il segno della nostra impotenza, della nostra rassegnazione. La Palma d’Oro di Cannes quest’anno è stata vinta da un film mistico, del regista Malick, all’inizio di questo film una famigliola vive serena e felice in una fattoria americana, è composta di padre madre e tre figli, un figlio muore senza che ci venga detto come e dove, e dalla Terra si sente una voce che sale in alto a chiedere: “Cosa siamo noi per te?”. La risposta dall’alto dà lo sgomento: “Dov’eri tu, quand’io creavo le galassie e gli abissi?”. Già, dov’eravamo noi? Cos’eravamo? Cosa siamo? Cosa sono questi due fratelli, morti uno in Messico e l’altro qui, per pura fatalità? Nell’economia del mondo, non contano niente. Per noi, ci rivelano tutto. Siamo tutti come loro. Esposti ai colpi della fortuna. E senza diritti. Neanche quello di far domande. 

Scomunica per i mafiosi?

Pubblico questa interessante inetrvista che Valeria Pelle ha fatto ad Antonio Nicaso. Penso fornisca molti spunti i riflessione e meditazione.

Antonio Nicaso è uno scrittore e uno studioso scomodo. Uno dei massimi esperti di mafie a livello internazionale (www.nicaso.com), docente di storia contemporanea e delle organizzazioni criminali in una università americana, già consulente della Cnn, autore di un editoriale settimanale su uno dei maggiori network canadesi. Di quelli che siedono alla corte di nessuno, se non dell’etica. Un’etica personale che si nutre di valori forti ed elementari: il coraggio, l’impegno sociale, l’onestà, la coerenza, la legalità. Princìpi che gli ha trasmesso la madre. Semplici, saldi, perché «niente è meglio che vivere onestamente». E che hanno preso forma ancora più netta, se possibile, dopo che è diventato genitore. «Da padre, mi sono reso conto di avere una responsabilità in più: essere un esempio, ogni giorno». E così la scrittura, la denuncia, gli incontri. L’impegno contro la mafia, contro le mafie. Ogni giorno. Un impegno che l’ha portato ad essere ospite, ancora una volta, della Settimana della comunicazione, ad Alba, dove l’abbiamo incontrato.

Quando ha iniziato a interessarsi di mafie? nicaso.jpg

«Avevo sei anni. Non potrò mai dimenticare gli occhi tristi di un mio compagno a cui avevano ucciso il padre. Chiedevo e mi dicevano che non potevo capire, che erano cose da grandi. Mio nonno mi disse: “Lo hanno ammazzato come un cane”. E io cercavo di figurarmi la scena, che senso avesse quella frase, come si uccide un cane. Quell’omicidio è tutt’ora senza colpevoli. Nonostante fosse avvenuto davanti a molti testimoni, la cortina dell’omertà ha protetto i mandanti. Quel pover’uomo è stato ucciso perché non aveva comprato il ferro dai mafiosi. L’ho scoperto dopo. E ho deciso che io non sarei stato in silenzio».

Così ha iniziato a scrivere…

«È un modo per onorare persone come don Diana che diceva: “Per amore del mio popolo non tacerò”. Per dar voce ai tanti onesti che vogliono uscire dal pantano in cui le mafie hanno impastoiato il nostro Paese. E per mafie intendo le cinque organizzazioni che abbiamo in Italia: Cosa nostra, siciliana, la ‘ndrangheta calabrese, che fattura 55 miliardi di euro l’anno, la camorra napoletana, la più antica, la Sacra corona unita pugliese e la più recente, la mafia dei Basilischi in Basilicata. Per combattere le mafie abbiamo a disposizione un’arma potentissima: la conoscenza. Per questo scrivo, da solo o insieme al procuratore Nicola Gratteri (ultimo libro: La giustizia è una cosa seria, Mondadori 2011). Per questo da 30 anni porto avanti quello che per me è un piacere e insieme un impegno sociale: incontrare i ragazzi nelle scuole, nelle iniziative a sostegno della legalità. Cerco di offrire loro spunti su cui riflettere, di stimolare la loro voglia di indignarsi».

E senza mai chiedere compensi.

«Per me questo è un impegno civile, che qualche settimana fa mi ha offerto due grandi soddisfazioni. Un ragazzo mi ha fermato per strada e mi ha stretto la mano ringraziandomi. Mi ha detto che era uscito dal ghetto, era diventato avvocato e che quella strada gliel’avevo mostrata io, che avevo parlato alla sua classe quando frequentava le medie».

E la seconda?

«Mia figlia di 9 anni che era con me, quando il giovane si è allontanato, mi ha stretto la mano e mi ha detto: “Ora ho capito cosa fai, papà. Sono orgogliosa di te!”».

Nei libri dice che le mafie sono diffusissime, si stanno espandendo, specialmente la ‘ndrangheta, in contesti insospettabili. Cosa si può fare per combattere le mafie e cosa può fare la Chiesa?

«La Chiesa potrebbe sostenere la voglia di cambiamento. Ma occorrerebbe una presa di posizione netta dei vertici, un atto dal forte valore simbolico. Se ai mafiosi fossero state applicate le restrizioni che subiscono i divorziati, forse avremmo malavitosi meno arroganti. Se il Santo Padre scomunicasse i mafiosi, negasse loro i sacramenti, la possibilità di fare i padrini di battesimo o di cresima, darebbe ai preti di parrocchia, ai preti di frontiera il sostegno di cui hanno bisogno e diritto. Perché sono tanti quelli che hanno il coraggio d’insegnare ogni giorno ai loro ragazzi il catechismo della legalità. Ma ci sono tanti – e li capisco – che sono in difficoltà, si sentono soli, in contesti difficilissimi. E hanno paura. Di minacce ai preti per i contenuti delle loro omelie si hanno notizie dalla fine dell’Ottocento, quando la mafia ha preso forza, nutrita dai politici dell’Italia che si stava formando. Quella classe politica che si affermò garantendo ai baroni lo status quo, ovvero che la terra in Meridione sarebbe rimasta in mano ai pochi latifondisti, e che la riforma agraria di cui la gente del Sud avrebbe avuto tanto bisogno (e che spinse tanti a ingrossare le file dei garibaldini) mai sarebbe avvenuta. Come, appunto, accadde. L’anatema lanciato da papa Wojtyla nella Valle dei templi contro la mafia per un certo tempo aveva annichilito l’ardire. Affermare che i mafiosi, col loro comportamento, son fuori dalla comunità di Dio ora non basta. Alla regola deve seguire la sanzione. Non si può essere duri con il peccato e tolleranti con il peccatore».

Ma il perdono è uno dei principi fondanti del cristianesimo…

«Infatti le mafie hanno attecchito benissimo nei Paesi cattolici. Non hanno avuto successo nelle culture protestanti, dove non c’è la consolazione di un perdono che può avvenire anche sull’ultimo respiro vitale, ma si chiede di scontare già sulla terra le colpe di cui ci si è macchiati. In attesa di parlarne, poi, a quattr’occhi con Dio».

Quindi la Chiesa non dovrebbe accogliere le persone “in odor di mafia”?

«No. Le mafie (la ‘ndrangheta in particolare) si presentano con riti d’iniziazione che molto mutuano da riti religiosi. I mafiosi traggono spesso legittimazione durante le processioni religiose: i loro affiliati portano le statue dei santi, i capi fanno a gara per organizzare i fuochi pirotecnici più spettacolari. E guadagnarsi così il plauso della gente. Spesso il percorso del corteo è deciso dalle cosche. In certi paesi le statue dei santi vengono fatte inchinare davanti alla casa del boss. Ma quella non è fede, è superstizione. La Chiesa potrebbe far molto per risvegliare le coscienze sul fronte dell’etica, della coerenza, apostolato sociale, gestione onesta della cosa pubblica. Con la promessa dell’8‰ è stata imbavagliata. Se i vertici non prendono una posizione forte, i preti che operano nei luoghi di mafia si sentiranno soli, magari delegittimati, potranno incappare nella seconda forma di omertà, non quella di chi vede e non parla, ma quella di chi non vuol vedere, che nega l’evidenza, si inchina allo status quo. E liquida tutto con un’alzata di spalle e un “è sempre stato così”».

 

Crediamo più al serpente che a Dio

Spesso mi capita che qualcuno dei miei studenti mi chieda come mai la Chiesa è lontana.imagesCAL7W1BD.jpg Quella di una Chiesa distante è una percezione che viene da molte parti, anche da chi è “dentro” le cose. E sovente vengono mosse delle critiche anche ai preti giovani, a coloro che più dovrebbero essere vicini alle nuove generazioni. Navigando su internet mi sono imbattuto in questo pezzo di Silvano Fausti, biblista gesuita che ho avuto modo di apprezzare di persona durante il master di pastorale giovanile che ho seguito qualche anno fa. E’ tratto da www.popoli.info

L’articolo è una risposta a questa mail di un lettore: “Tra i giovani preti è tutto un pullulare di vesti lunghe e turiboli, nelle loro prediche sento parlare molto più spesso di dogmi e di precetti che non di Vangelo e di Gesù. Come mai questa chiusura nelle sacrestie, così paradossale nel momento in cui si vorrebbe lanciare una «nuova evangelizzazione»?”

Ecco la risposta:

La tua è la domanda di chi crede che Gesù «è veramente il salvatore del mondo» (Giovanni 4,42). Il «mondo» per Giovanni è la struttura di peccato che schiavizza quanti non hanno «creduto all’amore che Dio ha per noi» (1Giovanni 2,16; 4,16). Purtroppo molti cristiani non credono all’amore. Preferiscono, come fanno tutte le religioni, cercare Dio con riti, divieti e precetti. Ma «Dio è amore»; e «in questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi, (…) noi amiamo, perché egli ci ha amato per primo» (1Giovanni 4,8.10.19). Nel Vangelo non è l’uomo che cerca Dio, ma Dio che cerca l’uomo, perché lo ama. Unico comando di Gesù è: «Amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi». E spiega: «Come il Padre ama me, così io ho amato voi»; e dice di noi al Padre: «Li ami come ami me» (Giovanni 13;34; 15,9;17,23). Che vertigine! Quando, vivendo la libertà dell’amore, noi saremo una cosa sola tra noi, con lui e con il Padre, solo allora il mondo crederà nel Figlio inviato dal Padre per salvare tutti (Giovanni 17,13). Chi ignora questo amore, sostituisce il Vangelo con la legge. Scambia la libertà dei figli con obblighi e riti per placare un dio ostile: vive da schiavo, come il fratello maggiore nella «parabola del padre misericordioso» (Luca 15,25-32). Paolo oggi ci rimprovererebbe come fa con i cristiani di Colossi: siamo pagani, pieni di «precetti (…), prescrizioni, e insegnamenti di uomini! Queste cose hanno parvenza di sapienza, con la loro affettata religiosità, umiltà e austerità riguardo al corpo; ma in realtà non servono che a soddisfare la carne» (Colossesi 3,20-23; cfr. Marco 7,1-13). «Non avete più nulla a che fare con Cristo, voi che cercate la giustificazione dalla legge: siete decaduti dalla grazia». «Volesse il cielo che si mutilassero» quelli che vi propongono tali cose. Ma «Voi, fratelli, siete stati chiamati a libertà», per essere, mediante l’amore, «a servizio gli uni degli altri. Tutta la legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: amerai il prossimo tuo come te stesso» (Galati 5,4.12-15). Se è così, perché succede ciò che scrive il lettore? Perché, da Adamo in poi, crediamo più al serpente che a Dio! Più che nel suo amore, poniamo la nostra sicurezza in culti e culture, in liturgie e sacrifici. Ma il nostro «incenso è un abominio» per il Signore (Isaia 1,16-21). È facile per il cristiano dimenticare il Vangelo e tornare schiavo della legge. Anche e soprattutto oggi, che è tempo di cambiamenti. Chi ha paura, invece di coltivare le cose fondamentali, cerca segni esteriori che gli garantiscano di avere dio in tasca. Ma questo è un idolo morto che dà morte. Invece di «passeggiare in lunghe vesti» è meglio guardare alla vedova (Marco 12,38-44). Il Concilio di Gerusalemme pose il fondamento: la fede in Gesù e nel suo amore per noi ci salva. Quanto è costruito fuori dal fondamento, ci cade addosso. Urge un secondo Concilio di Gerusalemme. Nel primo si passò dal giudaismo al cristianesimo; ora dobbiamo tornare da un cattolicesimo chiuso su di sé a un po’ più di cristianesimo, aperto a tutti. Ci lamentiamo che il mondo non ci capisce. Se, invece di costruire un ghetto con siepi di tradizioni e credenze emerite, cominciassimo ad amare, il mondo ci capirebbe. Il Vangelo, infatti, offre la libertà e la salvezza che ogni uomo desidera. Unica condizione è che testimoniamo Gesù e non le nostre paure, nascoste da vesti e affumicate di incensi. La nuova evangelizzazione è nulla di nuovo: è prendere sul serio e vivere l’unico vangelo di salvezza. E non ce n’è un altro!

L’ultimo Dio di Vasco

Nell’ultimo album di Vasco Rossi c’è una canzone dal titolo molto letterario anche se si tratta di un titolo nato per gioco… «È nato per scherzo e poi è diventato Ilmanifesto futurista della nuova umanità, ho citato Marinetti ma non so neanche cosa ha fatto» ammette Vasco a XL. L’artista di Zocca canta in prima persona e si rivolge direttamente a Dio, un Dio nel quale l’uomo nuovo non ha più fede: «io veramente penso che non si può più avere fede in un creatore e credo che ormai possiamo avere fede solo nell’uomo. Adesso siamo noi il miracolo della natura, siamo noi la cosa straordinaria da adorare.
L’uomo è anche capace di creare
perché sono le donne quelle che creano la vita sul serio, non Dio. Io credo solo alle leggi della natura
e la sua forza più grande è l’amore, quello che fa fare delle cose senza volere niente in cambio. Non esiste più un creatore con delle idee o dei concetti fissi da seguire. Dobbiamo credere in noi stessi e cercare di migliorare noi il nostro mondo. Costruire il rispetto per se stessi è la cosa più importante, anche se io non ci sono mai riuscito».

La prima parte della canzone mi ricorda tanto il personaggio biblico di Giobbe che viene travolto nella sua tranquillità e si ritrova catapultato in un mare di dubbi e domande, in un oceano agitato senza alcun appiglio. Canta Vasco: “La cosa più semplice, ancora più facile, sarebbe quella di non essere mai nato. Invece la vita arriva impetuosa ed è un miracolo che ogni giorno si rinnova. Ti prego perdonami, ti prego perdonami, ti prego perdonami se non ho più la fede in te. Ti faccio presente che è stato difficile abituarsi ad una vita sola e senza di te. Mi sveglio spesso sai, pieno di pensieri, non sono più sereno, più sereno com’ero ieri. La vita semplice che mi garantivi adesso è mia però, è lastricata di problemi”. Mi torna alla mente anche un passo de “La nascita della tragedia” di Friedrich Nietzsche: “L’antica leggenda narra che il re Mida inseguì a lungo nella foresta il saggio Sileno, seguace di Dioniso, senza prenderlo. Quando quello gli cadde infine tra le mani, il re domandò quale fosse la cosa migliore e più desiderabile per l’uomo. Rigido e immobile, il demone tace; finché, costretto dal re, esce da ultimo fra stridule risa in queste parole: ‘Stirpe miserabile ed effimera, figlio del caso e della pena, perché mi costringi a dirti ciò che per te è vantaggiosissimo non sentire? Il meglio è per te assolutamente irraggiungibile: non essere nato, non essere, essere niente. Ma la cosa in secondo luogo migliore per te è morire presto.’” Diverso è l’approdo di Vasco: “Sarà difficile non fare degli errori senza l’aiuto di potenze Superiori, ho fatto un patto, sai, con le mie emozioni le lascio vivere e loro non mi fanno fuori”. Dio viene quindi accantonato da Vasco: attenzione, non dice che Dio non c’è (tanto più se gli si rivolge…) ma afferma di non avere più fede in lui. Certo, sarebbe da chiedersi quale Dio abbia conosciuto l’artista, perché io un Dio che mi garantisce una “vita semplice” non l’ho mai incontrato…

Sulla ragione

In questi giorni sto leggendo il libro “Senza Dio, del buon uso dell’ateismo” di Giulio Giorello. Sono stato anche alla presentazione del libro, anche se purtroppo l’autore non era presente. Qui sotto posterò un vecchio articolo di Carlo Fiore, tratto da Dimensioni Nuove del gennaio 2001 (Bobbio e Montanelli erano ancora vivi e Biffi era ancora a Bologna), un articolo che fa pensare, meditare, riflettere. Magari anche indispone per alcuni toni e accenti, ma è sempre utile. Personalmente ritengo che essere credenti seri e atei seri sia un percorso comunque arduo, mai scontato. Ho scritto percorso proprio perché penso a un movimento e non a qualcosa di statico. La ricerca del credente e del non credente è continua e non basata sulla certezza filosofica. Un altro bell’argomento sarebbe anche quello su credente e non credente ma rispetto a quale Dio? Ma ecco l’articolo

SULL’ALTARE DELLA RAGIONE

di Carlo Fiore

Il materialismo ha radici antiche. Materialisti erano antichi Filosofi greci come Democrito ed Epicuro, materialisti sono, a tutt’oggi, scienziati e uomini di cultura, anche se il secolo d’oro del materialismo e del positivismo è stato l’Ottocento.

«Le svariate forme di materialismo sostengono che il tutto della realtà, la realtà nella sua totalità, è solo materia in movimento»: materia «eterna e indistruttibile», come afferma Ludwig Buchner (1824-1899) nel suo fortunato libro del 1845 dal titolo Forza e materia. L’uomo è solo materia: quello che noi chiamiamo spirito è, secondo Buchner, «l’effetto del concorso di molte sostanze dotate di qualità e di forze». Ad esempio, il pensiero (D. Antiseri, Credere, Armando). E così pensava tutta una schiera di materialisti del secolo XIX. Qualche espressione tipica per chiarire meglio.

  • «I pensieri si trovano nello stesso rapporto rispetto al cervello della bile rispetto al fegato e dell’urina rispetto ai reni» (Karl Vogt, 1817-1899).
  • «Non c’è pensiero senza fosforo» (Jacob Moleschott, 1822-1893).
  • «L’unica fonte di salvezza è il ritorno alla natura. La natura ha edificato non solo quella comunissima officina che è lo stomaco, ma anche quel tempio che è il cervello» (L. Feuerbach, 1804-1872.).
  • È rimasta celebre un’affermazione del famoso chirurgo dell’Ottocento Claude Bernard: «Signori – disse ai suoi colleghi – sotto il mio bisturi non ho mai trovato l’anima».
  • Un’altra battuta, più esilarante e di grana più grossa, afferma: «L’anima è un gas».

Per il materialista quindi non c’è anima, non c’è trascendenza, non ci sono valori spirituali, non c’è Dio. Solo materia da cui tutto si sprigiona. …

NORBERTO BOBBIO: UN LUME, UN LUMICINO…norbertobobbio.jpg

Qualcosa però sta mutando, il vecchio materialismo ha mostrato la coda di paglia. Anche uomini rappresentativi della cultura attuale si stanno accorgendo che si devono allargare gli orizzonti. Troppo semplicistico dire un no rotondo a tutto il mondo dello spirito e catalogare tutto sotto la voce «materia in divenire», in evoluzione. L’evoluzionismo ottocentesco infatti era radicalmente materialista a causa soprattutto del clima anticlericale del tempo. Oggi la stessa chiesa lo accetta purché liberato dalla sua impalcatura materialistica. Ma ascoltiamo i due grandi vecchi della cultura italiana contemporanea. Norberto Bobbio, non credente, illuminista a passo ridotto: «Io non sono un uomo di fede, sono un uomo di ragione e diffido di tutte le fedi, però distinguo la religione dalla religiosità. Religiosità per me significa, semplicemente, avere il senso dei propri limiti, sapere che la ragione dell’uomo è un piccolo lumicino, che illumina uno spazio infinitamente infimo rispetto alla grandiosità, all’immensità dell’universo. L’unica cosa di cui sono sicuro, sempre stando nei limiti della mia ragione – perché non lo ripeterò mai abbastanza: non sono un uomo di fede, avere la fede è qualcosa che appartiene a un mondo che non è mio – è semmai che io vivo il senso del mistero, che evidentemente è comune tanto all’uomo di ragione che all’uomo di fede. Con la differenza che l’uomo di fede riempie questo mistero con rivelazioni e verità che vengono dall’alto, e di cui non riesco a convincermi. Resta però fondamentale questo profondo senso del mistero che ci circonda, ed è ciò che io chiamo religiosità» (N. Bobbio, Religione e religiosità, in «Micromega», 2/2000).

INDRO MONTANELLI: «ATEO IO? NO, GRAZIE»

montanelli.jpgIndro Montatelli è tra i più noti giornalisti italiani. Anche lui è sulla dirittura di arrivo con i suoi 90 anni. Una lunga vita, i dubbi, le esitazioni, le angosce di un non credente. Dopo una serie di articoli-confessione su problemi di fede, un lettore gli scrisse: «Lei è ateo». Montanelli reagì vivacemente. «Io non mi considero affatto ateo e non capisco come si possa esserlo. La nostra vita, il Mondo, il Creato, l’Esistente devono pure avere un perché che la mia mente e la mia ragione non riescono a spiegarmi. Ed è là dove mente e ragione finiscono e finiscono troppo presto che per me comincia il Grande Mistero di Dio, di Dio che non mi ha dato i mezzi per capire». E rivolgendosi al suo lettore: «Per lei evidentemente Dio non è affatto un Mistero perché, da buon cattolico, accetta come Verità quella rivelata dalla Chiesa. Io la invidio, ma non riesco a seguirla perché mi manca la Fede in quella rivelazione, come in quelle di tutte le altre religioni e confessioni… So che morrò senza aver trovato risposta alle tre più importanti domande della nostra vita: di dove vengo, dove vado e cosa sono venuto a fare: il che mi da, quando ci penso (e ci penso sempre più spesso) un senso di disperazione. Ma non posso giocare a rimpiattino con me stesso, tanto meno con Dio, fingendo una fede che non ho».

TRA DONO DI DIO E SCELTA DELL’UOMO

E qui si pone il grande problema: in che senso la fede è dono di Dio? L’uomo non ha una sua libertà e responsabilità nell’accettare o respingere questo dono? Attenzione a non porre il problema in modo sbagliato e fatalistico: Dio non mi ha dato questo dono, dunque… Don Luigi Giussani, che sta dirigendo una collana di spiritualità per la BUR di Rizzoli, ha scritto: «Vi sono tanti scienziati che, approfondendo le loro esperienze di scienziati hanno scoperto Dio; e tanti scienziati che hanno creduto di eludere o di eliminare Dio attraverso le loro esperienze di scienza. Vi sono tanti letterati che attraverso una percezione profonda dell’esistenza umana hanno scoperto Dio; e tanti letterati che attraverso l’attenzione all’esperienza dell’uomo hanno eluso o eliminato Dio. Allora vuol dire – conclude don Giussani – che riconoscere Dio non è un problema di scienza, né di sensibilità estetica e neanche di filosofia. È un problema di libertà… Alla fin fine, l’opzione è decisiva» (L. Giussani, II senso religioso, Jaka Book). E in un passo analogo: «Anche Althusser, il filosofo neomarxista, la pensava così quando diceva che tra esistenza di Dio e marxismo il problema non è di ragione ma di opzione». Devo scegliere, la mia libertà mi è data per questo: fare delle scelte che orientino tutta la mia vita.

UNA GABBIA CHIAMATA RAGIONE

È evidente che tra la visione ultrapiatta e unidimensionale dei materialisti e positivisti e le aperture al «mistero» di Bobbio e di Montanelli c’è un evidente progresso. Si è aperto lo spiraglio, sia pur piccolo, a una certa trascendenza. «Trascendere senza trascendenza» scriveva Ernst Bloch, il filosofo ebreo marxista eretico. Ma perché il cammino di Bobbio e Montanelli si ferma ostinatamente qui, perché non riesce a fare il balzo verso la Trascendenza in senso pieno? Risposta: a causa dell’illuminismo, che condiziona tuttora la cultura laica. L’illuminismo, sorto in Francia nel sec. XVIII, è passato poi in tutta la cultura europea laica e, per quel tempo, anticlericale. Ha posto sull’altare la Ragione, la Dea Ragione. La Ragione è stata vista come il metro di tutta la realtà: nulla contro la Ragione, nulla al di fuori della Ragione, nulla al di sopra della Ragione. Bobbio e Montanelli, come molti laici italiani tuttora, sono anch’essi figli di questo illuminismo anche se lo hanno ridimensionato molto: i «lumi» della Ragione, seppur semispenti, sono ancora gli unici che possono far luce sulla nostra strada. La Ragione assolutizzata, totalizzante, filtro universale della verità. La Ragione però ha creato una sua religione, ha finito per diventare un idolo che si è sostituito al Dio trinitario. Ha creato quella «soglia» che, per Bobbio, è invalicabile. E ha finito per sigillare in una gabbia la sua libertà, la sua capacità di scelta, di opzione. Chi ci si è rinchiuso non riesce più a uscirne. Bobbio, «un pensiero intimamente tragico», ha detto Vittorio Possenti, afferma di essere rimasto, per onestà intellettuale, «entro la soglia che l’uso di ragione non consente di valicare… Ho sempre avuto un grande rispetto scrive Bobbio per i credenti, ma non sono un uomo di fede. La fede, quando non è dono, deriva da una forte volontà di credere. Ma la volontà comincia dove la ragione finisce: io mi sono arrestato prima». Sulla soglia appunto della gabbia. È possibile allora parlare di opzione, di un sussulto di volontà che approdi a una scelta? No, risponde Bobbio. I confini della gabbia sono invalicabili. «Per me la ragione è un lume: un lumicino. Ma non abbiamo altro per procedere dalle tenebre da cui siamo venuti alle tenebre verso cui andiamo».

SIAMO RANE GRACIDANTI, OPPURE…?

Biffi.jpgIl cardinale Giacomo Biffi, arcivescovo di Bologna, è un uomo abituato a dire pane al pane e vino al vino. Anche quando è «politicamente scorretto». Nel primo numero della rivista Nuntium, Biffi si chiede: «I confini del visibile sono sì o no anche i confini dell’esistente? O, che è lo stesso: c’è o non c’è la possibilità che ci sia qualcosa oltre il mondo visibile?». L’uomo, precisa il cardinale, non può sfuggire a questo dilemma: deve aderire all’una o all’altra di queste due prospettive. O noi siamo come delle rane gracidanti sulle rive dello stagno del nulla, o siamo i fortunati invitati a una festa cosmica che non finirà. Siamo dunque di fronte a una inevitabile scelta tra «una chiara ed evidente insignificanza e una nascosta trascendente significazione. O si dà credito al non senso, che sembra connotare ogni cosa, o ci si affida a un’intelligenza più alta: dobbiamo scegliere». E Biffi conclude: «Questo salto in direzione del mistero è il solo modo che ci è consentito per evadere dalla gabbia della più atroce contraddizione». E dell’assurdo, che oggi ci tallona continuamente. «E’ un salto», prosegue il cardinale, «che mi secca e mi costa, ma non mi è data altra strada per uscire dal non senso di tutto». E chiude con un paragone forse «teologicamente scorretto», ma molto chiaro. «Se sto dormendo al secondo piano di un palazzo e si sviluppa dal basso un incendio, che ha già distrutto le scale, è ragionevole che io mi butti dalla finestra dopo essermi accertato che sotto c’è il telone dei pompieri. Non è la discesa più comoda, quella che d’istinto preferirei, ma è l’unica che può salvarmi. Ebbene, la Rivelazione cristiana è in sostanza l’annuncio che c’è il telone dei pompieri. È il salto della salvezza, che per essere raggiunta, ci chiede il salto ardimentoso dell’atto di fede» (G. Biffi, Al bivio tra l’assurdo e il mistero, in Nuntium, pp. 58-60). 

Vescovi e… vescovi

Per alleggerire un po’ l’urgenza e la drammaticità della cronaca riporto due brevi episodi tratti da un articolo di Giampietro Baresi

Bispo Flavio Cappio.jpg“… i mezzi di comunicazione brasiliani hanno sottolineato il comportamento, per niente diplomatico, di due vescovi brasiliani. Il primo, mons. Luís Flávio Cappio (in foto), vescovo di Barra (do Rio Grande), noto per due scioperi della fame fatti per protestare contro un faraonico progetto del presidente Lula, durante una visita in Germania si è visto offrire 100mila dollari. Dopo aver chiesto da dove venisse quel danaro e saputo che si trattava di una donazione di alcune imprese, ha risposto: «Non posso accettare soldi rubati agli operai e ai consumatori». Il secondo è mons. Manuel Edmilson da Cruz, vescovo emerito di Limoeiro do Norte. Lo scorso dicembre è stato invitato dal senato federale a ritirare la prestigiosa Comenda de Direitos Humanos Dom Hélder Câmara, per il suo impegno a difesa dei diritti umani. Grande è stata la sorpresa generale, quando, iniziando il suo discorso, ha detto: «L’onorificenza che mi viene offerta oggi non rappresenta la persona di dom Hélder Câmara. Anzi, la sfigura. Pertanto, senza risentimenti, ma agendo con amore e rispetto verso tutti i signori e le signore qui presenti, per i quali prego ogni giorno, non posso fare che una sola cosa: rifiutarla. Questa onorificenza è un insulto, un affronto al popolo brasiliano, ai cittadini che pagano le tasse per il bene comune, frutto del loro sudore e della dignità del loro lavoro». La settimana precedente, infatti, i politici si erano aumentati lo stipendio del 61,8%”.

Serve commentare? Naaaaaaa

Un modo diverso di essere maschi

Ieri sera ho partecipato a Zugliano a un incontro con Ugo Morelli su Etica, giustizia ed estetica. Durante la serata lo scienziato cognitivo ha fatto riferimento al suo sito dove ha postato questa interessante riflessione sui tempi di oggi e il ruolo del maschio.

stabiae_3.jpgSarebbe facile limitarsi a esprimere un profondo sentimento di vergogna per un certo modo di intendere la mascolinità. Seppure la vergogna debba essere riconosciuta come una risorsa decisiva per un’etica dei comportamenti. La prova è che di vergogna se ne vede poca in giro in quest’epoca in cui si propone come stile di vita il “tutto è possibile”. Chiedendosi un po’ più approfonditamente cosa sta succedendo è naturale legare il tutto all’espansione dei valori individualistici e all’arroganza che li accompagna, la cui radice è principalmente maschile, anche se spesso imitata anche dalle donne. Si tratta di un individualismo che è divenuto così pervasivo da essere dato per scontato, dimenticando del tutto il fatto che non necessariamente il valore della persona debba ridursi alla privatizzazione dell’esistenza. Siamo esseri relazionali e senza gli altri con cui riconoscersi non siamo niente, pur se possiamo arrivare a pensare di essere tutto. Diviene importante cogliere l’occasione per chiedersi che cosa vuol dire essere maschi oggi. Sappiamo con evidenza che il dominio maschile della società è un fatto storico. Nasce in un certo tempo e si impone come modello unico. Sappiamo, inoltre, che quel dominio è figlio di un’elaborazione nevrotica e spesso violenta delle nostre debolezze di maschi. Eppure non è difficile trovarsi in situazioni in cui, tra maschi, persiste il modello del cacciatore; si perpetuano i concetti della conquista e del non farsi scappare le occasioni. Per non parlare dei linguaggi e dei pregiudizi diffusi negli ambienti lavorativi e nella vita di ogni giorno a proposito delle capacità femminili e del loro riconoscimento. Rimane indicibile e inconcepibile in molti campi l’emancipazione e l’espressione professionale femminile. In questo quadro si inserisce lo squallore delle vicende italiane di queste settimane. Sembra oltremodo importante non anestetizzarsi e sentire il disagio e la vergogna, ascoltare fino in fondo il risentimento di essere maschi, se l’essere maschi può voler dire quello che vediamo accadere. Si cercano, di questi tempi che sono definiti di crisi dei valori, degli orientamenti e dei valori di riferimento. Uno dei valori a cui dedicarsi sembra certamente quello del riconoscimento del fatto che noi esseri umani, tutti, uomini e donne, siamo, emotivamente e affettivamente parlando, portatori di aspetti materni e paterni. Abbiamo bisogno sia di contenimento che di determinazione, sia di cura che di autorevolezza. Riconoscerlo vuol dire assumersi la responsabilità dello sdegno e del risentimento come segno di civiltà umana, maschile e femminile. Esiste un modo diverso di essere maschi ed è un dovere civile esprimerlo nei fatti.

Modernità, fondamentalismo o III via?

Posto ancora un articolo decisamente interessante sulla questione egiziana, visto che le proteste si stanno espandendo. E’ un pezzo di Enrico Beltramini, tratto da Limes

Benché i commentatori si distinguano tra quelli che dicono di capire tutto e quelli che dicono di non capire niente di quello che sta succedendo in Africa settentrionale, c’è un punto sul quale credo siamo tutti d’accordo. E cioè che tutte le interpretazioni possibili su quanto sta infiammando il mondo islamico possono essere riassunte in due grandi categorie: è una reazione alla modernità; è l’ingresso nella modernità. La prima interpretazione ha svolto un ruolo preminente negli ultimi dieci anni. La seconda è probabilmente quella che ne prenderà il posto.

Per anni abbiamo pensato che l’Islam fondamentalista fosse una reazione alla modernità. Liberate dal giogo colonialista, le nazioni mussulmane ritrovavano il loro baricentro in un mondo pre-moderno; meglio, non-moderno, visto che quelle nazioni non avevano vissuto la modernità. E, a quanto pare, non avevano alcuna intenzione di farne parte. La religiosità quindi diventava il collante di un sentimento più complesso e profondo, che aveva nella tradizione militante anti-occidentale la sua origine. Questa interpretazione prende il via con la rivolta iraniana del 1979 e tutto quello che ne seguì. I paesi islamici furono divisi tra non-democratici e secolari da una parte (cioè gli amici dell’Occidente) e non democratici e fondamentalisti dall’altra (i nemici). Ovviamente, i primi erano i regimi dittatoriali o militari (l’Egitto e l’Iraq erano tra questi). La secolarizzazione diventava il bagnasciuga sul quale fermare l’invasione dell’orda fondamentalista. Sia detto tra parentesi, il punto principale di questa visione era che l’Islam fondamentalista è una reazione. Implicita in questa interpretazione è l’idea che l’Occidente guida, l’Islam segue; anzi, reagisce. L’Occidente fissa le regole del gioco, l’Islam può accettarle o rifiutarle, ma a quanto pare è esclusa l’ipotesi che possa esso stesso fissare le regole di un nuovo gioco.

Questa la situazione fino all’11 settembre 2001. L’attacco alle Torri Gemelle ovviamente rimette in discussione le assunzioni precedenti. Però – anche in questo caso – le opzioni sono soltanto due: al-Qaida è espressione del fondamentalismo religioso; al-Qaida fa parte della modernità. L’amministrazione Bush propende per la prima ipotesi. Al-Qaida è un fenomeno anti-moderno che cerca di riportare indietro le lancette dell’orologio, alla creazione di un nuovo califfato islamico modellato sull’impero arabo del VII secolo. E ne trae le relative conseguenze: il fondamentalismo religioso alza la posta, il cuscinetto offerto dai regimi islamici secolari non offre più protezione, il terrorismo è diventato uno scontro frontale e diretto – senza intermediari – tra Occidente e Islam. Nel caso di Tony Blair la democrazia – cioè la modernità – prendeva il posto della croce nella nuova guerra con l’Islam. Nel caso di Bush jr, la democrazia e la cristianità si fondevano in un’unica missione, la modernizzazione forzata dell’Islam come crociata. L’altra ipotesi, comunque, era altrettanto possibile. E cioè che Osama Bin Laden facesse parte della modernità; che al-Qaida fosse un fenomeno moderno. In questa prospettiva, l’agenzia terroristica di Bin Laden esprime – magari involontariamente – l’ingresso dell’Islam nella modernità; ne è quasi un’avanguardia, così come avanguardie furono certe élite intellettuali e sociali europee che aprirono il secolo dei Lumi, la democrazia alle masse, e così via. Bin Laden è prigioniero di un paradosso: combatte il mondo dal quale non soltanto trae nutrimento economico e culturale, ma la distruzione del quale è la sua unica raison d’etre, senza il quale egli stesso non esisterebbe. In questa prospettiva, ci dobbiamo attendere sorprese dal mondo islamico: movimenti magari incomprensibili all’inizio, ma che progressivamente rivelano una lenta – magari incontrollabile, ma certamente inarrestabile – transizione verso la democrazia. Il fondamentalismo islamico, quindi, sarà superato dal di dentro, da un travolgente desiderio di democrazia, di modernità; sarebbe da aggiungere, di “occidentalità”. La teoria di Francis Fukuyama, la “Fine della Storia” applicata all’Islam. Il fondamentalismo islamico, quindi, è il sintomo e non la causa di un malessere delle società islamiche avviate ad abbracciare la modernità. È evidente che – più o meno – questa è l’interpretazione prevalente in Occidente di quanto sta accadendo in Egitto (e in Tunisia, Algeria, e così via): la fine della storia e l’occidentalizzazione dell’Islam. Attraverso uno strumento occidentale – il digital social network – le masse giovanili arabe chiedono la libertà e la democrazia – valori occidentali. L’Occidente non ha più bisogno di appoggiare impresentabili regimi militari per arginare la marea fondamentalista perché la società islamica sta creando al suo interno un’alternativa secolare e democratica. Insomma, l’Islam sta diventando moderno. L’amministrazione Obama guarda con simpatia e trepidazione a quanto sta avvenendo: simpatia per la direzione presa, trepidazione perché il fenomeno potrebbe essere bloccato da un rigurgito militare o dittatoriale; oppure deragliare nel fondamentalismo. La divisione tra Islam e Occidente ora si rispecchia all’interno della stessa società araba. È superfluo aggiungere che l’Occidente sostiene e appoggia l’anima filo-occidentale della società araba.

Ovviamente, c’è una terza opzione. C’è sempre stata. E cioè che le nazioni islamiche seguano la loro Storia, le loro dinamiche interne sulle quali l’Occidente svolge un’influenza abbastanza marginale e non necessariamente funge da modello. Che la Storia soffi all’interno del mondo islamico in direzioni e con movimenti che sono estranee alla tradizione occidentale. Che quanto sta avvenendo a Il Cairo e nelle altre città mediorientali risponda e fenomeni interni alle società arabe che hanno poco a che spartire con la storia occidentale e che quindi siano permeabili alle categorie interpretative non occidentali. Magari potremmo approfondire questa ipotesi, perché potrebbe un giorno rivelarsi quella giusta.

Il_ritorno_del_sultano_editoriale_4_800.jpg

Ancora su Dio e il male

L’articolo che segue è di Sergio Givone e non è proprio facilissimo, ma è un interessante contributo a quanto abbiamo affrontato in quinta

Dice ancora qualcosa la morte di Dio agli uomini di oggi? Secondo Nietzsche, poco o nulla. L’annuncio che «Dio è morto» è destinato a cadere nel vuoto. Magari tutti ripetono la frase a proposito di questo o di quello (secolarizzazione, scristianizzazione, pensiero unico, e così via). Ma come se fosse un’ovvietà, una cosa scontata, di cui prendere atto per poi archiviarla senza farsi troppi problemi. Un po’ come dire: siamo moderni, emancipati, la fede in Dio appartiene al passato. Dovranno passare secoli – è sempre Nietzsche a sostenerlo – prima che gli uomini tornino a interrogarsi sul senso profondo e misterioso di questa morte.maschera1R375_31ott08.jpg Che la morte di Dio appaia come un evento che è ormai alle nostre spalle e che ci lascia sostanzialmente indifferenti non è ateismo. È nichilismo. L’ateismo a suo modo tiene ferma l’idea di Dio. Non fosse che per distruggere e negare quest’idea, liquidando al tempo stesso ogni forma di trascendenza: sia la trascendenza della legge morale, sia la trascendenza del senso ultimo della vita. Tutte cose che costringerebbero l’uomo in uno stato di sudditanza e gli impedirebbero di realizzare la sua piena umanità. L’ateismo in Dio vede il nemico dell’uomo. Perciò gli muove guerra. Per il nichilismo niente di tutto ciò. Quella di Dio è una bellissima idea. Talmente alta e nobile che, come afferma quel perfetto nichilista che è Ivan Karamazov, c’è da stupire che sia venuta in mente a un «animale selvaggio » come l’uomo. Però destinata a dissolversi come rugiada al sole sotto i raggi spietati della scienza. Rimasto senza Dio, l’uomo deve fare i conti con la realtà. Deve imparare a vivere sotto un cielo da cui non può più venirgli alcun soccorso né consolazione. Quindi, deve riappropriarsi della sua vita terrena e soltanto terrena. Con quanto di buono e prezioso la terra ha da offrire una volta che Dio è uscito di scena. Ma siccome non c’è nulla di buono e prezioso se non in forza dei nostri stessi limiti, diciamo pure in forza del nostro destino di morte (infatti come potremmo amarci gli uni gli altri se fossimo immortali?), sia lode al nulla! Questo dice il nichilismo. Ma anche più importante di quel che il nichilismo dice, è quel che il nichilismo non dice. Per realizzare il suo progetto di riconciliazione con la mortalità e la finitezza, il nichilismo deve tacere su un punto decisivo: lo scandalo del male. Precisamente lo scandalo che l’ateismo aveva fatto valere contro Dio, in questo dimostrandosi consapevole del fatto che il male sta e cade con Dio. È di fronte a Dio che il male appare scandaloso. Cancellato del tutto Dio, persino come idea, il male continua a far male, ma rientra nell’ordine naturale delle cose. Ed ecco la parola d’ordine del nichilismo: tranquilli, non è il caso di far tragedie. A differenza del nichilismo, l’ateismo pur negando Dio ne reclama o ne evoca la presenza. Esemplare da questo punto di vista il ragionamento (che a Voltaire sembrò invincibile) svolto da Pierre Bayle. Il male c’è, indiscutibilmente. Come la mettiamo con Dio? O Dio non vuole il male ma non può impedirlo, e allora è un dio impotente; o Dio può impedire il male ma non vuole, e allora è un dio malvagio; o Dio non può e non vuole, e allora è un dio meschino (oltre che impotente); o Dio può e vuole (ma di fatto non lo impedisce), e allora è un dio perverso. Dunque: non può essere Dio un dio impotente oppure malvagio oppure meschino oppure perverso. Obietterà Leibniz: non è vero che Dio lasciando essere il male si condanna alla malvagità e quindi alla non esistenza. Il bene, sul piano ontologico, è infinitamente più grande del male: anche se il bene è silenzioso, spesso invisibile, e invece il male sconquassa il mondo. Il valore positivo del bene è infinitamente più grande del valore negativo del male. Non solo, ma il bene è ogni volta una vittoria sul male, mentre non si può dire che il male sia una vittoria sul bene, perché il bene resta, anche se c’è il male, e al contrario il male, pur non cancellato, è vinto dal bene. Perciò Dio, pur potendolo, non impedisce il male. Se lo facesse, col male toglierebbe anche il bene. Quel bene che, rispetto al male, è un di più di essere, di vita, di senso. Lasciamo stare se gli argomenti di Bayle siano convincenti e se la risposta di Leibniz possa soddisfare pienamente. Certo è che tanto l’ateismo di Bayle quanto il teismo di Leibniz concordano su un punto: è alla luce dell’idea di Dio che il male rivela la sua natura per così dire «innaturale», sconcertante, scandalosamente disumana. Tolto Dio, certo si continua a soffrire, e cioè a patire le offese che la natura reca agli uomini e gli uomini a loro stessi, ma quanto più debole sarebbe quel «no, non deve essere» che osiamo dire di fronte al male chiamando in causa Dio… Il nichilismo, a differenza dell’ateismo, non vuole vedere il male, non può vederlo. E questo per la semplice ragione che Dio non è più l’antagonista, il nemico: semplicemente non è più. Lo stesso si deve dire del male: non è più. Evaporato, dissolto, fattosi impensabile. «L’unico senso che do alla parola peccato – ha detto recentemente un filosofo che fa professione di nichilismo – è quello che è contenuto nell’espressione: che peccato!». Viva la chiarezza. Il nichilismo è subentrato all’ateismo. Potremmo dire che il nichilismo altro non è che una forma di ateismo in cui Dio non è più un problema, come non è più un problema il male – Dio è morto, e questa sarebbe l’ultima parola, non solo su Dio, ma anche sul male. Questo nichilismo amichevole e pieno di buon senso, oltre che perfettamente pacificato, continua a essere la cifra del nostro tempo.

Un ricordo di Samuel Ruiz

sAM1.jpg

Nel settembre 2003 ho avuto il privilegio di ascoltare a Udine, al convegno “Da vittime a protagonisti della storia; persone, comunità, popoli del pianeta” organizzato dal Centro Balducci di Zugliano, la testimonianza di don Samuel Ruiz, scomparso lo scorso gennaio. Posto qui sotto un estratto del ricordo tracciato da Claudia Fanti per Adista

“Con lui se ne è andato uno degli ultimi grandi profeti della Chiesa della liberazione: Samuel Ruiz García, Tatic Samuel, padre degli indios, si è spento il 24 gennaio, all’età di 86 anni, in un ospedale di Città del Messico (soffriva da alcuni anni di diabete e di problemi cardiaci), assistito dal suo “fratello di lotta” Raúl Vera López […]

Nato a Irapuato, nello Stato del Guanajuato, nel 1924, Samuel Ruiz giunse in Chiapas, nel Sudest messicano, nel 1959, chiamato a ricoprire la carica di vescovo della diocesi di San Cristóbal, il più giovane del suo Paese. Vi sarebbe rimasto quarant’anni. La realtà poverissima della Regione, in cui gli indigeni vivevano in condizioni di schiavitù, lo colpì come uno schiaffo. Era andato a evangelizzare, don Samuel, ma, secondo le sue stesse parole, fu lui ad essere evangelizzato […]

Prese così avvio un’esperienza pastorale nella linea della liberazione che lo rese popolare in tutto il mondo, attirandogli, come è avvenuto per tutti i grandi profeti, molto amore e molto odio: un processo di costruzione di una Chiesa autoctona, liberatrice, evangelizzatrice, animata da uno spirito di servizio, in comunione e sotto la guida dello Spirito”. Sono, questi, i sei tratti distintivi della Chiesa chapaneca fissati dal Terzo Sinodo Diocesano, convocato da Ruiz nel 1995 e conclusosi nel 1999, sullo sfondo delle grandi opzioni pastorali della diocesi: la creazione, nello spirito della collegialità conciliare, di strutture di comunione più vicine allo spirito evangelico; l’accompagnamento pastorale integrale al popolo di Dio nella concretezza della sua realtà terrena; la ricerca del dialogo e della riconciliazione come unico cammino per risolvere i conflitti. E, naturalmente, l’opzione per i poveri, quell’opzione che il Concilio, alle cui sessioni Ruiz aveva preso parte, non aveva saputo cogliere, malgrado la sollecitazione di Giovanni XXIII e gli sforzi del card. Lercaro. […]

Nel 1994, quando prese il via l’insurrezione dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (Ezln), il vescovo venne accusato di essere il responsabile della rivolta – in linea con il pregiudizio razzista che riconduce sempre ogni iniziativa india a un qualche attore non indigeno – e minacciato dal governo di arresto per sedizione. Ma don Samuel non si lasciò intimidire. E, dal 1994 al 1998, esercitò il ruolo di mediatore nel conflitto tra Ezln e governo federale, attraverso la Commissione Nazionale di Intermediazione (Conai), prendendo parte alla firma, il 16 febbraio del 1995, degli “Acuerdos de San Andrés”, poi completamente disattesi dal governo. Malgrado il suo impegno a favore della pace, l’allora presidente Zedillo, nel 1998, lo accusò di promuovere una «pastorale della divisione» e una «teologia della violenza». La gerarchia ecclesiastica non fu da meno. Il card. Juan Sandoval Íñiguez, per esempio, individuò una delle cause della ribellione armata in Chiapas proprio nella divisione creata dalla strategia pastorale di don Samuel, dominata da un «tipo di teologia della liberazione ispirata al marxismo» (Milenio, 25/1). Invano Girolamo Prigione, nunzio apostolico in Messico dal 1978 al 1997, si adoperò per farlo cacciare: il protagonista di tante crociate contro la Teologia della Liberazione e la Chiesa più fedele allo spirito del Concilio e di Medellín non ha potuto vantare tra i suoi trofei – fra i quali spicca in particolare l’opera di distruzione del lavoro pastorale di mons. Sergio Méndez Arceo a Cuernavaca – la rimozione del vescovo degli indios dalla diocesi di San Cristóbal per «gravi errori dottrinali, pastorali e di governo». Tuttavia, allo scopo di frenare il processo diocesano, viene inviato nel 1995 a San Cristóbal il domenicano mons. Raúl Vera Lopez, come coadiutore con diritto di successione, destinato, quindi, secondo il diritto canonico, a sostituire mons. Ruiz. Ma il Vaticano non poteva prevedere che il contatto con le comunità indigene e con il lavoro svolto nella diocesi avrebbero trasformato don Raúl nel più fedele alleato del vescovo di cui avrebbe dovuto correggere le presunte deviazioni. E così, a “conversione” consumata, Roma corre ai ripari, trasferendo mons. Vera Lopez direttamente all’altro capo del Paese, a Saltillo, ai confini con gli Stati Uniti. A succedere a don Samuel – che, per non fare ombra al suo successore, preferisce lasciare il Chiapas e trasferirsi a Querétaro, nel Messico centrale – viene infine chiamato un altro vescovo del Chiapas, mons. Felipe Arizmendi, già vescovo di Tapachula, moderatamente conservatore, ma non abbastanza da non comprendere, poco per volta, la necessità di dare continuità al lavoro svolto […]

Lo stesso Arizmendi, in una sua riflessione dal titolo “L’eredità di Samuel Ruiz”, elenca peraltro alcuni degli aspetti dell’opera di Ruiz «che non devono andare perduti, per le loro radici evangeliche», malgrado alcuni di essi appaiano “delicati”, per la difficoltà «tanto di intenderli secondo il Vangelo quanto di applicarli in comunione ecclesiale»: la promozione integrale degli indigeni, l’opzione per i poveri e la liberazione degli oppressi, la libertà di denunciare le ingiustizie di fronte a qualunque potere arbitrario, la difesa dei diritti umani, l’inculturazione della Chiesa, in direzione della creazione di «Chiese autoctone, incarnate nelle differenti culture, indigene e meticce», la promozione della dignità della donna e della sua corresponsabilità nella Chiesa e nella società, la teologia india come «ricerca della presenza di Dio nelle culture originarie», il diaconato permanente. Ma quanto poco tale eredità venga apprezzata dalla gerarchia non ha mancato di farlo notare, persino all’indomani della scomparsa del vescovo, il vicedirettore di Radio y Televisión dell’arcidiocesi di Città del Messico, José de Jesús Aguilar, il quale, intervistato da Formato 21, ha ricordato Samuel Ruiz come «una figura controversa» che «si lasciò condurre dal principio della Teologia della Liberazione», per quanto «lo andò adattando a tutti gli insegnamenti del magistero ecclesiale»; un vescovo «ammirato da gente che non appartiene alla Chiesa cattolica, proprio per questo rischio di vivere la fede cattolica in altra maniera». A rendere al vescovo il «migliore omaggio», come ha evidenziato La Jornada (26/1), sono stati però quelli che più contavano per don Samuel, gli indigeni del Chiapas (dove il corpo è stato trasportato), giunti da ogni angolo dello Stato per sfilare di fronte al feretro del loro Tatic, nella cattedrale di San Cristóbal. Ripercorrendo a ritroso, così, la strada battuta in quarant’anni, a piedi o a cavallo, da El Caminante – come si identificava don Samuel – in visita alle più sperdute comunità indigene della regione. Ora, ha scritto dom Pedro Casaldáliga in un suo messaggio, «el caminante vescovo del Chiapas è giunto al Grande Villaggio, nella Pace, e da lì continuerà ad essere, ora con piena libertà, vero profeta nella società e nella Chiesa, in mezzo ai popoli della nostra Amerindia. (…). Con San Bartolomé de las Casas, con Taita Leonidas Proaño e con Tatic Samuel Ruiz, tutti noi andremo avanti nelle lotte nelle speranze del Vangelo del Regno».

 

Un non cattolico a capo della Pontificia Accademia delle Scienze

Traggo da Avvenire di oggi questo interessante articolo di Andrea Lavazza sul dialogo Scienza/Fede

Metodico e asciutto, come ci si attende – fin troppo banalmente – da un professore svizzero, dice che per lui la nomina è «un grande onore e che l’accoglie come il riconoscimento per il contributo dato alle attività dell’istituzione di cui fa parte da trent’anni». Nessun cenno, anche di fronte a un’esplicita domanda di Avvenire, al fatto di essere un cristiano riformato e, come tale, il primo a sedere alla presidenza della Pontificia accademia delle scienze.

Ma la scelta di Benedetto XVI di porlo sullo scranno occupato fino alla sua morte, nello scorso agosto, dal fisico Nicola Cabibbo ha suscitato a caldo interesse e consensi proprio per la novità costituita dall’apertura a un non cattolico di un organismo della Santa Sede. Premio Nobel per la fisiologia e la medicina nel 1978, Werner Arber ha 81 anni e vanta una luminosa carriera nella ricerca, che prosegue anche oggi all’università di Basilea.scienza-fede.jpg

Fisico passato prestissimo alla microbiologia, deve la massima onorificenza scientifica alla scoperta e all’applicazione degli enzimi di restrizione, meccanismi di difesa dei batteri, che hanno provocato una rivoluzione nella genetica. Arber ama spiegare il complicato processo con una favola che inventò sua figlia Silvia, allora decenne, dopo aver ascoltato un racconto semplificato del padre: «In ogni batterio c’è un re, alto e magro, con molti servi, bassi e grassi. Papà chiama il re Dna e i servi enzimi. Il re è come un libro che contiene tutte le istruzioni per i servi. Papà ha scoperto un servo che usa le forbici; quando entra un invasore, lo taglia a pezzi per difendere il re. Gli scienziati raccolgono servi con le forbici e li usano per scoprire i segreti del re. Per questo papà ha vinto il Nobel». Uomo di scienza e di fede, non vede contrasti tra i due ambiti. «Molti pensano che la Chiesa abbia un atteggiamento negativo verso la ricerca. Ma non è questa la mia esperienza. Anzi, la Chiesa cattolica vuole essere informata sulla conoscenza scientifica più solida e avanzata e farvi ricorso». Di fronte alla prospettiva di uno scontro tra visione scientifica e visione religiosa, lo studioso sottolinea come «il Vaticano e le università pontificie sostengano attivamente il dialogo tra la scienza e la Chiesa attraverso, ad esempio, il progetto Stoq (Scienza, teologia e ricerca ontologica)».

Certo, il dialogo è perseguito, ma i risultati? «Spesso si ottengono ottimi frutti». Intellettuale rigoroso, Arber preferisce l’asciuttezza che non lasci spazio a enfasi o ambiguità. Se il discorso si sposta sui rischi che certa scienza può portare all’uomo e alla sua dignità (dalla distruzione di embrioni alla selezione prenatale fino alla clonazione), preferisce vedere il lato costruttivo: «L’impegno comune tra mondo della scienza, mondo dell’economia e società civile (che è rappresentata sia dai leader politici sia dalla Chiesa stessa) possono spesso evitare gli abusi nell’applicazione della conoscenza scientifica».

Netto, il nuovo presidente della Pontificia accademia, è anche sulle sfide che naturalismo ed evoluzionismo portano a una concezione della vita che voglia mantenere spazio per la specificità dell’essere umano. «L’anima e la dignità dell’uomo – risponde – fanno parte del regno delle credenze. Non possono dunque essere oggetto di un’investigazione scientifica». Tuttavia, ciò non significa opporre alla ricerca sul mondo naturale un fideismo che immunizzi una parte dell’esistenza dalle acquisizioni della scienza.

«Al contrario, non ho mai sperimentato una contraddizione tra l’essere uno scienziato e credere nelle verità del cristianesimo, né difficoltà nel tenere insieme questi due ambiti. Piuttosto, può essere che le mie intuizioni scientifiche abbiano per qualche aspetto e in qualche misura influenzato le caratteristiche della mia fede. Ma ciò lo considero soprattutto un arricchimento». La teoria genetica che Arber è andato delineando in mezzo secolo di studi l’ha portato a ritenere che «la natura si prenda attivamente cura dell’evoluzione». Un’affermazione che, scorporata dal rigore dei dati molecolari, ha portato qualcuno a definirlo «un Nobel scettico su Darwin» e arruolarlo tra i sostenitori del cosiddetto “disegno intelligente”. In particolare, l’avere scritto che «sebbene sia un biologo, devo confessare di non comprendere l’origine della vita» e che «la possibilità dell’esistenza di un creatore, di Dio, per me rappresenta una soluzione soddisfacente al problema» l’ha fatto arruolare tra i creazionisti anche in una controversia pubblica negli Stati Uniti.

Tanto da dover precisare di aderire alla «teoria neo-darwiniana dell’evoluzione biologica, che ho contribuito a confermare e precisare a livello molecolare». E oggi tiene a ribadire, con la massima onestà intellettuale, senza timore di scontentare gli uni o gli altri, che «è un dato di fatto che la scienza, con i suoi mezzi, non possa né provare l’esistenza di Dio, né provare che Dio non esista».

Un po’ di chiarezza

Ozzy_Osbourne_-_Black_Sabbath.jpgSpulciando tra le riviste accumulate in questi mesi di trasloco, staccando i pezzi interessanti prima di gettare nell’apposito cassonetto differenziato la carta, mi è venuto in mano un pezzo-intervista su Ozzy Osbourne preso sempre da XL di giugno:

«Diggin’ Me Down potrebbe essere tranquillamente definita blasfema. “Non credo”, si oppone Ozzy, con gli occhi roteanti dietro gli occhialini tondi. “Mi chiedo solo: ma quanto male deve esserci nel mondo perché arrivi Dio a salvarci? Cosa deve succedere ancora?”. Il principe delle tenebre non crede in Dio. Ci mancherebbe. Ma prega sempre prima di un concerto: “Lo faccio perché penso: ‘Adesso vado là fuori e qualcosa va storto e la gente mi fischia’. La preghiera mi tranquillizza”. Satana con il rosario in mano.»

E allora associando questo pezzo a quello su Mika da poco postatomi chiedo: ma non è che devono fare un po’ di chiarezza dentro di sé? Cosa significa pregare? Messo in questa maniera mi ricorda tanto la grattata data alla cartolina anti-sfiga di Lupo Alberto prima dei compiti in classe al liceo…

La fede di Mika

mika.jpg

Dal mese di settembre Mika tiene una rubrica su XL. Nel numero di ottobre è comparso un articolo dal titolo “Ho fede, ma il mio dio è tollerante. E accoglie”. Nel pezzo scrive di un rituale che compie prima di ogni concerto e all’interno del quale è compresa anche la recitazione di quattro Padre Nostro, scrive delle proprie origini melchite, dell’attrazione che prova per le chiese e del suo essere a favore della fede ma contro la religione. Posto qui sotto l’articolo originale in inglese (a chi me lo chiede lo mando pure in italiano, ma insegnando in un linguistico…)

Before going on stage I have a ritual. Its normal – most singers do. I put on my show trousers and shoes, take off my T-shirt, brush my teeth, chew on a piece of fresh ginger dipped in honey and say a prayer. Every part of my pre-show ritual is as important as the other. The prayer, however, consists of four ‘Our Father’s and a couple lines on each element of my show.
After a year and a half of touring around the world, I asked myself at my final show in Warsaw, why I could not do a performance without this routine and in particular, without the prayer – especially as I am not normally religious. Perhaps the ceremony focuses me and also gives me confidence. But more than anything, this is just a habit which has its roots in childhood.
I was born a Melkite. It is a version of Christianity from Lebanon that has traces of Greek Orthodoxy but follows the Pope and the Vatican. From the age of eight I was educated in Catholic schools. This was not a conscious decision by my parents but a happy accident. I was expelled from the French state school I went to, and ended up at a small private school for boys, which we lived next door to. Religious history and ethics were drummed into us every day and religious music was the first serious singing I did.
Today I find myself with a contradictory opinion on the Roman Catholic Church and religion. I hate so much about it yet cannot get away from it. Religion has given me a code of ethics and an ability to embrace spirituality. Whenever I see a church I am attracted to it. I step inside and love the escape and detachment I feel within those walls. As an institution, it has never felt more detached from the world we live in. I seek refuge in their buildings, I say prayers, I believe in God, but my God is tolerant and inclusive.
At my school we had a close association with the Roman Catholic Brompton Oratory. We knew many of the priests, had confession and lessons with them. It was a general assumption among the boys that quite a few of our priests were probably gay. We had no issues with this. But for me, as an eight year old boy, I started to feel like the Church was used as a hiding place, that homosexuality was wrong, and that repression was encouraged.
I quickly realised this was rubbish. I had the luck to have life and family teach me so. All organized religions need infrastructure, money and have political influence. But in the world we live in today, when power and influence can be found at the click of a computer keyboard, the religious organizations feel more out of touch than ever. Gold crosses and wealth do not impress and are irrelevant when compared to the most important things that faith can offer. Bin the gold cross and get a wooden one. Let the Church impress with an open heart and not a heavy wallet.
It is an organization, it has good and bad and we must be brave enough to take what we like and not have them impose what we do not believe in. The Church is in crisis. Its scandals are being made public and its faults are more evident than ever. In order to survive it must welcome back with open arms the people that it has driven away. I am 27, I am pro choice, pro contraception, pro gay union, pro tolerance, and most of all pro faith if not religion.

Perdonare e dimenticare

Il 26 settembre su Repubblica è uscita questa intervista molto interessante che riprenderemo in IV quando parleremo di giustizia, pena, colpa e perdono

intervista a ENZO BIANCHI, a cura di CHIARA CAROLI

«Dimenticare le colpe? Quello lo può fare solo Dio. Il perdono non può essere cancellazione, né oblio, né gesto di vanità o di arroganza. È un percorso arduo, faticoso. È un dono elargito senza opportunismo, nel nome della fiducia nei confronti dell’uomo». Un’assunzione di responsabilità condivisa, per costruire una giustizia davvero al servizio di una società fondata sui valori più alti: la solidarietà, la pace, la pietà. È una sfida intellettuale impegnativa quella che lancia padre Enzo Bianchi dal palcoscenico di Torino Spiritualità, dove ieri mattina, nel Cortile di Palazzo Carignano, ha dialogato con Gustavo Zagrebelsky sull’idea del perdono, del perdono concesso al “nemico”, inteso come realizzazione estrema della gratuità. «Il perdono non è un patteggiamento di pena – dice il priore di Bose – ma è il fondamento dei rapporti più limpidi e profondi. È reciprocità. È la riconciliazione, è l’andare oltre che offre una possibilità di futuro. E che si applica all’intera vicenda umana, dal privato di un tradimento tra marito e moglie a una grande vicenda storica come il conflitto tra Israele e Palestina».

forgive.jpgPadre Bianchi, come distinguere il perdono dall’impunità?

«Il perdono non cancella la colpa ma è il riconoscimento che la persona è più grande del male che ha compiuto. È un atteggiamento costruttivo, che porta a sfuggire il rancore e rinunciare alla vendetta».

Zagrebelsky teme che la deresponsabilizzazione produca una società di eterni bambini perennemente ricondotti allo stato di fanciullezza, che dalla storia dei loro errori non sono in grado di imparare nulla. È d’accordo?

«Questa idea non mi convince e credo non aiuti il futuro. Non è la fanciullezza la malattia della nostra società, ma l’illegalità. In questo paese da almeno dieci anni è accettato come un fatto naturale che abbiano diritto di esistenza il sopruso e la mancanza di regole. È questa la causa dell’imbarbarimento».

Può esistere felicità senza responsabilità?

«No. Se parliamo della beatitudine evangelica, essa non può che realizzarsi nella responsabilità non solo di sé ma anche dell’altro, dell’altro che è mio fratello. Questa condivisione di responsabilità è la strada che fa crescere tutti e realizza una società matura».

Lei sostiene che una vera “communitas” contrassegnata dalla qualità della convivenza sociale e dalla solidarietà non può escludere “ciecamente” il perdono dal concetto e dalla prassi della giustizia. Come distinguere questa idea dall’iper-garantismo?

«La giustizia contiene in sé il concetto di perdono. La filosofia del diritto lo sta elaborando. L’idea di perdono non esclude quella di memoria. La colpa va ricordata, non dimenticata né cancellata. Il fine di una società umana costruita sull’amore deve lavorare per la riconciliazione e per la riabilitazione di chi ha peccato».

Riconciliazione in Sudafrica, in Israele. E qui, in Italia, tra carnefici e vittime del terrorismo. È possibile?

«Il cammino della riconciliazione è difficile. Nel privato è affidato alla coscienza e ai sentimenti dei parenti delle vittime. Ma a livello politico mi pare che lo Stato abbia già perdonato, attraverso l’indulto o gli sconti di pena. Il che non significa annullare la responsabilità ma offrire a chi ha commesso un delitto una via d’uscita per non essere identificato con la propria colpa e ricominciare una vita con dignità. C’è una virtù in tutti gli uomini, che la Bibbia chiama “immagine e somiglianza di Dio”, che nessun misfatto può cancellare del tutto».

Non crede che il buddismo, che quest’anno a Torino Spiritualità è stato protagonista con tre grandi maestri tibetani, abbia riposte più efficaci del Cristianesimo ai disagi interiori dell’uomo contemporaneo?

«Credo che la religione cristiana abbia qualcosa da imparare dal buddismo in materia di compassione e il buddismo dalla religione cristiana sul tema del perdono. Ma mi pare che l’approccio alle discipline orientali sia più intellettuale che autenticamente spirituale. È effetto della globalizzazione. Tutti vogliono conoscere un po’ di tutto. Ma non credo al bricolage dell’anima. Prendere sulle bancarelle un po’ di questo e un po’ di quello non può produrre che una spiritualità omologata e superficiale. Un pizzico di tutto non fa la buona cucina».

Leggenda indù

E allora mettiamoci anche questa antica leggenda indu

Una antica leggenda Indù racconta che un tempo gli uomini erano degli dei, ma abusavano talmente della loro divinità che Brahama, capo degli dei, decise di togliere loro la potenza divina e nasconderla dove non l’avrebbero mai trovata. Scorci di cielo 054 fb.jpgDove nasconderla divenne quindi il grande problema. Quando gli dei minori furono chiamati a consiglio per valutare la situazione, dissero: “Seppelliremo la divinità dell’uomo in fondo alla terra.” Ma Brahama disse: “No, non basta, perché l’uomo scaverà e la troverà”. Allora gli dei dissero: “Bene, allora affonderemo la sua divinità nell’oceano più profondo.” Ma Brahama rispose ancora: “No, perché prima o poi l’uomo esplorerà le profondità di ogni oceano e la riporterà in superficie.” Allora gli dei minori conclusero: “Non sappiamo dove nasconderla perché sembra che non ci sia alcun posto sulla terra o nel mare dove l’uomo non potrebbe, eventualmente, raggiungerla”. Allora Brahama disse: “Ecco cosa faremo con la divinità dell’uomo. La nasconderemo profondamente in lui stesso, perché non penserà mai di cercarla proprio lì.” E da allora, conclude la leggenda, l’uomo è andato su e giù per la terra, arrampicandosi, tuffandosi, esplorando e scavando per cercare qualcosa che aveva sempre racchiusa in sé.

Genetica e libertà

Oggi è stato il primo giorno di scuola di questo 2010-2011. Non ho avuto delle classi, per cui il mio vero primo giorno sarà domani. Solitamente posto un articolo di benvenuto o qualcosa per accogliere i neo percotiani. Quest’anno invece parto con un articolo pengio pengio (bon dai facciamo pengetto, altrimenti manco lo leggete) sulla libertà e sul determinismo genetico pubblicato da Avvenire e scritto dal teologo Moltmann, utile in particolare al triennio e agli ex-studenti che passano ancora su questo blog 🙂

 

Moltmann: i geni non spiegano il genio

Determinismo o libero arbitrio? Questo antico dibattito torna oggi d’attualità nella ricerca genetica e in quella sui neuroni. Veniamo generati nei nostri geni? I geni esistono nella loro peculiarità prima che sorga la nostra coscienza? Pilotano il nostro io nei suoi comportamenti? Determinano quindi il corso delle nostre vite e spiegano perché diventiamo come siamo?deter.jpg

Il noto giornalista americano David Brooks ha scritto nel 2007 (Herald Tribune): «Dal contenuto dei nostri geni, dalla natura dei nostri neuroni e dalla lezione della biologia evoluzionista è diventato chiaro che la natura è costituita da competizione e conflitti di interessi. L’umanità non è venuta prima delle lotte per la propria affermazione, le lotte per l’affermazione sono profondamente radicate nelle relazioni umane».

Ne traeva come conseguenza la naturale disposizione alla competitività del capitalismo e una “visione del mondo tragica”: «Siccome la natura umana è predisposta così aggressivamente alla lotta per il potere abbiamo bisogno di uno Stato forte, di un’educazione dura e di una visione del mondo tragica». Si tratta del risultato di una ricerca o dell’interesse di un’ideologia? Io credo si tratti di pura ideologia naturalistica, perché si fonda sulla riduzione dell’imprevedibile sistema “uomo” ai suoi geni e neuroni prevedibili. Così sorge la fatale impressione di vivere in un mondo chiuso nella sua causalità, come se la nostra libertà, che pure percepiamo nel «tormento della scelta», fosse un’illusione. Se così fosse qualsiasi criminale davanti a un tribunale dovrebbe appellarsi all’incapacità di intendere e di volere, per poi essere assolto in quanto non imputabile. Craig Venter è stato il primo a decifrare il genoma umano. Ha decodificato anche il proprio genoma, che è stato pubblicato su tutti i maggiori quotidiani. Se lo potessimo leggere sapremmo poi chi è Craig Venter? Se egli stesso può leggerlo viene poi a conoscere se stesso? Quando l’ho incontrato di persona a Taiwan due anni fa mi ha raccontato quanto la guerra in Vietnam, combattuta da giovane, lo avesse cambiato. Il suo genoma non esprime nulla di tutto ciò, naturalmente, ma allora perché la tesi deterministica secondo la quale saremmo pilotati dai nostri geni e non avremmo alcuna libertà di reagire alle esperienze di guerra in questo o quell’altro modo?

Facciamo ancora un esempio: nella rivista scientifica Nature Genetics è uscito di recente un articolo nel quale veniva dimostrato da ricerche svolte in tutto il mondo che sono i geni a determinare se i giovani diventino o meno fumatori. Lo studio documentava per la prima volta i fattori genetici a causa dei quali nei recettori cerebrali della nicotina si determina in quale modo si sviluppi la dipendenza e il comportamento rispetto al fumo. Io ho fumato molto dal 1956 al 1976, poi ho smesso da un giorno all’altro. Come ho potuto farlo? La ricerca genetica, per quanto ho potuto seguirla, ha da tempo oltrepassato, nei suoi seri esponenti, questo riduzionismo ideologico. L’immagine della competitività del gene egoista, delineata da Richard Dawkins nel 1978, è influenzata dal darwinismo sociale. I geni sono di fatto più flessibili dei corpi solidi, si «attivano e disattivano» e reagiscono essi stessi agli influssi ambientali. Le nostre esperienze e le nostre relazioni con altre persone, in cui facciamo esperienza di accoglienza o di rifiuto, influenzano anche il funzionamento dei nostri geni. Il medico tedesco Joachim Bauer, che si occupa di psicosomatica, afferma quindi: «I geni non pilotano soltanto, sono anche pilotati» (Principio Umanità, 2006). Anche nelle ricerche sull’intelligenza vengono considerate oggi più le condizioni di vita che le predisposizioni genetiche. Giungo al risultato secondo cui il determinismo genetico e neurologico non è in grado di abolire la nostra libertà, la nostra responsabilità né la nostra imputabilità. Lo si può approvare o rincrescersi, ma le ideologie non spiegano solo i risultati di alcune ricerche, rappresentano anche sempre gli interessi di una parte. Chi ha oggi interesse ad abolire la nostra libertà e a rendere manipolabili gli uomini?

Jurgen Moltmann