Un bell’articolo di Lluís Martínez Sistach su Gaudì pubblicato su Avvenire del 16 gennaio 2015.
“La Sagrada Família è un inno alla natura, è un canto alla luce e a tutto il creato che, secondo il libro della Genesi, seguì alla creazione della luce. La visione che Gaudí ha della natura e che plasma nella sua opera è molto vicina a quella di san Francesco d’Assisi. Pertanto, a ragione, si è parlato di un’ispirazione francescana nella sua opera, e di uno stile francescano nella sua vita, in particolare quanto a umiltà e povertà.
È ben noto che le strutture geometriche, nella cui creazione e uso Gaudí è geniale, si ispirano alla natura. «Il grande libro – affermava – sempre aperto e che conviene sforzarsi di leggere, è quello della natura. Gli altri libri sono tratti da questo e contengono gli errori e le interpretazioni degli uomini. Ci sono due grandi rivelazioni: una dottrinale, della morale e della religione (col termine “dottrina” Gaudí fa riferimento alla Sacra Scrittura), e l’altra, che ci guida attraverso i fatti, che è quella del grande libro della natura». «Ogni cosa proviene dal grande libro della natura – aggiungeva Gaudí –; le opere degli uomini sono già un libro stampato. Vedete quell’albero vicino al mio laboratorio? Lui è il mio maestro». Raramente in un autore degli inizi del XX secolo si possono trovare affermazioni simili così piene di amore e rispetto verso la natura. Gaudí, nel suo modo di amare e rispettare la natura, fu anche un innovatore.
Fu un vero apostolo dell’ecologia. Non è forse questa una delle caratteristiche che rende alla Sagrada Família un significato veramente universale, sia a oriente, Giappone in particolare, sia a occidente? Dove apprese il nostro architetto questo amore per la natura? Senza dubbio alcuno, dalla sua infanzia. Si è detto che l’infanzia è la patria di ogni persona per tutta la propria vita terrena. Per quanto riguarda Gaudí sappiamo che durante l’infanzia soffrì di reumatismi articolari, ragion per cui si trasferiva spesso a Riudoms, in una masseria di famiglia, in groppa a un asinello, perché il dolore gli impediva di camminare.
Lì, così come confessò a Joan Bergós, nel libro Gaudí, l’home i l’obra, «con i vasi di fiori, circondato da vigneti e uliveti, animato dal chiocciare delle galline, dai canti degli uccelli e dal ronzio degli insetti, e con le montagne di Prades a fare da sfondo, potei cogliere le più pure e gioiose immagini della natura. Questa natura che sempre mi è maestra». Dello spirito di osservazione del Gaudí bambino ci parla questa confessione fatta a Bergós: «A causa della mia malattia, dovetti astenermi spesso dal giocare con i miei compagni, cosa che favorì in me lo spirito di osservazione. Così, quando il maestro spiegò in una lezione che gli uccelli avevano ali per volare, osservai che “le galline della nostra fattoria hanno ali molto grandi e non sanno volare: le utilizzano per correre più velocemente”».
È stato scritto che il tempio da lui ideato costituisce un grande giardino in pietra, nel quale il regno minerale, vegetale e animale, perfino gli esseri più umili, come le tartarughe, danno il loro contributo all’opera e intonano un canto di lode al Creatore. Gaudí asseriva che, nell’edificare l’opera, si proponeva di plasmare con la pietra gli esseri viventi che individuava e ammirava nel prato del terreno su cui doveva sorgere la sua “cattedrale”. È ben nota la sua ammirazione per i colori. Gaudí credeva che la vita si esprimesse nei colori che non dovevano assolutamente mancare nella sua opera, perché sono espressione di vita ed esplosione di gioia. Questa visione gioiosa e riconoscente della natura è un elemento molto valido per il nostro dialogo con gli uomini di oggi e con la cultura attuale, fortemente segnata dall’ecologia. «Il colore è vita».
Come ammirerebbe Gaudí il modo in cui si è diffuso il colore nel mondo attuale! Gaudí era mediterraneo al cento per cento. E sapeva molto bene come la latitudine influisse sul sentimento della bellezza. Secondo Martinell, l’architetto spiegava ai suoi visitatori quanto segue: «Noi abitanti dei Paesi bagnati dal Mediterraneo sentiamo la bellezza con più intensità degli abitanti dei Paesi del Nord, ed essi stessi lo riconoscono. […] Abbiamo l’obbligo di infondere questo sentimento di vita nelle nostre opere, nel cui aspetto deve riflettersi il nostro modo di essere». Gaudí raccontò un aneddoto molto esplicativo del suo amore per la natura, secondo la testimonianza raccolta da Bergós riguardo la costruzione della Casa Vicens: «Quando andai a prendere le misure del terreno, questo era interamente coperto da fiorellini gialli; fiorellini che sono stati ripresi come motivo fondamentale delle piastrelle in ceramica. Trovai anche un esuberante margallón [palma], la cui forma delle foglie, come fuse nel ferro, formano le inferriate e la porta di ingresso».
Come è noto, nel Rosario monumentale della montagna di Montserrat, a Gaudí venne affidata la costruzione
del primo mistero della Gloria: la risurrezione di Gesù. Anche qui, oltre alla simbologia cristiana, diede prova del suo amore verso gli esseri più umili della natura. Bergós lo racconta in questo modo: «Collocai il mistero della risurrezione in un angolo del percorso, facendo scavare in modo realista la roccia che si vede di fronte alla grotta funeraria, con in mezzo il sepolcro vuoto; alla sinistra del sarcofago, le sante donne ricevono l’annuncio dell’angelo su quanto è accaduto al Maestro. Quando lo spettatore si gira, contempla con emozione che Cristo rifulgente sembra elevarsi sull’alta rupe che vi è accanto. Le sculture collocate all’interno della grotta sono di Reart, e il Cristo, in bronzo dorato, è di Llimona. Adesso manca solo che siano piantati alcuni alberelli e siano coltivati gli ortaggi più umili, per suggerire l’idea dell’orto del buon giardiniere di cui parla il Vangelo e affinché il canto di molti uccelli accompagni la messa della mattina di Pasqua».
Nel suo capolavoro, Gaudí introdusse gli elementi della natura, affinché la creazione convergesse nella lode divina, e allo stesso tempo portò all’esterno della chiesa le pale d’altare, per mettere davanti agli uomini il mistero di Dio rivelato nella nascita, nella passione, nella morte e nella risurrezione di Gesù Cristo. Il nostro architetto fece ciò che possiamo definire uno dei compiti più importanti oggi: «Superare – come affermò Benedetto XVI – la scissione tra coscienza umana e coscienza cristiana, tra esistenza in questo mondo temporale e apertura alla vita eterna, tra la bellezza delle cose e Dio come bellezza. Non realizzò tutto questo con parole, ma con pietre, linee, superfici e vertici. In realtà, la bellezza è la grande necessità dell’uomo; è la radice dalla quale sorgono il tronco della nostra pace e i frutti della nostra speranza. La bellezza è anche rivelatrice di Dio perché, come Lui, l’opera bella è pura gratuità, invita alla libertà e strappa dall’egoismo».”
Gemme n° 119
La gemma di M. (classe quarta) è stato un pezzettino del film d’animazione “Fantasia 2000”: “Innanzitutto mi piacciono gli effetti speciali. La gemma è però centrata sulla natura che secondo me comprende tutto e interviene sempre nel nostro mondo, se ne appropria. E’ un ciclo continuo. Poi, in riferimento allo spezzone proposto, vorrei anche dire che all’inizio la natura sembra giovane, mentre dopo appare più matura: trasportando questo in ambito umano mi viene da pensare che quando uno è nato per una cosa, la fa indipendentemente dal percorso seguito.”
Propongo un pensiero dello studioso delle religioni Raimon Panikkar che mi è venuto in mente guardando la sequenza proposta da M.: “Io vivo costantemente la morte. La morte è un problema per l’individuo, ma non per la persona. Ognuno di noi, nella propria individualità, è una goccia d’acqua. Cosa capita a questa goccia d’acqua quando, secondo una tradizione che è transculturale, cade nel mare e sparisce come goccia? Dipende da che cosa è: la goccia d’acqua o l’acqua della goccia? La goccia d’acqua sparisce, ma all’acqua della goccia non succede niente. Si unisce a tutto il mare, a tutto il divino, ma non perde la sua vera natura. Ciò che sparisce, sono le difficoltà di comunicare, di abbracciarsi, di amarsi, che nascono grazie all’individualismo.”
Gemme n° 85
“Propongo una delle canzoni che più mi affascinano per il tema che tratta : il suicidio della razza umana. Mi interessa molto il video, zeppo di scritte che riportano dati e con alcune citazioni di poeti, scrittori, scienziati… Una di quelle che più mi ha colpito è in apertura: “la razza umana si estinguerà per civilizzazione” di Ralph Waldo Emerson. Se civilizzazione significa portare cemento e inquinamento là dove esistono foreste concordo pienamente”. Questo è stato il modo con cui F. (classe quarta) ha presentato il video di Serj Tankian, cantante dei System of a down, dal titolo emblematico “Harakiri”.
“Un’altra frase che mi ha colpito è quella di Jean Paul Sartre: “L’uomo è pienamente responsabile della propria natura e delle proprie scelte”. Si può ferire anche con le parole non solo con i fatti.
In apertura il testo dice: “Siamo il branco ingrigito, ci feriamo a vicenda con le nostre vite” a dire che l’unico pericolo per l’uomo è l’uomo stesso. L’accusa è esplicita: “Il futuro vedrà la storia come un crimine”. In fondo, penso sia quello che abbiamo fatto e stiamo facendo alla terra.”
Nel video compare un indiano con una lacrima a rigargli il volto. In classe ho letto una frase con cui avrei voluto commentare il video di F., ma avendola già pubblicata qui sul blog, ne metto un’altra che è un proverbio navajo: “Non ereditiamo la terra dai nostri antenati, la prendiamo in prestito dai nostri figli”. E il poliedrico Andy Warhol ha affermato: “Credo che avere la terra e non rovinarla sia la più bella forma d’arte che si possa desiderare”.
Gemme n° 15
La gemma proposta da F. (classe quinta) è in linea con l’argomento che stiamo trattando, quello della globalizzazione, e con la lezione tenuta in classe la scorsa settimana da un esperto informatico sull’uso e sull’abuso del coltan nella costruzione dei condensatori.
“Dopo la lezione di martedì scorso ho portato questo video: ci sono delle cose che stiamo perdendo, specie animali che si estinguono e il pianeta che sta andando verso un punto di non ritorno”. Forse la cosa che fa più specie è che questo discorso è del 1992!
Se qualcuno vuole leggersi il discorso con calma: Severn Suzuki
Lo commento con una frase dei nativi americani Mohawk:
“Quando avrete inquinato l’ultimo fiume
e avrete preso l’ultimo pesce,
quando avrete abbattuto l’ultimo albero,
allora e solo allora vi renderete conto che
non potete mangiare il denaro
che avete ammucchiato nelle vostra banche.”
Le risposte di Terzi
Il 18 giugno avevo pubblicato alcune domande di Giulio Terzi sulla geopolitica internazionale. Due giorni dopo ha pubblicato le sue risposte:
«Come promesso, dopo il dibattito del post 1 di qualche giorno fa, eccovi il mio pensiero e le mie
risposte su questo tema che ci riguarda tutti da vicino… Stati Uniti ed UE sono parsi in affanno in un 2014 che sembra aver riportato le rivalità geopolitiche al centro delle relazioni internazionali. Gli occidentali ritenevano “tramontata” la stagione dei confronti territoriali, dell’uso della forza, degli “zero sum games”: multilateralismo e governance globale erano diventati il “playfield” del post-Guerra Fredda, e la speranza che fosse tramontata la “vecchia geopolitica” si alimentava – come ha scritto recentemente Walter Russel Mead – con il trionfo dell’approccio liberale rispetto al comunismo. L’ambito del confronto sembrava evolvere dalla “contrapposizione ideologica” est/ovest verso l’universale accettazione della democrazia, e dalla minaccia dell’uso della forza verso l’applicazione del “diritto internazionale”. Ora dobbiamo invece fare i conti con un “hard power” accresciutosi esponenzialmente da parte di “Potenze revisioniste” che non si sono mai completamente adattate agli equilibri usciti dal post Guerra Fredda e che ora cercano di cogliere tutte le occasioni per modificarli anche con la forza. Il mondo è ripiombato brutalmente nella paura già con l’11 settembre: la guerra al terrorismo e all'”Axis of Evils” della Presidenza Bush si è declinata nelle operazioni in Afghanistan e in Iraq, intervenendo – a torto o a ragione – senza timidezze nell’utilizzo della forza. Obama ha poi tentato una netta sterzata, con un rilancio poggiato su un’agenda assai ambiziosa: a) blocco dell’armamento nucleare iraniano; b) soluzione del conflitto Israelo Palestinese; c) lotta ai cambiamenti climatici; d) accordi di Partenariato strategico con i Paesi più vicini all’America nel Pacifico e con l’Unione Europea; e) “reset” del rapporto con Mosca, concordando ulteriori riduzioni degli arsenali strategici; f) radicale cambio di marcia nei rapporti con il mondo Islamico; g) promozione a tutto campo dei diritti umani, con particolare riferimento a diritti degli omosessuali; h) ristabilimento di un clima di completa fiducia – dopo le crepe verificatesi per l’intervento in Iraq – tra Americani e Europei; i) fine della presenza militare in Iraq e Afghanistan; l) contenimento della spesa militare.
Il “decalogo” Obamiano corrisponde “interamente” anche alle aspettative europee, ed è in astratto pienamente condivisibile, ma gli strumenti di cui l’Occidente vuole e può avvalersi bastano ad esempio a stabilizzare l’Ucraina? E a fermare i conflitti settari in Medio Oriente? E a ottenere che Cina, Giappone, Filippine, Vietnam risolvano le loro controversie attraverso l’arbitrato e non con la forza…? Esiste fra Cina, Russia e Iran un interesse comune di portata strategica che non sia soltanto quello di erosioni opportunistiche e tattiche di singole posizioni dell’Occidente? La Russia teme un eccessivo potere regionale cinese; Russia e Iran hanno l’esigenza di prezzi alti dell’energia, la Cina esattamente il contrario; l’instabilità in Medio Oriente, utile all’Iran, è pericolosa per la Cina e per la Russia; ma l’Iran ha ottenuto un insperabile rilancio del mondo sciita dall’invasione dell’Iraq, e se ne avvale a piene mani in Siria e in Libano, mettendo sotto pressione l’ampia maggioranza sunnita in tutto il Medio Oriente… Quindi: l’Occidente deve avere un approccio realista e pragmatico di breve periodo, oppure imperniato sulla sicurezza cooperativa e sull’affermazione planetaria dei diritti umani e delle libertà fondamentali…?
Io credo possa esistere un “bland” di questi fattori, un giusto mix di tutti questi elementi, che vanno a costituire “il perimetro” entro il quale deve muoversi l’Occidente … Se consideriamo tre dimensioni essenziali, quella economica, quella militare e quella scientifico-culturale, dovremmo esser portati a ritenere che il XXI sarà il Secolo della “leadership mondiale condivisa ” tra l’Occidente/Area Atlantica e l’Asia, con queste precisazioni:
1) analizzati alla lente della geopolitica, gli equilibri – o squilibri – globali non potranno che essere di tipo “bipolare”, con due “masse”, quella Euroatlantica da un lato e quella Cinese dall’altro, contrapposte nella definizione dei rispettivi interessi economici, territoriali e di sicurezza;
2) si tratterà ovviamente di un bipolarismo imperfetto, dato che con queste due “masse” dominanti continueranno a interagire attori “per nulla secondari” come Russia, India, Brasile e l’Islam nelle sue diverse e complesse configurazioni;
3) se i dati del Prodotto Interno Lordo mostrano una tendenza occidentale in progressivo ridimensionamento, ve ne sono altri legati allo sviluppo umano, all’innovazione tecnologica e alla scienza che fanno prevedere una tenuta di competitività del “modello occidentale”;
4) sono convinto che le armi debbano restare l‘extrema ratio nella gestione di qualunque controversia, ma capacità militari e “soft power” continueranno a vedere l’Occidente in vantaggio anche nel lungo periodo, e questo non solo perché il bilancio per la Difesa dell’area Atlantica è superiore al totale degli altri principali Paesi, ma soprattutto perché la capacità di aggregazione dell’occidente è – per la natura stessa degli interessi di sicurezza che difende – infinitamente superiore a quella dei principali “competitors”: gli USA ad esempio sono parte di un sistema di alleanze che li lega a una sessantina di Paesi, la Cina a uno solamente (la Corea del Nord); l’Iran alla Siria e all’Iraq; la Russia a otto paesi…;
5) le potenzialità dell’Occidente dal punto di vista valoriale si rivelano così straordinarie da travalicare ampiamente i confini americani ed europei. Pensiamo all’esigenza, avvertita dalla generalità dei Paesi membri ONU, di esser considerati “Stati di diritto”, di essere visti come vere democrazie, di esser considerati rispettosi dei Diritti Umani e delle libertà fondamentali, anche per “poter così attrarre e garantire investimenti stranieri”… Questi principi sono radicati in una rete densissima di Trattati, rientrano tra le condizioni poste dall’Unione Europea agli accordi di collaborazione e partenariato con Paesi terzi, e sono tutti patrimonio dell’Occidente!
Allora, dinanzi alle “sei sfide” che ho ricordato nel precedente Post di qualche giorno fa, il rafforzamento della leadership dell’Occidente dovrà quindi basarsi su una ritrovata volontà ad agire per:
– combattere i cambiamenti climatici, perché sono state adottate misure che segnano il percorso, ma c’è moltissimo ancora da fare;
– adottare regole di controllo per i mercati finanziari e misure fiscali che assicurino una più equa ripartizione della crescita e dei redditi tra le diverse fasce di popolazione;
– contrastare con vigore la corruzione, la criminalità economica e quella organizzata;
– integrare pienamente l’economia Euroatlantica in un sistema di regole condivise.
– uscire dal sogno a occhi aperti che si possa continuare a pensare al “dividendo della pace” fine a se stesso, perché gli strumenti di Difesa devono essere rapportati all’entità delle crisi in atto e a quelle possibili, e l’intero apparato di Difesa europeo va seriamente adeguato, integrato e ammodernato.
– far diventare una realtà la “politica estera europea”. Le lezioni apprese con la tragedia siriana, con il suo ampliarsi all’intero teatro iracheno, e le distruzioni, le catastrofi umanitarie e migratorie che ne sono derivate, tutti fattori ad alto impatto sui nostri Paesi, dimostrano come l’Occidente debba assumersi ben maggiori responsabilità, con tempestività di iniziativa, con impiego di risorse, con volontà politica assai diversa da quanto non sia avvenuto negli ultimi tre anni.
Moltissimo della risoluzione di queste complesse problematiche è affidato alla Diplomazia, e al suo “coraggio di esprimere e sostenere la cultura politica dell’Occidente” e i valori di libertà e di tolleranza che le sono propri. Non sempre la nostra Sovranità è stata tutelata com’era nostro precipuo dovere fare, e non sempre la diplomazia italiana ed europea si è mostrata attiva e coraggiosa nella tutela dei diritti umani, nel difendere le minoranze religiose, nell’influire con decisione nei processi di transizione verso la democrazia e lo Stato di Diritto di paesi in via di sviluppo. Ci sono cambiamenti importanti di mentalità, di metodi, di strumenti operativi e di formazione – basti pensare all’utilizzo dei social media – che sono necessari per i diplomatici di questa e della prossima generazione. La competizione indiscriminata e le sfide planetarie nelle quali siamo immersi non ci permettono di attendere nell’angolo, di evitare il confronto intellettuale, o di lasciare i problemi nel cassetto nella speranza che diventino…meno urgenti!»
Le domande di Terzi
Giulio Terzi è un diplomatico, ex-ministro del governo Monti, dimessosi in seguito a dissidi sulla gestione della situazione dei marò in India. Dal suo profilo facebook prendo questo post che può essere utile a settembre, nelle quinte, quando inizieremo a parlare di globalizzazione. Si tratta di una serie di interrogativi: a giorni dovrebbero arrivare le sue risposte (come lascia trapelare nella conclusione).
«Nel lontano 1990, alcuni osservatori avevano previsto che la fine del Patto di Varsavia avrebbe “automaticamente comportato anche la fine dell’Alleanza Atlantica”. La stessa tipologia di analisti sta ora alimentando un dibattito sull'”inarrestabile declino dell’Occidente”. Si evocano nell’ordine: le incertezze americane e europee in Siria, lo stallo dell’iniziativa Usa in Medio Oriente, le incognite sul negoziato nucleare iraniano, l’annessione russa della Crimea con il protagonismo russo, le rivendicazioni territoriali di Pechino nel Mar della Cina, etc etc. L’Occidente è “in una situazione di stallo” che lo rende incapace di influire sulla realtà mondiale nel medio e lungo periodo? Quali sfide dovremo impegnarci a vincere per tornare a essere “centrali” sullo scenario globale? Questi i temi da affrontare senza altro ritardo:
1) una “rivoluzione demografica” senza precedenti nella storia dell’umanità ha portato la popolazione del pianeta in un solo secolo da 1,3 a 9 miliardi di esseri umani, e la crescita è polarizzata nelle regioni maggiormente esposte a tensioni per scarsità di risorse;
2) una “deriva climatica ormai irreversibile”, come indicano tutti gli ultimi rapporti ONU. Il riscaldamento atmosferico è all’origine di sempre più frequenti disastri naturali, di enormi carenze idriche e di migrazioni massicce, tutti eventi che hanno poi un impatto fortissimo anche sulle nazioni occidentali, e – a meno di inserire correttivi immediati – il degrado ambientale, l’inquinamento delle aree urbane dove vive più della metà della popolazione mondiale, la desertificazione e la scomparsa di foreste toccheranno nel secolo in corso livelli incompatibili con la sopravvivenza dell’intero ecosistema;
3) una “crescita economica apparentemente infinita ma in realtà illusoria”, insostenibile per l’Umanità. La crescita dell’economia mondiale, accelerata anche dal ruolo spregiudicato dei Paesi emergenti, tende ad aggravare rapidamente la scarsità delle risorse alimentari, idriche, energetiche e il degrado ambientale. Basti un esempio: agli attuali ritmi di crescita del Paese, il PIL pro-capite cinese potrebbe raggiungere la parità con l’odierno PIL pro-capite americano – oggi superiore di ben 9 volte a quello cinese – in soli 40 anni, ed entro il 2025 la Cina potrebbe superare in PIL la somma di tutti i Paesi del G7. Se già il PIL cinese attuale fa di quel Paese il principale “emettitore” di CO2 e di particelle inquinanti nell’atmosfera, appare chiara la drammaticità del bisogno di sterzare verso diversi modelli di crescita, di consumi e di assetti socioeconomici. Con ogni cautela verso previsioni a così lungo termine che prescindono da rivolgimenti politici, recessioni e cicli economici, il raddoppio dell’economia cinese ogni sette/otto anni e la prospettiva di un suo PIL decuplicato in quarant’anni pone inquietanti interrogativi quanto alla “tenuta” di modelli economici mirati esclusivamente alla crescita senza un occhio alla sostenibilità ambientale e sociale;
4) le “diversità nello sviluppo umano” tra “the West… and the Rest”. Resteranno in ogni caso fondamentali differenze anche nel lungo termine tra “Cindia” e area OCSE per quanto riguarda gli standard di vita. Non è certo irrilevante il fatto che Cina e India siano ancora oggi al 101° e 134° posto nell’indice sullo sviluppo umano stilato da UNDP, mentre i Paesi Occidentali occupano le prime 25 posizioni, e la Russia la 66ma. Un dato che sembra contare più di molti altri nel dimostrare la “vitalità” dell’Occidente e del suo sistema di valori basati sulla democrazia, la libertà individuale e lo Stato di diritto;
5) la “crescita nell’era della globalizzazione che allarga sempre più il divario” – come titola un saggio di De Rita e Galdo – tra “Il popolo e gli Dei”, ovvero tra il 99% e l’1% della popolazione, come accusano movimenti tipo Occupy Wall Street. E’ questo l’altro versante della “rivoluzione” che sta attraversando l’economia mondiale: l’inarrestabile concentrazione della ricchezza e delle attività finanziarie è accompagnata dal regresso della “middle class” e da segnali di forte impoverimento per le fasce basse di reddito. La concentrazione della ricchezza a ritmi così elevati anche nei periodi di recessione costituisce un trend particolarmente dannoso: comprime l’investimento produttivo a vantaggio di quello speculativo, destabilizza la rappresentatività democratica, in quanto le lobby finanziarie sono infinitamente più forti delle altre categorie organizzate che rappresentano interessi settoriali, crea forte insoddisfazione e tensione sociale. ATTENZIONE: “il punto di rottura degli equilibri istituzionali e politici giunge quasi sempre inatteso”: come ha osservato Niall Ferguson, i sistemi ad elevata complessità delle “potenze imperiali” del passato sono passati dall’erosione al collasso non attraverso cicli graduali ma improvvisamente. Merita perciò riflettere sull’importante lavoro dell’economista francese Thomas Piketty, “Il capitale nel ventunesimo secolo”: ne è scaturito un dibattito che dà la temperatura di un forte malessere, causato dall’inarrestabile concentrazione della ricchezza su scala mondiale;
6) la società dell’informazione e della conoscenza costituisce il motore più potente dello sviluppo globale. Un’enorme forza per il mondo Occidentale, dove ancora negli ultimi anni le spese per la scienza e la ricerca sarebbero state più della metà del totale mondiale, e che si sta diffondendo nelle economie emergenti con progressi rapidissimi. In India ogni anno si laureano due milioni e mezzo di studenti, ma le università americane e europee continuano ad attrarre centinaia di migliaia di cinesi e di indiani. La leadership occidentale nella società della conoscenza e dell’informazione non è assicurata tanto dal possesso e dal continuo avanzamento di tecnologie, di reti, di scoperte scientifiche, ma dal clima di libertà nella ricerca, di rispetto della dignità della scienza e dell’espressione del pensiero umano. Sin dal Rinascimento l’universo della scienza collega valori dell’uomo e progresso in uno stretto rapporto. Nel frattempo però le tecnologie dell’informazione tendono anche a esasperare le conflittualità: utilizzo dei “metadati”, cybersecurity, intrusioni esponenzialmente accresciute nella Sovranità altrui per destabilizzare politicamente (Ucraina), economicamente (Estonia), militarmente (Siria) paesi ritenuti ostili, o per carpire progetti industriali o danneggiare la concorrenza, sono ormai all’ordine del giorno. Il CSIS di Washington ha calcolato che i danni complessivi prodotti da attacchi cibernetici si situino tra i 375 e i 575 miliardi di dollari annui, dei quali circa 9 miliardi solo in Italia…
IN DEFINITIVA: viviamo in una realtà “liquida”, fortemente condizionata dalle sei sfide globali che ho sopra richiamato. Domanda: c’è un’Agenda comune dei Paesi “revisionisti”, le nuove potenze mondiali? Russia, Cina e Iran coltivano una grande visione per un nuovo “ordine mondiale alternativo” a quello costruito attorno ai valori Occidentali…? O più semplicemente sono mossi dall’interesse ad affermare la propria Sovranità e il dominio sulle rispettive regioni, per massimizzarne i benefici commerciali, economici e tecnologici? Se così è, l’Occidente “deve” accentuare l'”engagement”, rafforzare il sistema internazionale di rapporti basati sui valori liberali e democratici, e attuare una strategia coerente nelle alleanze, nelle istituzioni multilaterali, nella diplomazia… QUALE MODELLO PERMETTERA’ ALL’OCCIDENTE DI SOPRAVVIVERE E RIACQUISTARE CENTRALITA’ SULLO SCENARIO GLOBALE…? Ditemi la Vostra…e vi prometto che poi io vi dirò la mia con un secondo post tra qualche giorno, che sto preparando ma che voglio tenga conto anche dei vostri commenti…»
Sui beni
Su IlSole24ore di domenica 18 maggio, è apparso questo articolo di Remo Bodei. Forse quest’anno è tardi per una lettura in classe, lo terrò buono per il prossimo… Grazie alla collega Carla che me l’ha inviato.
“In che misura è realisticamente possibile condividere dei beni che – da un punto di vista etico – dovrebbero appartenere a tutti? Di fatto una sorta di lotteria naturale ha distribuito i doni della terra (fertilità, acqua potabile, ricchezze minerarie) in maniera casuale rispetto agli abitanti di determinate zone. Ci sono quelli più fortunati che li posseggono e se ne sono appropriati e quelli meno fortunati che ne sono provvisti in scarsa misura o ne sono addirittura privi: gli abitanti di zone inospitali o desertiche, coloro che non hanno risorse nel loro sottosuolo o ne sono stati espropriati. Popoli e individui hanno da sempre combattuto per la loro sopravvivenza e per il relativo controllo delle risorse e le frontiere sono state per lo più disegnate dalle guerre.
Anche oggi, in una fase storica in cui il consumo di energia derivante dal petrolio o dall’uranio è enorme, l’economia e la politica sono dominate dal bisogno di assicurarsi, spesso con la forza o con l’astuzia, non solo questi beni, ma anche altri, sempre più indispensabili all’alta tecnologia. Un esempio è il coltan, un minerale metallico termo-resistente, (una combinazione tra colombite e tantalite), che si presenta come una sabbia nera da cui si estrae il tantalio, utilizzato per microconduttori, superleghe, computer o cellulari. Tale elemento radioattivo, l’ottanta per cento del quale si trova in Congo, dove viene raccolto a mani nude da uno stuolo di improvvisati scavatori, ha scatenato sanguinose guerre civili e internazionali, che coinvolgono l’Uganda e, nascostamente, le grandi potenze non africane.
Ponendo la domanda più radicale ma inaggirabile: Con quale diritto un individuo o un popolo abita la terra e sfrutta i suoi doni in maniera esclusiva? L’essere stati più favoriti dalla natura autorizza la disponibilità indiscussa di alcune risorse indispensabili oppure i loro benefici possono anche essere, almeno in parte, pacificamente ridistribuiti? Ma chi decide e in base a quali criteri? Non si tratta di una questione astrusa o ingenua, da spostare in un remoto futuro. Prendiamo il caso dell’acqua: come si risolverà la disputa in atto tra l’Etiopia e l’Egitto? Se gli etiopi finiranno di costruire la loro diga per imbrigliare il corso del Nilo Azzurro (sulla base di un progetto del valore di cinque miliardi di dollari e una energia erogata equivalente a quella di cinque centrali nucleari), la riduzione del limo derivante dalle esondazioni del fiume, in grado da millenni di assicurare all’Egitto una fiorente agricoltura in zone altrimenti desertiche, metterà in pericolo l’esistenza di novanta milioni di Egiziani.
La pace è minacciata proprio dalle prevedibili lotte che si scateneranno e già sono in corso per il controllo di risorse materiali che non possono essere condivise su questa Terra, dove, come dice Dante, «è mestier di consorte divieto» (Purgatorio, XIV, v. 87). Grazie a negoziazioni e ad arbitrati internazionali si potranno trovare , in questo o in altri casi, degli accordi soddisfacenti?
Entro certi limiti – ancora ristretti – si possono già mettere dei confini, giuridici e politici, all’appropriazione privata o nazionale di certi beni condivisibili, quelli il cui consumo da parte di qualcuno non escluda necessariamente gli altri o quelli che dovrebbero essere gratuiti per tutti (come i pesci in acque internazionali). Non di tutto ci si può appropriare in esclusiva, non tutto deve essere sottoposto a pure leggi di mercato. Le Nazioni Unite e alcuni parlamenti nazionali hanno attribuito la qualifica di common goods all’acqua potabile e ai servizi igienico-sanitari (risoluzione 64/292 del 28 luglio 2010), al fondo marino e all’Antartide e la stanno estendendo alla Luna e al genoma umano. Per questi l’applicazione concreta di tale qualifica si tratta, per ora, di una prospettiva di lunga durata o di una utopia.
Riprendendo in esame il problema più urgente, quello dell’acqua, è facile profezia ipotizzare che l'”oro azzurro” sarà alla base di grandi contese, non solo a causa del previsto aumento della popolazione mondiale, specie nei paesi più poveri, ma anche per effetto del riscaldamento globale e della conseguente desertificazione di molte aree. Già ora, quasi un miliardo di uomini non dispone a sufficienza di acque potabili per soddisfare la sete, preparare il cibo e allevare il bestiame e neppure di acque non potabili per i servizi igienici (la mancanza d’acqua è, in generale, la seconda causa di morte su scala planetaria).
Anche ciò che appare meno urgente e che resta sullo sfondo del dibattito pubblico non deve però essere perso di vista, come la salvaguardia del genoma, perché essa mira alla tutela non solo della collettività dei viventi, ma dell’insieme della specie umana, presente e futura. Lo stesso vale per la possibile o paventata spartizione tra gli Stati dell’Antartide e della Luna (sebbene in questo caso sembri proprio di parlare di fantascienza), da trasformare in luoghi di sfruttamento esclusivo di determinate risorse – petrolio, minerali, terre rare, prodotti della pesca, compreso il krill (i piccoli crostacei che formano lo zooplancton) – o per conquistare posizioni militarmente strategiche.
L’emergenza è ormai diventata la norma e la percezione dell’insicurezza è giunta a un punto tale che studiosi seri sostengono che, da quando l’umanità è divenuta capace di auto-sopprimersi o con le armi di distruzione di massa o alterando le condizioni necessarie alla sua sopravvivenza – clima, riproducibilità delle risorse, inquinamento dell’aria, delle acque e del suolo – bisogna lucidamente prepararsi ad affrontare i disastri già avvenuti grazie a una teoria definita “catastrofismo illuminato”.
Come ai tempi di Noé
Nelle sale cinematografiche da qualche settimana è uscito Noah. Oggi sono finito attraverso non so più quali giri su questo articolo di Leonardo Boff. Per chi ha a cuore la tematica ambientale ci sono vari spunti di riflessione.
“Viviamo come ai tempi di Noè. Col presentimento che sarebbe venuto un diluvio, il vecchio cercava di convincere la gente perché cambiassero stile di vita. Ma nessuno gli dava retta. Al contrario, “Si mangiava e si beveva. C’era chi prendeva moglie e chi prendeva marito finché non arrivò il diluvio e li spazzò via tutti” (Lc 17,27;Gn 6-9)
I duemila scienziati del IPCC che studiano il clima della terra , sono i nostri attuali Noè. La terza e ultima relazione del 13/4/14 contiene un grave grido di allarme: abbiamo soltanto quindici anni per impedire che si oltrepassi di 2°C il clima della terra. Se sarà oltrepassato, conosceremo qualcosa del diluvio. Nessuno dei 196 capi di stato ha detto una sola parola. La grande maggioranza continua a sfruttare i beni naturali, facendo affari, speculando e consumando senza fermarsi, come ai giorni di Noè.
Intravedo tre gravi irresponsabilità: una generale e una specifica e una supina ignoranza del Congresso Nordamericano che ha vietato tutte le misure contro il riscaldamento globale; la manifesta cattiva volontà della maggioranza dei capi di Stato; e la mancanza di creatività per montare le travi di una possibile arca salvatrice. Come un pazzo in una società di “saggi” oso proporre alcune premesse. Se hanno qualche merito, è quello di additare un nuovo paradigma di civiltà che ci potrà dare un altro corso alla storia. Eccole:
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Completare la ragione strumentale-analitica-scientifica dominante con intelligenza emozionale o cordiale. Senza questa noi non ci commuoviamo davanti alla devastazione della natura e non ci impegniamo per riscattarla e salvarla.
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Passare dalla semplice comprensione di Terra come magazzino di risorse alla visione della Terra viva, chiamata Gaia, super organismo vivo autoregolante.
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Arrivare a capire che, in quanto umani siamo quella porzione della Terra che sente pensa e ama, la cui missione è aver cura della natura.
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Passare dal paradigma di conquista/dominazione ancora vigente, al paradigma di cura/responsabilità.
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Capire che la sostenibilità sarà garantita soltanto se rispetteremo i diritti della natura e di Madre Terra.
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Articolare il contratto naturale stipulato con la natura che suppone la reciprocità inesistente con il contratto sociale, insufficiente, che suppone la collaborazione e la inclusione di tutti.
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Non esiste il medio-ambiente ma l’ambiente intero. Quello che esiste è la comunità di vita, con lo stesso codice genetico di base stabilendo relazioni parentali con tutti.
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Abbandonare l’ossessione della crescita/sviluppo attraverso la redistribuzione della ricchezza già accumulata.
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Dobbiamo produrre per andare incontro alle richieste umane, ma sempre entro le possibilità della Terra e di ogni ecosistema.
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Porre sotto controllo la voracità produttivistica e la concorrenza senza limiti a favore della cooperazione e della solidarietà, perché tutti dipendiamo gli uni dagli altri.
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Superare l’individualismo con la collaborazione tra tutti, perché questa è la logica suprema del processo di evoluzione.
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Il bene comune umano e naturale viene prima del bene comune privato e corporativo.
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Passare dall’etica utilitaristica e efficientistica all’etica della cura e della responsabilità.
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Passare dal consumismo individualista a una sobrietà condivisa. Quello che avanza a noi, manca a tutti gli altri.
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Passare dalla massimizzazione della crescita alla ottimizzazione della prosperità a partire dai più bisognosi.
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Invece che continuare a modernizzare in permanenza, ecologizzare tutti i saperi e processi produttivi, cercando di tutelare beni e servizi naturali e far riposare la natura e la Terra.
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Opporre all’era dell’antropocene che fa dell’essere umano una forza geofisica distruttiva l’era ecozoica che ecologizza e include tutti gli esseri nel grande sistema terrestre e cosmico.
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Dare più valore al capitale umano spirituale inesauribile che al capitale materiale esauribile perché il primo fornisce i criteri per gli interventi responsabili sulla natura e alimenta permanentemente i valori umano-spirituali della solidarietà della cura dell’amore e della compassione, basi per una società con giustizia, equità e rispetto della natura.
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Contro la delusione e la depressione provocate dalle promesse di benessere generali non compiute fatte dalla cultura del capitale, alimentare il principio-speranza, fonte di fantasia creatrice, di nuove idee e di utopie possibili.
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Credere e testimoniare che, alla fine di tutto, il bene trionferà sul male, la verità sulla menzogna e l’amore sull’indifferenza. Poca luce potrà scacciare un mondo di tenebre.”
Traduzione di Romano e Lidia Baraglia
Giornata della Terra
Una settimana fa, prima che la scuola in cui lavoro chiudesse per le vacanze di Pasqua, il gruppo dell’Istituto che si occupa di ecologia ha donato a studenti e insegnanti un fiore costruito con della carta buttata via, per festeggiare la giornata di oggi: la Giornata della Terra. Oggi alcuni studenti con l’insegnante di scienze si sono dati da fare per ripulire un po’ la roggia di Udine davanti al Museo Etnografico di via Grazzano (la foto è presa dalla pagina fb del WWF Friuli Venezia Giulia). Su La Stampa del 15 aprile Enrico Caporale ha scritto questo articolo dal titolo “Corsa contro il tempo per salvare il Pianeta”. La cosa che più mi sconcerta è che vedo correre molte persone volenterose e generose, ma nessuno di coloro che dovrebbero correre…
“Ogni anno produciamo nel mondo circa 100 miliardi di chilogrammi di plastica, dei quali, grosso modo, il 10% finisce in mare. “I 7,1 miliardi di esseri umani – scrive su La Stampa Luca Mercalli, uno dei più importanti climatologi del nostro Paese – stanno consumando più di quanto il pianeta possa fornire e immettono rifiuti, inquinanti e gas a effetto serra, in quantità tale da attivare trasformazioni irreversibili”. Il 20 agosto 2013 le risorse annuali prodotte dalla Terra erano già finite. In meno di otto mesi avevamo dunque speso tutti gli interessi maturati dalla biosfera terrestre. A questi ritmi, è ovvio, la Terra sarà presto invasa dalla spazzatura e prosciugata delle sue ricchezze. Scarsità di risorse ittiche, agrarie, minerarie, cambiamenti climatici, aumento dei livelli marini, acidificazione degli oceani e molto altro ancora minacceranno la nostra salute e quella degli altri esseri viventi. Come impedirlo? Un modo potrebbe essere quello di trasformare la plastica (e gli altri materiali di scarto) in nuove risorse.
I nostri oceani ingurgitano ogni anno circa 10 miliardi di chilogrammi di plastica. Una volta in acqua, però, questa plastica (ridotta in tanti pezzettini) non vaga alla cieca, ma si dà tutta appuntamento in un luogo ben preciso: la meta è al largo dell’Oceano Pacifico, grosso modo tra le isole Hawai e la California. Anche se i satelliti non riescono a fotografarla, qui è stata individuata quella che gli esperti hanno definito l’“isola dei rifiuti”, o anche il “vortice della spazzatura”. Le sue dimensioni non sono chiare: c’è chi parla di una superficie come quella della Francia e chi la descrive grande quanto un Continente. Secondo gli studiosi del California Coastal Commission di San Francisco, il suo peso complessivo avrebbe già superato i 3,5 milioni di tonnellate. Si tratta di bottiglie, sacchetti della spesa, giocattoli e recipienti che le correnti concentrano con un movimento a spirale in un’unica grande massa. Un incubo per l’ecosistema. Ogni giorno, infatti, migliaia di grandi mammiferi, pesci e uccelli marini scambiano per cibo i residui di plastica – ridotti in poltiglia dal tempo e dalla forza del mare – e creano così disastri lungo l’intera catena alimentare che giunge fino ai nostri piatti. Da alcuni anni gli scienziati stanno studiando come trasformare questa minaccia in risorsa: riciclare la plastica in mare per riutilizzarla come fonte di energia potrebbe essere una soluzione, ma le ricerche in tal senso sono ancora indietro e molto costose.
Tuttavia, i pericoli non si fermano qui. L’altra grande sfida per il futuro del nostro pianeta sono i cambiamenti climatici, con il conseguente aumento dei livelli marini. Dal 1979, anno in cui i satelliti hanno cominciato a tenere la zona artica sotto osservazione, è stata registrata una ritirata dei ghiacci del 12% a decennio, con un’accelerazione negli ultimi anni. Lo scorso novembre, poi, la Banca Mondiale ha ipotizzato un aumento della temperatura globale dovuto alle emissioni climalteranti di 4 gradi entro fine secolo: “Un colpo devastante che non deve essere permesso”, ha ammonito la World Bank. Intanto, al Pentagono è già pronto un rapporto sul rischio di conflitti locali, se non di vere e proprie guerre, che le migrazioni conseguenti al caos climatico potrebbero provocare.”
La passione della terra
Ringrazio un mio studente per aver segnalato questo articolo di Vito Mancuso, comparso ieri su La Repubblica. Vi sono molte delle idee contenute anche nel libro “Il principio passione”.
“La nostra civiltà è malata, è in corso una via crucis del pianeta davanti ai nostri occhi distratti. L’aria delle nostre città, i nostri mari ormai quasi privi di pesci, l’acqua, le foreste, gli oceani, sono vittime di un’ideologia rapace e utilitaristica che considera la natura solo come un’inanimata risorsa da sfruttare e che alimenta la fiorente industria della fiction per la finzione necessaria a sedare le coscienze. I rifiuti prodotti dagli oltre 7 miliardi di esseri umani sono ormai superiori alle possibilità di smaltimento, e per alcuni di essi come le scorie nucleari lo smaltimento è praticamente impossibile. Che cosa avverrà quando nel 2025 la popolazione sarà di 8,1 miliardi? E quando nel 2050 giungerà a 9,6 miliardi? Una nuova guerra mondiale? Una serie permanente di inarrestabili conflitti locali?
Barbara Spinelli l’altro giorno ricordava Hans Jonas e la sua nuova formulazione dell’imperativo etico in senso ecologico. In un’intervista del 1992 a “Der Spiegel” Jonas segnalava il pericolo del “tragico fallimento della cultura superiore, la sua caduta in una nuova primitivizzazione”, intendendo con ciò “la povertà di massa, la morte di massa, l’uccisione di massa”. Da allora sono passati oltre vent’anni e questo declino verso la primitivizzazione e la massificazione è proseguito: lo vediamo nei costumi, nel gusto estetico, nella politica, nel linguaggio dove tutto diventa più grossolano e più violento. E più irrazionale.
Ai nostri giorni un terzo del cibo prodotto viene buttato via, sono 1,3 miliardi di tonnellate di cibo su scala annuale che finiscono tra i rifiuti, con l’uso scriteriato di acqua, energia e vita animale e vegetale che tutto questo comporta. E ciò a fronte del fatto che ogni giorno muoiono per fame 24.000 esseri umani, 8 milioni e mezzo all’anno. Basta questo per evidenziare la pericolosa malattia mentale di cui soffre la nostra società? Nutriamo la nostra anima con le manifestazioni di massa dell’effimero (sport di massa, musica di massa, cinema di massa…) pagandone i protagonisti con cifre esorbitanti, mentre miliardi di esseri umani vivono con meno di due dollari al giorno. Proprio nell’epoca del trionfo della scienza assistiamo a un tracollo della razionalità nel governo del mondo, con la conseguenza che a trionfare non è veramente la scienza, la quale è sempre ricerca e dubbio, ma è piuttosto la tecnica che ammanisce certezze e cattura le menti. Anche la modalità con cui nelle nostre società si conquista il consenso e si accede al potere è sempre più all’insegna dell’irrazionalità, perché vince chi sa suscitare emozioni forti mentre chi pratica l’onestà dell’analisi è inevitabilmente destinato alla sconfitta: se penso ai leader politici di quand’ero ragazzo (Moro, Zaccagnini, Berlinguer) vedo che per loro non vi sarebbe oggi nessuna chance.
Quando Francesco d’Assisi compose il suo testo più bello, il Cantico delle creature, la pagina più antica della letteratura italiana, era quasi cieco per una malattia agli occhi e soffriva per una serie di altri mali che da lì a un anno l’avrebbero condotto alla morte. Ciò non gli impedì di cantare la luce di frate sole e di frate focu e di celebrare le altre realtà naturali. Penso che guardando alla sua vita sia possibile capire le due principali malattie di cui soffriamo oggi: 1) una filosofia di vita opposta a quella di Francesco e analoga a quella del ricco mercante suo padre, cioè all’insegna dell’accumulo e del consumo, a cui si viene indotti fin da piccoli dalla potenza della pubblicità e dall’industria dell’intrattenimento che le gira attorno; 2) una filosofia della natura opposta a quella del Cantico delle creature che considera la materia come inerte e la vita come lotta, e da cui discende un atteggiamento predatorio verso il pianeta e il conseguente inquinamento. Dal canto suo la religione tradizionale dell’Occidente non è stata in grado di fronteggiare questi due mali, anzi vi ha persino contribuito a causa del suo antropocentrismo, per cui anche il cristianesimo si deve rinnovare, anzi direi convertire.
L’umanità, se vuole sopravvivere, deve cambiare la mentalità che guida le sue politiche economiche e che orienta il suo atteggiamento verso la natura. L’unica possibilità di una svolta è nella presa di coscienza che la Terra è un organismo che deve la sua origine e la sua esistenza alla logica dell’armonia relazionale. Il passaggio da una civiltà basata sulla lotta a una civiltà basata sulla cooperazione può avvenire solo se si comprende che è la stessa logica dell’evoluzione naturale a basarsi sulla cooperazione e si educano i nostri ragazzi in questa prospettiva. Occorre quindi superare la cupa filosofia della vita trasmessa dal darwinismo e comprendere che a guidare l’evoluzione non è soltanto la lotta ma prima ancora il rapporto di complementarietà e di armonia, visto che non esiste vita se non in relazione, non esiste bios se non come symbios, come simbiosi.
Dalla crisi ecologica ed etico-spirituale non si uscirà se non si risaneranno le idee che l’hanno prodotta. Occorre che l’urgenza ecologica trasformi la nostra visione della biologia e ci faccia prendere coscienza del legame che unisce tutte le cose, dell’interconnessione di ogni ente con il tutto, di ciò che la fisica chiama entanglement e che costituisce il paradigma ontologico più avanzato. Tutto ciò è traducibile in filosofia dicendo che la prima categoria dell’essere non è la sostanza ma è la relazione, all’insegna di una relazionalità globale che supera l’antropocentrismo e l’utilitarismo che ne discende.
Da Francesco d’Assisi malato e alla vigilia della morte nacque uno dei testi più sublimi della spiritualità di tutti i tempi. Dalla nostra civiltà, malata e così cieca da non riconoscere la sua malattia, può emergere ancora la possibilità di una svolta per non precipitare nell’abisso sempre più vicino? Penso che nessuno lo sappia ed è per questo che le tenebre del venerdì santo avvolgono le nostre esistenze e il nostro futuro, senza sapere se ci sarà data la luce di pasqua. Ma credere di sì è un dovere morale, oltre all’unica concreta possibilità che la svolta possa prodursi davvero.”
Dal PIL alla FNL
In quinta stiamo parlando di globalizzazione. Sono emerse varie ipotesi e possibilità riguardo allo sviluppo economico: crescita, decrescita, pausa… Pubblico un articolo di Vandana Shiva, preso da questo sito e originariamente comparso su The Guardian.
“La crescita illimitata è la fantasia di economisti, imprese e politici. La vedono come una misura del progresso. Come risultato, il prodotto interno lordo (PIL), che dovrebbe misurare la ricchezza delle nazioni, è diventato sia il numero più potente che il concetto dominante del nostro tempo. Tuttavia, la crescita economica nasconde la povertà creata attraverso la distruzione della natura, la quale a sua volta porta a comunità incapaci di provvedere a se stesse. Durante la seconda guerra mondiale il concetto di crescita fu presentato come una misura per la movimentazione delle risorse. Il PIL si basa sulla creazione di un confine artificiale e fittizio, il quale parte dal presupposto che se produci ciò che consumi, non produci. In effetti, la “crescita”, misura la trasformazione della natura in denaro e dei beni comuni in merci.
Così i magnifici cicli naturali di rinnovamento dell’acqua e delle sostanze nutritive sono qualificati non produttivi. I contadini di tutto il mondo, che forniscono il 72% del cibo, non producono; le donne che coltivano o fanno la maggior parte dei lavori domestici non rispettano questo paradigma di crescita. Una foresta vivente non contribuisce alla crescita, ma quando gli alberi vengono tagliati e venduti come legname, abbiamo la crescita. Le società e le comunità sane non contribuiscono alla crescita, ma la malattia crea crescita attraverso, ad esempio, la vendita di medicine brevettate.
L’acqua disponibile come bene comune condiviso liberamente e protetto da tutti viene
fornita a tutti. Tuttavia, essa non crea crescita. Ma quando la Coca-Cola impone una pianta, estrae l’acqua e con essa riempie le bottiglie di plastica, l’economia cresce. Ma questa crescita è basata sulla creazione di povertà – sia per la natura sia per le comunità locali. L’acqua estratta al di là della capacità della natura di rigenerarsi crea una carestia d’acqua. Le donne sono costrette a percorrere lunghe distanze in cerca di acqua potabile. Nel villaggio di Plachimada nel Kerala, quando la passeggiata per l’acqua è diventata 10 km, la tribale donna locale Mayilamma ha detto che il troppo è troppo. Non possiamo camminare ulteriormente, l’impianto della Coca-Cola deve chiudere. Il movimento che le donne incominciarono ha portato infine alla chiusura dello stabilimento.
Nella stessa ottica, l’evoluzione ci ha regalato il seme. Gli agricoltori lo hanno selezionato, allevato e lo hanno diversificato – esso è la base della produzione alimentare. Un seme che si rinnova e si moltiplica, produce semi per la prossima stagione, così come il cibo. Tuttavia, il contadino di razza e il contadino che salva i semi non sono visti come un contributo alla crescita. Ciò crea e rinnova la vita, ma non porta a profitti. La crescita inizia quando i semi vengono modificati, brevettati e geneticamente resi sterili, portando gli agricoltori ad essere costretti a comprare di più ogni stagione. La natura si impoverisce, la biodiversità è erosa e una risorsa aperta libera si trasforma in una merce brevettata. L’acquisto di semi ogni anno è una ricetta per l’indebitamento dei poveri contadini dell’India. E da quando è stato istituito il monopolio dei semi, l’indebitamento degli agricoltori é aumentato. Dal 1995, oltre 270.000 agricoltori in India sono stati presi nella trappola del debito e si sono suicidati.
La povertà è anche ulteriore spreco quando i sistemi pubblici vengono privatizzati. La privatizzazione di acqua, elettricità, sanità e istruzione genera crescita attraverso i profitti. Ma genera anche povertà, costringendo la gente a spendere grandi quantità di denaro per ciò che era disponibile a costi accessibili come bene comune. Quando ogni aspetto della vita è commercializzato e mercificato, vivere diventa più costoso, e la gente diventa più povera.
Sia l’ecologia che l’economia sono nate dalla stessa radice – “oikos”, la parola greca per casa. Fino a quando l’economia è stata incentrata sulla famiglia, essa riconosceva e rispettava le sue basi nelle risorse naturali e i limiti del rinnovamento ecologico. Essa era focalizzata a provvedere ai bisogni umani di base all’interno di questi limiti. L’economia basata sulla famiglia era anche incentrata sulle donne. Oggi l’economia è separata sia dai processi ecologici che dai bisogni fondamentali e si oppone ad ambedue. Mentre la distruzione della natura veniva motivata da ragioni di creazione della crescita, la povertà e l’espropriazione aumentavano. Oltre ad essere insostenibile, è anche economicamente ingiusta.
Il modello dominante di sviluppo economico è infatti diventato contrario alla vita. Quando le economie sono misurate solo in termini di flusso di denaro, i ricchi diventano più ricchi e i poveri sempre più poveri. E i ricchi possono essere ricchi in termini monetari – ma anche loro sono poveri nel contesto più ampio di ciò che significa essere umani. Nel frattempo, le richieste del modello attuale dell’economia stanno portando a guerre per le risorse come quelle per il petrolio, guerre per l’acqua, guerre alimentari. Ci sono tre livelli di violenza implicati nello sviluppo non sostenibile. Il primo è la violenza contro la terra, che si esprime come crisi ecologica. Il secondo è la violenza contro l’uomo, che si esprime come povertà, miseria e migrazioni. Il terzo è la violenza della guerra e del conflitto, come potente caccia alle risorse che si trovano in altre comunità e paesi per i propri appetiti illimitati.
L’aumento del flusso di denaro attraverso il PIL si è dissociato dal valore reale, ma coloro che accumulano risorse finanziarie possono poi reclamare pretese sulle risorse reali delle persone – la loro terra e l’acqua, le foreste e i semi. Questa sete conduce essi all’ultima goccia d’acqua e all’ultimo centimetro di terra del pianeta. Questa non è la fine della povertà. É la fine dei diritti umani e della giustizia. Gli economisti e premi Nobel Joseph Stiglitz e Amartya Sen, hanno riconosciuto che il PIL non coglie la condizione umana e hanno sollecitato la creazione di altri strumenti per misurare il benessere delle nazioni. Questo è il motivo per cui paesi come Bhutan hanno adottato la felicità nazionale lorda al posto del prodotto interno lordo per calcolare il progresso. Abbiamo bisogno di creare misure che vadano oltre il PIL, ed economie che vadano al di là del supermercato globale, per ringiovanire la ricchezza reale. Dobbiamo tener presente che la vera valuta della vita è la vita stessa.”
E se Al Gore…
Su Sette del Corriere della Sera uscito l’11 ottobre Danilo Taino fa un’interessante osservazione che richiama anche quella previsione del 2003 sul clima che abbiamo visto in classe: Dal 1998 la temperatura media della Terra non aumenta. Ma perché gli organismi preposti a tenerla sotto controllo mantengono toni allarmistici?
Ecco l’articolo pepato.
“C’era una domanda alla quale il rapporto degli esperti delle Nazioni Unite sul clima,
pubblicato a fine settembre, avrebbero dovuto rispondere. Era la più interessante. Perché dal 1998 la temperatura media sulla faccia della terra non aumenta? Gli scienziati dell’Ipcc, l’Intergovernmental Panel on Climate Change, avevano pubblicato il loro ultimo report nel 2007: catastrofico, in linea con le previsioni di disastri globali avanzate in conferenze e al cinema da Al Gore. D’altra parte, sempre nel 2007, l’ex vicepresidente degli Stati Uniti e l’Ipcc stesso furono insigniti del Premio Nobel per la Pace, grazie agli allarmi che lanciavano. Da allora, i risultati scientifici del rapporto 2007 si sono rivelati in alcuni punti sbagliati: ad esempio nell’esagerazione della velocità con la quale i ghiacciai dell’Himalaya si stanno sciogliendo. Ora, nell’attesissimo report di quest’anno, però, l’Ipcc dedica ai 17 anni di temperatura piatta una semplice nota. A loro non sembra interessare: potrebbe mettere in discussione le teorie che hanno sostenuto per anni. Preferiscono tenere i toni dell’allarmismo elevati, presentare come una grande novità il fatto che la probabilità che i cambiamenti climatici siano prodotti dall’attività umana sia passata dal 90 al 95%. Diamine. E preferiscono fare dichiarazioni roboanti sulle catastrofi possibili mentre essi stessi ridimensionano le previsioni allarmistiche che avevano fatto. Ora, l’Ipcc prevede che la temperatura della Terra aumenterà “probabilmente” più di 1,5 gradi centigradi entro il secolo. Nel 2007 sosteneva che sarebbe cresciuta “probabilmente” più di due gradi: e due gradi è il limite sopra il quale potrebbero esserci catastrofi. Su questa, che è la novità del rapporto, buona parte del pigro sistema dei media globali ha sorvolato. L’Ipcc inoltre ammette che è difficile legare l’attività dell’uomo alle maggiori siccità e al numero più elevato di uragani. La questione non è irrilevante. Nessuno nega che un problema di effetto serra esista. È che se lo si esagera e si prevedono catastrofi si finisce con il mettere in campo politiche di altissimo costo e inutili: ad esempio i sussidi a pioggia a fonti di energia pulita inefficienti, sussidi spesso accaparrati dalle mafie. E si continua a sollevare il mostro, a dire che esiste una lobby del petrolio che vuole negare il climate change: quando in realtà la lobby vincente è quella e si nutre – denaro, carriere e Nobel – dell’allarmismo di Al Gore.”
Custodi con tenerezza e speranza
Dal giorno della rinuncia di Benedetto XVI (11 febbraio), in classe abbiamo parlato delle
motivazioni di Ratzinger, del conclave, dei papabili… e la scorsa settimana, prima dell’elezione avevamo concordato che ora, dopo esserci informati consapevolmente, saremmo tornati al “programma normale”. Fatto sta che entro nelle classi e mi si chiede: “Prof, parliamo un attimo del papa?”. E per vagliare e saggiare l’interesse ogni tanto provo a buttare lì: “Beh, ne stanno parlando tutti, accendete la tv o leggete un quotidiano e c’è scritto tutto”. Niente da fare, gli studenti richiedono la mediazione del prof. Oppure quelli che erano in viaggio d’istruzione: “Prof, eravamo via, ci racconti bene quello che è successo”. Allora cerco di fare un’altra piccola “mediazione”… Immagino che non tutti i miei studienti abbiano la voglia o la pazienza di leggersi l’intero sermone della messa di oggi (per quanto non sia lungo). E allora gli do una sforbiciata (piccola in realtà, non so cosa eliminare!) ed evidenzio alcuni passi. Qui trovate l’intero: si parla di custodia, di attenzione e amore per le persone, i famigliari, gli amici, e gli sconosciuti che hanno bisogno, e per il creato; si parla di speranza (e l’eco del santo di Assisi è forte).
“Abbiamo ascoltato nel Vangelo che «Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’Angelo del Signore e prese con sé la sua sposa» (Mt 1,24). In queste parole è già racchiusa la missione che Dio affida a Giuseppe, quella di essere custos, custode. Custode di chi? Di Maria e di Gesù; ma è una custodia che si estende poi alla Chiesa…
Come esercita Giuseppe questa custodia? Con discrezione, con umiltà, nel silenzio, ma con una presenza costante e una fedeltà totale, anche quando non comprende. Dal matrimonio con Maria fino all’episodio di Gesù dodicenne nel Tempio di Gerusalemme, accompagna con premura e con amore ogni momento. E’ accanto a Maria sua sposa nei momenti sereni e in quelli difficili della vita… Come vive Giuseppe la sua vocazione di custode di Maria, di Gesù, della Chiesa? Nella costante attenzione a Dio, aperto ai suoi segni, disponibile al suo progetto, non tanto al proprio…
In lui cari amici, vediamo come si risponde alla vocazione di Dio, con disponibilità, con prontezza, ma vediamo anche qual è il centro della vocazione cristiana: Cristo! Custodiamo Cristo nella nostra vita, per custodire gli altri, per custodire il creato! La vocazione del custodire, però, non riguarda solamente noi cristiani, ha una dimensione che precede e che è semplicemente umana, riguarda tutti. E’ il custodire l’intero creato, la bellezza del creato, come ci viene detto nel Libro della Genesi e come ci ha mostrato san Francesco d’Assisi: è l’avere rispetto per ogni creatura di Dio e per l’ambiente in cui viviamo.
E’ il custodire la gente, l’aver cura di tutti, di ogni persona, con amore, specialmente dei bambini, dei vecchi, di coloro che sono più fragili e che spesso sono nella periferia del nostro cuore. E’ l’aver cura l’uno dell’altro nella famiglia: i coniugi si custodiscono reciprocamente, poi come genitori si prendono cura dei figli, e col tempo anche i figli diventano custodi dei genitori. E’ il vivere con sincerità le amicizie, che sono un reciproco custodirsi nella confidenza, nel rispetto e nel bene. In fondo, tutto è affidato alla custodia dell’uomo, ed è una responsabilità che ci riguarda tutti. Siate custodi dei doni di Dio!
Vorrei chiedere, per favore, a tutti coloro che occupano ruoli di responsabilità in ambito economico, politico o sociale, a tutti gli uomini e le donne di buona volontà: siamo “custodi” della creazione, del disegno di Dio iscritto nella natura, custodi dell’altro, dell’ambiente; non lasciamo che segni di distruzione e di morte accompagnino il cammino di questo nostro mondo! Ma per “custodire” dobbiamo anche avere cura di noi stessi! Ricordiamo che l’odio, l’invidia, la superbia sporcano la vita! Custodire vuol dire allora vigilare sui nostri sentimenti, sul nostro cuore, perché è da lì che escono le intenzioni buone e cattive: quelle che costruiscono e quelle che distruggono! Non dobbiamo avere paura della bontà, anzi neanche della tenerezza!
E qui aggiungo, allora, un’ulteriore annotazione: il prendersi cura, il custodire chiede bontà, chiede di essere vissuto con tenerezza. Nei Vangeli, san Giuseppe appare come un uomo forte, coraggioso, lavoratore, ma nel suo animo emerge una grande tenerezza, che non è la virtù del debole, anzi, al contrario, denota fortezza d’animo e capacità di attenzione, di compassione, di vera apertura all’altro, di amore. Non dobbiamo avere timore della bontà, della tenerezza!
Oggi, insieme con la festa di san Giuseppe, celebriamo l’inizio del ministero del nuovo Vescovo di Roma, Successore di Pietro, che comporta anche un potere. Certo, Gesù Cristo ha dato un potere a Pietro, ma di quale potere si tratta? … Non dimentichiamo mai che il vero potere è il servizio e che anche il Papa per esercitare il potere deve entrare sempre più in quel servizio che ha il suo vertice luminoso sulla Croce; deve guardare al servizio umile, concreto, ricco di fede, di san Giuseppe e come lui aprire le braccia per custodire tutto il Popolo di Dio e accogliere con affetto e tenerezza l’intera umanità, specie i più poveri, i più deboli, i più piccoli…
Custodire il creato, ogni uomo ed ogni donna, con uno sguardo di tenerezza e amore, è aprire l’orizzonte della speranza, è aprire uno squarcio di luce in mezzo a tante nubi, è portare il calore della speranza!…”
E si fa largo la deglobalizzazione
Prendo dal Corriere un lungo ma ricco articolo di Danilo Taino su globalizzazione e deglobalizzazione. A mio avviso è molto interessante per puntualizzare alcuni fenomeni che stiamo vivendo e sui quali non sempre abbiamo modo di fermarci a riflettere.
“Che la Storia non fosse finita lo abbiamo saputo l’11 settembre 2001. Ora possiamo
anche dire che nemmeno la Geografia è finita. Che il mondo non è «piatto» come sosteneva Thomas Friedman del «New York Times». Non solo i confini ci sono ancora: con la Grande Crisi sono diventati più difficili da valicare. La globalizzazione sta tornando indietro. Si è fermata nel 2007 e da allora ha iniziato una marcia a ritroso, non per le proteste dei sindacati, non per le manifestazioni No Global, non per il buon sapore del chilometro zero. Perché il vento che le gonfiava le vele ha cambiato direzione: nella finanza, nei commerci, nelle scelte delle aziende, ma anche nelle istituzioni, nella politica e, soprattutto, nelle idee che danno forma al mondo.
Per alcuni è un bene. Più probabilmente è un pericolo. Anche la prima globalizzazione si arrestò, e lo stop fu drammatico, cristallizzato nella Grande guerra e in quasi tre decenni di trincee, di morti e di odi nazionalisti. Non che debba finire così anche questa volta: un pianeta più chiuso, però, non promette bene.
La nostra Belle Époque è durata un quarto di secolo, forse una trentina d’anni. Anni selvaggi. Belli e spietati. Miliardi di persone sono uscite dall’indigenza: le Nazioni Unite dicono che nel 2015 sotto la linea di povertà ci saranno 920 milioni di persone, la metà che nel 1990, nonostante la popolazione del mondo sia passata dai 5,2 miliardi di allora agli oltre sette di oggi. La democrazia e la libertà hanno preso piede: i Paesi dove si vota sono 117 e l’organizzazione Freedom House calcola che nel 2012 le nazioni ad alto tasso di libertà sono state 90, contro le 44 del 1985. I viaggi si sono decuplicati. Internet ha messo in rete la Terra. La finanza e le banche globali hanno portato capitali in ogni angolo, e ciò ha fatto crescere decine di economie. La Cina, fino al 1978 del tutto chiusa, è diventata la fabbrica del mondo. L’India, nel 1990 ancora un’economia di piano in stile socialista, è il Paese emergente più giovane e con il futuro più brillante, se saprà affrontare le sue immense contraddizioni. E via così, in decine di luoghi, con il pianeta delle meraviglie.
Che naturalmente aveva anche una faccia oscura. In Occidente in quel quarto di secolo molte fabbriche hanno chiuso perché spostate dove il lavoro costa meno. Gli sweatshop del Terzo Mondo, popolati da donne e bambini sfruttati, si sono moltiplicati: anche la vergogna è diventata un fenomeno globale. Persino le malattie — ricordate la Sars? — prendevano l’aereo per spostarsi da un continente all’altro. La cultura era solo americana, uguale ovunque, senza sfumature. «Nonostante diverse culture, la gioventù della classe media di tutto il mondo sembra passare la propria vita come se fosse in un universo parallelo, scriveva nel 1999 Naomi Klein nel suo bestseller No Logo. Si svegliano al mattino, indossano i Levi’s e le Nike, afferrano i loro cappellini e i loro zaini e il Sony personal Cd e se ne vanno a scuola». Nonostante Apple abbia dato altro pane di riflessione alla signora Klein e l’i-Phone sia diventato l’oggetto di maggiore concupiscenza di massa del secolo, con la Grande Crisi questo mondo con tante luci e parecchie ombre si è fermato. Prima là dove la catastrofe è scoppiata, poi via via quasi ovunque.
Dopo il crollo della Lehman Brothers nell’autunno del 2008, gli Stati sono intervenuti per salvare e spesso nazionalizzare le banche, hanno imposto nuove regole alla loro espansione, hanno spinto, soprattutto in Europa, per limitare le attività degli istituti di credito dentro i confini domestici. Il risultato è che il modello di banche con una spinta globale è tramontato. Alla fine del 2011, i prestiti non nazionali delle banche sono crollati di 799 miliardi di dollari, 584 dei quali per la ritirata in casa di quelle europee. E la tendenza è continuata nel 2012. Il Fondo monetario internazionale ha calcolato che entro la fine di quest’anno gli istituti di credito della Ue potrebbero ridurre le loro attività di 2.600 miliardi di dollari (il 7 per cento del totale) e che un quarto di questa cifra potrebbe venire dal taglio dei prestiti fatti fuori dai confini di casa, in aggiunta alla vendita di titoli internazionali.
In parallelo, i due grandi collanti «fisici» della globalizzazione si sono fermati. Il commercio internazionale — che nei decenni passati cresceva a ritmi impressionanti, spesso sopra al 10 per cento l’anno, e trascinava la crescita del mondo — ha rallentato dopo una certa ripresa nel 2010. L’anno scorso l’Organizzazione mondiale del Commercio (Wto) ha rivisto per due volte al ribasso le sue previsioni per il 2012: gli scambi mondiali non dovrebbero essere cresciuti più del 2-2,5 per cento; e il Cpb World Trade Monitor ha calcolato che nel dicembre scorso sono addirittura diminuiti, dello 0,5 per cento rispetto a novembre.
L’altro grande fenomeno dei decenni passati, il decentramento produttivo, non solo si è fermato, ma molte imprese americane e europee stanno riportando a casa le produzioni che avevano esportato nei Paesi emergenti. Un po’ perché si sono accorte che non sempre l’outsourcing è stato redditizio, un po’ perché i salari in Cina sono molto cresciuti e non sono più attraenti come quando l’onda dell’offshoring — dello spedire fabbriche e posti di lavoro nel Terzo Mondo — era il vangelo dei grandi manager, soprattutto americani, ma anche europei. Questo ritiro nazionale ha provocato la rottura della cosiddetta catena globale delle forniture, cioè di quella rete di aziende produttrici di beni intermedi che nei decenni scorsi aveva consentito il decollo di intere economie dei Paesi poveri.
La società di trasporti Dhl, che ogni anno produce un indice della connettività globale, ha calcolato che nel 2012 «il mondo è meno integrato che nel 2007»: i mercati dei capitali si sono frammentati; il commercio dei servizi è stagnante; la «connettività globale è anche più debole di quanto sia comunemente percepito»; «la distanza e i confini contano ancora», con le connessioni online che sono per lo più domestiche. Lo studio della Dhl sostiene che «i guadagni potenziali derivanti dall’incremento della connettività globale possono raggiungere miliardi di dollari»: ciò nonostante, l’opportunità non viene sfruttata.
L’indice di gradimento dei governi per la globalizzazione non è mai stato elevato, dal momento che essa erode il loro potere, rimasto nazionale. Nei tempi più recenti, spinti anche in questo caso dal dover fare qualcosa per affrontare la recessione, hanno accentuato la loro refrattarietà all’apertura e in più di un caso hanno imboccato strade protezioniste, per quanto camuffate. L’ultimo G7, due settimane fa, ha dovuto riunirsi per discutere di possibili guerre valutarie, intese come mezzi per abbassare il valore di una moneta allo scopo di favorire le esportazioni. Mercantilismo valutario, con germi da anni Trenta, insomma. I dibattiti sull’opportunità di reintrodurre vincoli ai movimenti di capitale in situazioni di crisi, d’altra parte, hanno riguadagnato quota anche nel dibattito accademico. Per riassumere le tendenze in corso nella finanza, ma non solo, l’economista britannico Howard Davies sostiene che il 2013 sarà un anno «decisivo per la deglobalization». In questa cornice, persino la democrazia arretra, come raccontano le strade repressive prese dalle rivoluzioni arabe: Freedom House calcola che nel 2012, per il settimo anno consecutivo, il numero di Paesi in cui l’indice della libertà è peggiorato supera il numero di quelli in cui è migliorato.
Non sorprende che, con queste tendenze così accentuate, anche sul piano delle idee l’internazionalismo non sia in forma. Le Nazioni Unite non solo deludono di fronte al massacro della Siria: non ispirano più e, anzi, la superburocrazia del Palazzo di Vetro deprime l’antica e nobile idea di governo mondiale. Dopo la crisi del debito, l’Unione Europea è vista, nel mondo, meno come modello di superamento delle frontiere e sempre più come aggregazione litigiosa e incapace di decidere. Il G7 si è ridotto a un ruolo marginale, ma anche il G20, che l’ha sostituito nel 2009, ha presto perso la sua capacità di dare risposte ai problemi del mondo. Persino la questione più globale che si dovrebbe affrontare, il cambiamento del clima, si trascina da vertice inutile a vertice inutile, segno dell’incapacità del mondo di accordarsi anche di fronte alle sfide più importanti.
La Wto — simbolo della globalizzazione nell’immaginario No Global fin dagli anni Novanta — da oltre dieci anni non riesce a portare a termine il Doha Round, la trattativa per liberalizzare ulteriormente il commercio mondiale che darebbe una spinta rilevante all’economia del mondo, a costo zero. L’idea stessa di multilateralismo — cioè di accordi generali aperti a tutti i Paesi su basi paritarie, pilastro della ripresa post-bellica — è in ritirata: la proposta di Obama, accettata con entusiasmo da molti leader europei, di aprire i negoziati per una zona transatlantica di libero scambio si muove in una logica bilaterale, tra Stati Uniti ed Europa, e rischia di provocare irritazioni e reazioni in altri Paesi, Cina in testa ma non solo.
L’anno scorso, l’analista geopolitico Robert Kaplan ha pubblicato un libro — The Revenge of Geography («La rivincita della geografia»), Random House — nel quale sosteneva la necessità di tornare a studiare i confini naturali, la loro influenza sulle culture e sulle politiche, le risorse del sottosuolo per capire le grandi scelte delle nazioni: mappe più rivelatrici delle dichiarazioni politiche, dei documenti top secret, delle ideologie — a suo parere. Perché — sosteneva citando Paul Bracken di Yale — la dimensione finita della Terra è una forza di instabilità. La globalizzazione, in altri termini, ha un limite nella tendenza espansiva delle nazioni, soprattutto degli imperi vecchi e nuovi: quando si raggiunge il punto in cui non è più possibile andare oltre con un grado di armonia che soddisfi tutti, perché la Terra è in qualche modo finita, si ritorna sui passi compiuti, riprendono i vecchi meccanismi che si possono sfogare solo sulla faccia del nostro pianeta.
Non siamo già arrivati al momento in cui la Terra è finita e non si può andare oltre. Sembra però sempre più difficile, nella Grande Crisi, mantenere quel livello di armonia e di apertura nel quale tutti hanno dei vantaggi, come negli anni d’oro della globalizzazione: l’ombra della somma zero — quel che guadagni tu lo perdo io — comincia a fare paura. Così, la vecchia, polverosa Geografia torna a misurare confini e distanze del nostro piccolo mondo.”
Il peso del futuro… e dello spreco…
Difficilmente scrivo dei post per il gusto di fare polemica. Ora, sono 5 giorni che aspetto di scrivere questo post. Nel nostro liceo, come nelle altre scuole superiori, sta arrivando il libercolo “Vie al futuro” prodotto (e deduco finanziato) dalla nostra Regione (o quantomeno pagato da un altro ente pubblico). Lo sconcerto nasce dalla grammatura della carta: sono anni che non mi capita di sentire uno spessore del genere all’interno di un libro! L’ho anche messo sul dorsetto: sta in piedi da solo… In un periodo come questo è necessario? Essendo diretto a ragazzi di quinta, che su internet ci navigano come Giovanni Soldini sul mare, si potrebbero iniziare a immaginare dei canali informativi che utilizzino tali strumenti… a tutto vantaggio di toner e carta risparmiati. Mi scuso per lo sfogo, ma era una cosa a cui tenevo.



