Tra appetito e sazietà

Ieri pomeriggio ho terminato di leggere “Io credo. Dialogo tra un’atea e un prete”, il libro curto da Marinella Chirico che ha raccolto le parole di Margherita Hack e Pierluigi Di Piazza. Una delle cose che più mi hanno colpito dell’astrofisica toscana è la continua sottolineatura sulla semplicità della vita, sulla felicità che proviene dalle piccole cose quotidiane: “c’è chi desidera solo quello che può avere, come me, e chi invece è perennemente insoddisfatto. Questo fa la differenza: l’atteggiamento verso la vita” (pag. 72).

E mentre ho ancora nella mente queste parole, ecco che mi imbatto in un passo dell’altro libro che sto leggendo (porto sempre avanti più letture contemporaneamente, scelgo a seconda dello stato d’animo in cui sono). Si tratta di “Aceto, Arcobaleno” di Erri De Luca, pag. 22-23: “Miseria di città, anch’io la ricordavo. Nel banco di scuola delle elementari noi figli di benestanti avevamo la nostra merenda comprata al mattino. Gli altri aspettavano che passasse il bidello a distribuire loro la “refezione”, un pane e una cotognata. Uno alla volta andavano alla cattedra a ritirare dalla mano del maestro il cibo atteso. Tornavano al loro posto guardandosi i passi. All’ora permessa la mangiavano con un gusto così intenso da spingere qualcuno di noialtri bambini a chiedere lo scambio del proprio pane e cioccolata con il loro vitto. Ma bisognava ottenere in baratto anche il loro appetito e il bisogno di quelle merende d’elemosina per poterci affondare i denti con la stessa felicità feroce.”

E allora mi sento in quella zona collocata tra la piccola-grande soddisfazione quotidiana di Margherita e l’appetito che non può mai venir meno di Erri: un appetito che non mi fa sentire sazio di felicità, e una soddisfazione che mi fa apprezzare le gioie della vita.

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Tre articoli

Un pdf con tre articoli molto diversi sulla mostra milanese su Costantino

Articoli su Costantino.pdf

Cartacce in rete

E’ un po’ di tempo che rifletto sulla questione della maleducazione e dell’aggressività su internet, social, forum… Oggi ho letto questo breve pezzo del direttore di Internazionale Giovanni De Mauro.

educazione, comunicazione, facebook, internet, relazioni“Per uno studio pubblicato sul Journal of Computer-Mediated Communication, cinque professori di scienze della comunicazione dell’università del Winsconsin hanno fatto leggere a 1.183 persone un finto articolo online sui potenziali rischi e vantaggi di una tecnologia chiamata nanosilver. Poi gli hanno fatto leggere i commenti di finti lettori. Metà dei partecipanti ha letto dei commenti che, anche quando erano molto critici, erano comunque espressi in modo civile e pacato; l’altra metà ha letto dei commenti che avevano toni aggressivi e offensivi. Il risultato è che i commenti incivili “non solo hanno diviso i lettori, ma spesso hanno cambiato la loro interpretazione del contenuto dell’articolo”. Un attacco personale all’autore dell’articolo, per esempio, è sufficiente a far pensare che la nuova tecnologia sia più pericolosa di quanto sembri a prima vista. Evidentemente non siamo ancora consapevoli del potere che abbiamo nel condizionare – migliorandolo o peggiorandolo – lo spazio pubblico in cui ci troviamo quando siamo online. È come buttare le cartacce in un giardino pubblico: non è solo una questione di civiltà o di buona educazione. Non lo facciamo perché altrimenti renderemmo quel posto più brutto per gli altri e soprattutto per noi stessi.”

Badabum!

Badabum! Perché sono parole che fanno rumore queste di don Aldo Antonelli, parroco ad Antrosano e coordinatore di “Libera” per la Provincia dell’Aquila. Sono prese da L’Huffington Post.

175377_2925984_PULIZIABAS_12223333_medium.jpg“Amarezza e rabbia, indignazione e disappunto. Disgusto e una voglia matta di rivolta. Il vocabolario non è sufficiente a tradurre tutti i sentimenti che, in negativo, travagliano l’animo di un parroco di periferia. Le cronache di questi giorni hanno dell’incredibile che rasentano l’assurdo. Ormai è di dominio pubblico: l’aria mefitica della corruzione, dei giochi di potere, di pratiche persino criminali, di degrado morale, di malcostume appesta i palazzi vaticani e richiede urgente un’opera di disinfestazione e di pulizia generale, nella presa di coscienza e nella trasparenza generale. Aprire le finestre e cambiare aria! E invece cosa succede? Ci si chiude a riccio: si pone sotto secreto la relazione dei tre saggi, si schermano i telefoni, si oscurano perfino le finestre della Cappella Sistina, si perquisiscono i Cardinali, e si minaccia addirittura la scomunica a chi volesse twittare con l’esterno. La “città posta sul monte”, perché sia visibile a tutti e a tutti faccia luce, diventa un bunker sotterraneo più adatto ai topi che a persone libere e risorte. I “Pastori” che dovrebbero guidare il popolo in un cammino di crescita e di responsabilità vengono rinchiusi, chiavistellati (“cum-clave” da cui la parola “Conclave”), come scolaretti indisciplinati e incapaci, da tenere a bada.

Agli inizi del terzo millennio, in un mondo adulto ed emancipato, la chiesa continua imperterrita e mantenere una struttura d’altri tempi e che oggi non ha più alcun senso, anzi, si è invertita nel suo controsenso. Il conclave è nato e si è strutturato tale per tenere i cardinali indipendenti e liberi dai condizionamenti e dalle intrusioni del potere invadente e prepotente dei Re e degli Imperatori. Oggi questa stessa struttura invece che assicurare libertà al collegio cardinalizio, tiene i cardinali sotto tutela, come fossero degli incapaci; li tiene prigionieri.

Siamo agli antipodi di quella chiesa-comunità cui il Maestro aveva ordinato il linguaggio della schiettezza: «Sia il vostro linguaggio: sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno» (Matteo 5,37). E’ stato censurato anche il Vangelo dalla sue narrazioni scomode che nessuno più ricorda ed è stato messo sotto silenzio perfino il suo Maestro: «Non abbiate paura. Nulla v’è di coperto che non debba essere svelato e nulla di nascosto che non debba essere conosciuto. Ciò che dico a voi nelle tenebre, proclamatelo nella luce; ciò che udite nell’orecchio, annunciatelo sui tetti» (Matteo 10, 26-27). «C’è un tragico paradosso in cui si dibatte la coscienza cattolica: l’istituzione per merito della quale ancora oggi nel mondo continua a risuonare il messaggio di liberazione di Gesù è governata nel suo vertice da una logica che rispecchia proprio quel potere contro cui Gesù lottò fino ad essere ucciso. Questa è la condizione paradossale e a volte tragica dell’essere oggi, e non solo oggi, un cattolico». Così scriveva il teologo Vito Mancuso nel suo ultimo libro Obbedienza e Libertà. «Il paradosso, lo precedeva Ortensio da Spinedoli su Adista Documenti n. 47/2011, è che le moderne società civili si reggono da due secoli sui principi evangelici (libertà, uguaglianza e fraternità), riscoperte da “senza-Dio”, mentre la Chiesa, che proviene dal vangelo, continua a poggiarsi sui canoni dei regimi assolutistici che il vangelo condanna». Nella Chiesa la diplomazia double-face si è mangiata la trasparenza e la paura ha esiliato il coraggio. In questi ultimi anni si è fatto di tutto per riportare indietro le lancette dell’orologio: laici imbavagliati, teologi senza tutela, vescovi in libertà vigilata, iniziative locali bloccate, centralismo forsennato. Le conseguenze catastrofiche di questa “politica” neoconservatrice sono davanti gli occhi di tutti: l’atmosfera è pesante, carica di tensioni, colma di risentimento. Il grande slancio spirituale si è spento, frenato dagli interdetti, paralizzato dai giuramenti, polarizzato dal grandi scenografie e dalle lussuose liturgie.

La liturgia ha cancellato la profezia. Dai non più sacri palazzi si vorrebbe i cristiani come un popolo di “colli storti”, per dirla con la felice espressione del grande Bernanos. Ma così non è…; e non sarà! Molti sono coloro che quotidianamente amano e lottano in e per una Chiesa Altra, così come emergeva dal Vaticano II: una Chiesa più attenta a lavare i piedi dell’umanità che non preoccupata di curare le vesti che porta addosso.”

Verrà un vento

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La tua nostalgia è un mare che puoi navigare,

la tua nostalgia è un terreno su cui puoi camminare,

perché te ne stai allora inerte e scorata

fissando il vuoto?

Verrà un mattino con un orizzonte più rosso

di tutti gli altri,

verrà un vento a porgerti la mano:

mettiti in cammino!

                                     (Edith Södergran)

Versi come pallottole

Giovanni Ruggiero su Avvenire recensisce un libro e racconta la storia del suo autore, il poeta albanese Visar Zhiti.

“Un verso era la pallottola con cui il poeta sceglieva di suicidarsi. Così nell’Albania tetra di visar.jpgEnver Hoxha e dei suoi gulag dove morirono per i loro versi i giovani poeti insieme a tanti altri artisti e intellettuali. Inventarono con l’Articolo 55, famigerato, il reato di «Agitazione e propaganda contro il potere popolare» che portava diritto al carcere o davanti al plotone di esecuzione: il sacerdote poeta Vinçenc Prenushi morì in prigione con tanti altri, il grande Lasgush Poradeci condannato al silenzio, Trifon Xhagjika fucilato e tanti, ancora tanti dolori. Ma poteva soltanto per questo un poeta non cantare? Visar Zhiti non rinunciò al canto. Consapevole anche che la metafora non lo metteva al riparo: «Terrificante la sfinge crine di crepuscolo / nel deserto troneggia tetra». I versi furono portati in tribunale e letti dall’accusa come allegoria del tiranno. Il giovane Zhiti finirà in carcere dove continuò ad aggrapparsi alla poesia, la prostituta che mi denunciò ai poliziotti. Il poeta che patirà in miniere e in campi di lavoro per dieci anni fino al 1987, quando ottenne la libertà, è considerato in patria e all’estero, la voce più alta di tutta la moderna poesia albanese. Appena nel regime si aprirono le prime crepe, Visar Zhiti fuggì via da questo passato di dolore come fecero tanti giovani albanesi con le traversate disperate dell’Adriatico verso l’Occidente. Approdato in Italia collaborò nel 1992 ad Avvenire facendosi testimone della sofferenza del suo Paese per la dittatura atea che era stata imposta. Ma preferì poi tornare nella sua terra, quasi per un obbligo: quello di far sentire da qui la sua voce di poeta.

Questa voce la raccoglie adesso Confessione senza altari (Diana Edizioni, pagine 268, euro 10,00) che presenta per la prima volta anche la poesia composta da Zhiti in carcere in modo del tutto originale: non avendo carta su cui appuntare il canto, i versi venivano imparati a memoria dagli altri carcerati perché potessero tramandarli, se il poeta non fosse sopravvissuto. Sono versi forti, amari e dolenti ma senza nessuna vena d’odio. Il poeta non chiede vendetta: «La vita non basta per l’amore…/ terribile allora trovare tempo per l’odio». Con i suoi versi, Visar Zhiti attraversa tutte le fasi storiche dell’Albania contemporanea che hanno determinato vari generi letterari. C’è la «poesia del cassetto» che non poteva vedere la luce, pena il carcere o l’impiccagione; c’è la «poesia dal carcere», quella composta nella sofferenza e nella pena della restrizione fisica e morale e, infine, la «poesia sul carcere» scritta quando finalmente si è potuto assaporare la libertà. La raccolta proposta dall’editore napoletano in albanese e in italiano (con coraggio in un mercato che non legge poesia) presenta queste tre poetiche che si confondono perché sono identiche nell’essenza: tenere e dolenti. E resta unico Visar Zhiti. È il poeta tradito dalla poesia che non si duole mai per se stesso, ma per l’uomo che ha sofferto e per il suo simile che gli ha inferto la sofferenza. Non c’è nella sua poesia lo scontro tra un regime tiranno e il poeta. È qualcosa più terribile: è l’uomo contro l’uomo. Uno scontro che non si è mai sopito, antico come il mondo: «Aiuto chiedemmo al mondo: soldati, / pane, carri armati, medicine, libri. / Giunsero per salvarci, / da noi stessi». E ancora: «L’uomo / ben poco trovo nell’uomo. / Perciò mi rivolgo agli alberi, / imparo dal silenzio pieno di frutti». Oppure: «Uomini, / di nuovo potete andare. / Potete incontrare chiunque, / mai voi stessi».

Sposando il supplizio e le pene dell’altro, ma versando lacrime proprie, il messaggio poetico di Zhiti si universalizza e oltrepassa i confini geografici del dolore albanese. Il poeta è testimone della sofferenza dell’umanità, perché è questa che lo fa dolere più della sua vicenda personale. Consapevole di essere voce di altri che hanno subito mortificazioni analoghe, scrive: «Mi hanno condannato le divinità / a sentire il dolore dell’altro / perché molto di più…» L’uomo che ha paura dell’uomo che nel carcere non gli fu d’aiuto. Meno del cavallo, il solo che nel carcere si fece avanti al condannato «e salì in cima alla tragedia / e cadde in ginocchio davanti all’ucciso».

È quella di Zhiti una confessione laica (senza altari, come recita il titolo), ma i suoi versi – fa notare Elio Miracco che ha curato la traduzione – «sono attraversati da un inquieto sentimento di fede che trova nel simbolo della Croce il martirio di redenzione e si rivela in Cristo e in Madre Teresa». I chiodi della Croce nei suoi versi sono stelle, allegoria del cristiano. Zhiti non si presenta come l’ultimo condannato dolente di quel regime, ma come un cireneo dei giorni nostri che prende su di sé la croce di tutti.”

Oltre ogni ragionevole speranza

8529806402_5e22c98a83_b.jpgDa Virgilio, passando per De Luca, fino alla Bibbia, sfiorando Leopardi in poche righe. Si può? Ci si può provare…

Da poco ho finito di leggere il libro Alzaia di Erri De Luca. Uno dei passi che mi hanno maggiormente colpito è il seguente:

“Una salus victis: nullam sperare salutem, una sola salvezza per i vinti: non sperare alcuna salvezza. Così dice Enea raccontando il suo scampo alla rovina di Troia. E’ il coraggio di chi ha smesso ogni speranza e si lancia nella mischia con mente sgombra da ogni futuro. L’insurrezione degli ultimi ebrei nel ghetto di Varsavia può reggere esempio di questa condizione. Ci sono momenti estremi in cui i vinti sperimentano una terribile pace interiore nel più grande pericolo. Per grazia ricevuta di non sperare più.”

E adesso mentre rivedevo i tweet più recenti sono capitato su un articolo di Antonio Pitta scritto per Avvenire, di cui riporto alcune frasi:

“Il mito di Pandora racconta che quando il suo vaso fu aperto per diffondere ogni genere di male nel mondo, nel fondo rimase soltanto elpis, la speranza. Sono trascorsi duemila anni dall’inizio della fede cristiana, ma la concezione rassegnata e striata di pessimismo sulla speranza rimane ancora fra molti credenti in Cristo. L’illusione delusa del «sabato del villaggio» accompagna la nostra visione della speranza. Nutriamo sempre una certa diffidenza sulla speranza poiché il timore di essere delusi nelle attese è vivo più del suo desiderio… La speranza riceve dalla fede un fondamento sicuro; e soltanto una fede capace di attraversare la prova approda nella speranza. La prova non è quella dell’invisibile con gli occhi del corpo, ma del visibile con quelli della mente. Per questo non ciò che vediamo è oggetto della speranza, bensì quanto non vediamo, ma continuiamo a credere. La prova dell’amore è quella che nasce dalla fede e approda nella speranza, poiché senza cadere in forme di fideismo, l’amore tutto crede e, senza lasciarsi irretire nell’illusione, l’amore tutto spera. Qui sta la fondamentale differenza tra la speranza di origine greco-romana e quella di origine ebraico-cristiana: la prima è fondata sul desiderio, mentre la seconda si radica nella fede.”

Buone libere riflessioni 🙂

Su piume leggere

Prendo da un sito che si occupa di poesia queste parole del perugino Sandro Penna, a commento di questo scatto di qualche anno fa che ho “rivisitato” stanotte.

Il mio fanciullo ha le piume leggere.

Ha la voce sì viva e gentile.

Ha negli occhi le mie primavere perdute.

In lui ricerco amor non vile.

Così ritorna il cuore alle sue piene.

Così l’amore insegna cose vere.

Perdonino gli dèi se non conviene

il sentenziare su piume leggere.

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Nei luoghi dove una volta giocavamo

Le cose che il bambino ama8525308531_dff6e41fe2_o.jpg

rimangono nel regno del cuore

fino alla vecchiaia.

La cosa più bella della vita

è che la nostra anima

rimanga ad aleggiare

nei luoghi dove una volta

giocavamo.

(Gibran)

Statuine al bando

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Dal 1979, anno della rivoluzione khomeinista, l’Iran ci ha abituati a demonizzare le varie mode e tendenze provenienti dall’Occidente malato: la musica rock, la Barbie, i jeans, i Simpsons, Mc Donald’s… Ecco che ora si affaccia una novità che prendo da Andkronos: “Sono le statuette che rappresentano Buddha l’ultimo bersaglio della censura iraniana, che le ha messe al bando in quanto strumento di “invasione culturale” dall’estero. Il divieto di esporre rappresentazioni scultoree della figura sacra del buddhismo e il conseguente ordine di sequestro per quelle in vendita nei negozi del paese è arrivato dall’autorità per la salvaguardia del patrimonio culturale iraniano, come ha riportato il quotidiano locale ‘Arman’”. Aggiungo il fatto che la maggior parte delle volte le statuine non hanno valenza religiosa ma estetica, facendo da ornamento su mobili e nei giardini.

Per una femminilizzazione del mondo

Nelle ultime settimane sto sempre meno volentieri su fb, dove sempre più spesso leggo rabbia e livore, se non odio. Il tutto mi sta nauseando e annoiando. I Radiodervish escono con un nuovo cd, Human. In un’intervista di Chiara Calpini per XL che ho letto oggi pomeriggio affermano: “Quello che da tempo aspettiamo è una femminilizzazione del mondo, nel senso di far corrispondere le nostre risposte e i nostri comportamenti all’emisfero destro del cervello che sovraintende ai sentimenti, all’intuizione e alla creatività. Ma anche trovare un’armonia che superi il dualismo e lo scontro. Smettere con le recriminazioni e lavorare con gioia al cambiamento. La musica può fare tutto questo, raccontando storie positive ed emblematiche”.

radiodervish, facebook, armonia, cambiamento, gioia, livore, odio

E si fa largo la deglobalizzazione

Prendo dal Corriere un lungo ma ricco articolo di Danilo Taino su globalizzazione e deglobalizzazione. A mio avviso è molto interessante per puntualizzare alcuni fenomeni che stiamo vivendo e sui quali non sempre abbiamo modo di fermarci a riflettere.

“Che la Storia non fosse finita lo abbiamo saputo l’11 settembre 2001. Ora possiamo globo.jpganche dire che nemmeno la Geografia è finita. Che il mondo non è «piatto» come sosteneva Thomas Friedman del «New York Times». Non solo i confini ci sono ancora: con la Grande Crisi sono diventati più difficili da valicare. La globalizzazione sta tornando indietro. Si è fermata nel 2007 e da allora ha iniziato una marcia a ritroso, non per le proteste dei sindacati, non per le manifestazioni No Global, non per il buon sapore del chilometro zero. Perché il vento che le gonfiava le vele ha cambiato direzione: nella finanza, nei commerci, nelle scelte delle aziende, ma anche nelle istituzioni, nella politica e, soprattutto, nelle idee che danno forma al mondo.

Per alcuni è un bene. Più probabilmente è un pericolo. Anche la prima globalizzazione si arrestò, e lo stop fu drammatico, cristallizzato nella Grande guerra e in quasi tre decenni di trincee, di morti e di odi nazionalisti. Non che debba finire così anche questa volta: un pianeta più chiuso, però, non promette bene.

La nostra Belle Époque è durata un quarto di secolo, forse una trentina d’anni. Anni selvaggi. Belli e spietati. Miliardi di persone sono uscite dall’indigenza: le Nazioni Unite dicono che nel 2015 sotto la linea di povertà ci saranno 920 milioni di persone, la metà che nel 1990, nonostante la popolazione del mondo sia passata dai 5,2 miliardi di allora agli oltre sette di oggi. La democrazia e la libertà hanno preso piede: i Paesi dove si vota sono 117 e l’organizzazione Freedom House calcola che nel 2012 le nazioni ad alto tasso di libertà sono state 90, contro le 44 del 1985. I viaggi si sono decuplicati. Internet ha messo in rete la Terra. La finanza e le banche globali hanno portato capitali in ogni angolo, e ciò ha fatto crescere decine di economie. La Cina, fino al 1978 del tutto chiusa, è diventata la fabbrica del mondo. L’India, nel 1990 ancora un’economia di piano in stile socialista, è il Paese emergente più giovane e con il futuro più brillante, se saprà affrontare le sue immense contraddizioni. E via così, in decine di luoghi, con il pianeta delle meraviglie.

Che naturalmente aveva anche una faccia oscura. In Occidente in quel quarto di secolo molte fabbriche hanno chiuso perché spostate dove il lavoro costa meno. Gli sweatshop del Terzo Mondo, popolati da donne e bambini sfruttati, si sono moltiplicati: anche la vergogna è diventata un fenomeno globale. Persino le malattie — ricordate la Sars? — prendevano l’aereo per spostarsi da un continente all’altro. La cultura era solo americana, uguale ovunque, senza sfumature. «Nonostante diverse culture, la gioventù della classe media di tutto il mondo sembra passare la propria vita come se fosse in un universo parallelo, scriveva nel 1999 Naomi Klein nel suo bestseller No Logo. Si svegliano al mattino, indossano i Levi’s e le Nike, afferrano i loro cappellini e i loro zaini e il Sony personal Cd e se ne vanno a scuola». Nonostante Apple abbia dato altro pane di riflessione alla signora Klein e l’i-Phone sia diventato l’oggetto di maggiore concupiscenza di massa del secolo, con la Grande Crisi questo mondo con tante luci e parecchie ombre si è fermato. Prima là dove la catastrofe è scoppiata, poi via via quasi ovunque.

Dopo il crollo della Lehman Brothers nell’autunno del 2008, gli Stati sono intervenuti per salvare e spesso nazionalizzare le banche, hanno imposto nuove regole alla loro espansione, hanno spinto, soprattutto in Europa, per limitare le attività degli istituti di credito dentro i confini domestici. Il risultato è che il modello di banche con una spinta globale è tramontato. Alla fine del 2011, i prestiti non nazionali delle banche sono crollati di 799 miliardi di dollari, 584 dei quali per la ritirata in casa di quelle europee. E la tendenza è continuata nel 2012. Il Fondo monetario internazionale ha calcolato che entro la fine di quest’anno gli istituti di credito della Ue potrebbero ridurre le loro attività di 2.600 miliardi di dollari (il 7 per cento del totale) e che un quarto di questa cifra potrebbe venire dal taglio dei prestiti fatti fuori dai confini di casa, in aggiunta alla vendita di titoli internazionali.

In parallelo, i due grandi collanti «fisici» della globalizzazione si sono fermati. Il commercio internazionale — che nei decenni passati cresceva a ritmi impressionanti, spesso sopra al 10 per cento l’anno, e trascinava la crescita del mondo — ha rallentato dopo una certa ripresa nel 2010. L’anno scorso l’Organizzazione mondiale del Commercio (Wto) ha rivisto per due volte al ribasso le sue previsioni per il 2012: gli scambi mondiali non dovrebbero essere cresciuti più del 2-2,5 per cento; e il Cpb World Trade Monitor ha calcolato che nel dicembre scorso sono addirittura diminuiti, dello 0,5 per cento rispetto a novembre.

L’altro grande fenomeno dei decenni passati, il decentramento produttivo, non solo si è fermato, ma molte imprese americane e europee stanno riportando a casa le produzioni che avevano esportato nei Paesi emergenti. Un po’ perché si sono accorte che non sempre l’outsourcing è stato redditizio, un po’ perché i salari in Cina sono molto cresciuti e non sono più attraenti come quando l’onda dell’offshoring — dello spedire fabbriche e posti di lavoro nel Terzo Mondo — era il vangelo dei grandi manager, soprattutto americani, ma anche europei. Questo ritiro nazionale ha provocato la rottura della cosiddetta catena globale delle forniture, cioè di quella rete di aziende produttrici di beni intermedi che nei decenni scorsi aveva consentito il decollo di intere economie dei Paesi poveri.

La società di trasporti Dhl, che ogni anno produce un indice della connettività globale, ha calcolato che nel 2012 «il mondo è meno integrato che nel 2007»: i mercati dei capitali si sono frammentati; il commercio dei servizi è stagnante; la «connettività globale è anche più debole di quanto sia comunemente percepito»; «la distanza e i confini contano ancora», con le connessioni online che sono per lo più domestiche. Lo studio della Dhl sostiene che «i guadagni potenziali derivanti dall’incremento della connettività globale possono raggiungere miliardi di dollari»: ciò nonostante, l’opportunità non viene sfruttata.

L’indice di gradimento dei governi per la globalizzazione non è mai stato elevato, dal momento che essa erode il loro potere, rimasto nazionale. Nei tempi più recenti, spinti anche in questo caso dal dover fare qualcosa per affrontare la recessione, hanno accentuato la loro refrattarietà all’apertura e in più di un caso hanno imboccato strade protezioniste, per quanto camuffate. L’ultimo G7, due settimane fa, ha dovuto riunirsi per discutere di possibili guerre valutarie, intese come mezzi per abbassare il valore di una moneta allo scopo di favorire le esportazioni. Mercantilismo valutario, con germi da anni Trenta, insomma. I dibattiti sull’opportunità di reintrodurre vincoli ai movimenti di capitale in situazioni di crisi, d’altra parte, hanno riguadagnato quota anche nel dibattito accademico. Per riassumere le tendenze in corso nella finanza, ma non solo, l’economista britannico Howard Davies sostiene che il 2013 sarà un anno «decisivo per la deglobalization». In questa cornice, persino la democrazia arretra, come raccontano le strade repressive prese dalle rivoluzioni arabe: Freedom House calcola che nel 2012, per il settimo anno consecutivo, il numero di Paesi in cui l’indice della libertà è peggiorato supera il numero di quelli in cui è migliorato.

Non sorprende che, con queste tendenze così accentuate, anche sul piano delle idee l’internazionalismo non sia in forma. Le Nazioni Unite non solo deludono di fronte al massacro della Siria: non ispirano più e, anzi, la superburocrazia del Palazzo di Vetro deprime l’antica e nobile idea di governo mondiale. Dopo la crisi del debito, l’Unione Europea è vista, nel mondo, meno come modello di superamento delle frontiere e sempre più come aggregazione litigiosa e incapace di decidere. Il G7 si è ridotto a un ruolo marginale, ma anche il G20, che l’ha sostituito nel 2009, ha presto perso la sua capacità di dare risposte ai problemi del mondo. Persino la questione più globale che si dovrebbe affrontare, il cambiamento del clima, si trascina da vertice inutile a vertice inutile, segno dell’incapacità del mondo di accordarsi anche di fronte alle sfide più importanti.

La Wto — simbolo della globalizzazione nell’immaginario No Global fin dagli anni Novanta — da oltre dieci anni non riesce a portare a termine il Doha Round, la trattativa per liberalizzare ulteriormente il commercio mondiale che darebbe una spinta rilevante all’economia del mondo, a costo zero. L’idea stessa di multilateralismo — cioè di accordi generali aperti a tutti i Paesi su basi paritarie, pilastro della ripresa post-bellica — è in ritirata: la proposta di Obama, accettata con entusiasmo da molti leader europei, di aprire i negoziati per una zona transatlantica di libero scambio si muove in una logica bilaterale, tra Stati Uniti ed Europa, e rischia di provocare irritazioni e reazioni in altri Paesi, Cina in testa ma non solo.

L’anno scorso, l’analista geopolitico Robert Kaplan ha pubblicato un libro — The Revenge of Geography («La rivincita della geografia»), Random House — nel quale sosteneva la necessità di tornare a studiare i confini naturali, la loro influenza sulle culture e sulle politiche, le risorse del sottosuolo per capire le grandi scelte delle nazioni: mappe più rivelatrici delle dichiarazioni politiche, dei documenti top secret, delle ideologie — a suo parere. Perché — sosteneva citando Paul Bracken di Yale — la dimensione finita della Terra è una forza di instabilità. La globalizzazione, in altri termini, ha un limite nella tendenza espansiva delle nazioni, soprattutto degli imperi vecchi e nuovi: quando si raggiunge il punto in cui non è più possibile andare oltre con un grado di armonia che soddisfi tutti, perché la Terra è in qualche modo finita, si ritorna sui passi compiuti, riprendono i vecchi meccanismi che si possono sfogare solo sulla faccia del nostro pianeta.

Non siamo già arrivati al momento in cui la Terra è finita e non si può andare oltre. Sembra però sempre più difficile, nella Grande Crisi, mantenere quel livello di armonia e di apertura nel quale tutti hanno dei vantaggi, come negli anni d’oro della globalizzazione: l’ombra della somma zero — quel che guadagni tu lo perdo io — comincia a fare paura. Così, la vecchia, polverosa Geografia torna a misurare confini e distanze del nostro piccolo mondo.”

Un umanesimo da rivitalizzare

magritte.jpgNei giorni della rinuncia di Benedetto XVI mi ero perso un’interessante intervista di Laura Badaracchi al filosofo e sociologo Zygmunt Bauman per Avvenire del 12 febbraio. Ecco un estratto delle sue parole.

“L’attuale crisi è l’estrema conseguenza dell’aver sostituito l’umanesimo con la rivalità e la concorrenza. Ma contro gli interessi economici si può riscoprire una convivenza basata su cooperazione, condivisione, fiducia reciproca, rispetto, amicizia e solidarietà.

Assistiamo ora al crescente divorzio tra potere (la possibilità di realizzare cose) e politica (la capacità di decidere di quali cose abbiamo bisogno e quali devono essere realizzate), il cui esito è un’acuta crisi. Da una parte, ci confrontiamo con le potenze mondiali in un’extraterritoriale ‘terra di nessuno’ emancipata dal controllo politico, dall’altra con strumenti politici ‘locali’ (confinati al territorio di singoli Stati), come succedeva prima che cominciasse la globalizzazione dell’interdipendenza, e per questo motivo siamo afflitti da un deficit invalidante del potere… Quindi ci stiamo confrontando con un impegno analogo a quello dei vostri antenati del Risorgimento: ci troviamo di fronte alla sfida di integrare una moltitudine di autonomie locali – o realtà etniche e politiche quasi autonome – all’interno di nazioni e Stati moderni, ma con la necessità di farlo su scala molto più ampia.

Abbiamo il compito di costruire ‘umanità’ fuori dalla pletora di Stati-nazione, in modo accorato e con urgenza: è letteralmente una questione di vita o di morte dell’umanità, che a molti di noi sembra travolgente e che trascende la capacità umana.

… La situazione attuale è l’estrema conseguenza per aver messo al posto dell’umanità concorrenza e rivalità, barattando il grande desiderio e la nostalgia per una convivenza basata su cooperazione, condivisione, fiducia reciproca, riconoscimento e rispetto. Ma non c’è alcun vantaggio o benefit nell’avidità: una convinzione che sarà capita e accolta dalla maggioranza di noi. Interroga le persone sui valori a loro cari: le probabilità sono che molti nomineranno in primo luogo l’uguaglianza, il rispetto reciproco, la solidarietà e l’amicizia. Ma poi osservi attentamente il loro comportamento quotidiano, la loro vita concreta: si può scommettere che emergerà una classifica completamente diversa di valori… Si stupirà di scoprire quanto sia ampio il divario tra ideali e realtà, parole e azioni. Può essere colmato? Beh, non per niente si usa la parola ‘realtà’ per indicare argomenti troppo importanti per discuterne a distanza, temi su cui i nostri leader politici continuano a dirci che ‘non c’è alternativa’. Molti di noi credono che ci sia un’alternativa, anche se ci vorranno molta volontà, determinazione e un lavoro impegnativo per renderla realtà.

Tuttavia, come ricostruire la solidarietà dopo un’erosione durata decenni attraverso un individualismo invadente e insidioso e tramite la privatizzazione d’interessi e preoccupazioni? La società che è emersa da questi processi non dà asilo alla solidarietà umana. Sono state svilite le situazioni esistenziali in cui esprimevamo collaborazione e promosse, invece, la rivalità, la competizione e il sospetto reciproco. Tutto ciò accade in un tempo in cui abbiamo bisogno di solidarietà come mai era successo prima, per ottenere il bene comune della nostra sopravvivenza… Ma non sono ancora pronte ‘tabelle di marcia’ infallibili che ci indichino come procedere; nessuna garanzia di successo.”

Nonostante

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“Dalla prima infanzia alla tomba qualcosa in fondo al cuore di ogni essere umano, nonostante tutta l’esperienza dei crimini compiuti, sofferti e osservati, si aspetta invincibilmente che gli venga fatto del bene e non del male. E’ questo anzitutto che è sacro in ogni essere umano” (Simone Weil)

Ricapitolando

Un articolo di Luca Rolandi per ricapitolare quel che ci aspetta.

sede vacante.jpg“E’ iniziato il periodo di interregno. E’ naturalmente diverso dal solito, perché dopo oltre 650 anni, con un Papa ancora in vita, ma solo emerito, dopo la clamorosa rinuncia. In ogni caso ora «dovrà essere convocato, da coloro a cui compete» il Conclave per l’elezione del nuovo Papa. Dalle 20 di giovedì 28 febbraio, oltre al pontefice, hanno cessato l’esercizio dei loro uffici il segretario di Stato, i prefetti, i presidenti e i membri di tutti i dicasteri curiali. Mantengono l’incarico solo il penitenziere maggiore – oggi il cardinale Manuel Monteiro de Castro -, il cardinal vicario per la diocesi di Roma (Agostino Vallini) e il cardinale arciprete di San Pietro (Angelo Comastri). Non decade dall’ufficio neanche il Camerlengo, il cardinale Tarcisio Bertone, che ha sigillato l’appartamento pontificio, preso possesso del Palazzo Apostolico, e ora cura e amministra, col consenso dei cardinali nei casi più gravi, i beni e i diritti temporali della Santa Sede.

Lunedì 4 marzo alle 9.30 è convocata la prima Congregazione generale. I cardinali cominceranno a riunirsi nell’aula nuova del Sinodo per le Congregazioni generali – per le consultazioni pre-conclave. A questa assise partecipano tutti e 209 i porporati che compongono il collegio cardinalizio sotto la presidenza del cardinale decano, Angelo Sodano. Saranno loro a decidere il giorno di avvio del conclave, come stabilito dallo stesso Benedetto XVI nel recentissimo Motu proprio Norma nonnullas del 22 febbraio scorso. Il giorno dell’inizio del Conclave, presumibilmente lunedì 11 marzo, i cardinali saranno attesi al mattino nella basilica di San Pietro per la celebrazione della Missa Pro Eligendo Romano Pontifice presieduta dal decano. Di pomeriggio, solo gli elettori in abito corale si recheranno in processione cantando il Veni Creator dalla cappella paolina verso la Cappella Sistina allestita per l’occasione e “bonificata” da qualsiasi mezzo audiovisivo e tecnologico. Al Conclave possono entrare solo i cardinali con meno di ottant’anni: in tutto 117. Al momento dovrebbero essere 115 i confermati. Il cardinale Sodano, avendo superato questo limite d’età, non vi potrà partecipare come non potrà farlo il vice-decano Roger Etchegaray. In conclave svolgerà quindi il compito di “decano” il più anziano dei porporati dell’ordine dei vescovi, Giovanni Battista Re.

“Conclave” viene dal latino “cum clave” per indicare che i cardinali resteranno chiusi a chiave nella cappella Sistina finché non sarà eletto il successore di Benedetto XVI. Il voto sarà a scrutinio segreto, e i cardinali non possono avere con sé telefonini, tv, radio né portatili. Innanzi tutto il cardinale diacono sorteggia tre Scrutatori, tre Revisori e tre Infirmarii (ossia gli incaricati a raccogliere i voti di eventuali “infermi”). I Cerimonieri consegnano almeno due o tre schede bianche a ogni elettore, poi abbandonano la Sistina. Ogni cardinale compila la scheda, la piega a metà e, tenendola sollevata, si reca all’altare. È qui che giura di aver votato per «colui che, secondo Dio, ritengo debba essere eletto» poi depone la scheda su un piatto e la fa scivolare nel calice-urna. Terminato il voto, gli scrutatori verificano che le schede corrispondano al numero degli elettori passandole da un calice a un altro. Quindi si procede allo scrutinio davanti all’altare. I Revisori controllano e solo in seguito le schede vengono bruciate. Una fumata nera dal comignolo della cappella Sistina indica che non è stata presa una decisione. Si vota a oltranza: per l’elezione del Papa servono i due terzi dei voti (limite reintrodotto da Benedetto XVI nel 2007).

Durante il periodo delle votazioni, che si tengono appunto nella cappella Sistina, gli elettori risiedono nella Domus Sanctae Marthae, un edificio moderno costruito proprio per questo scopo. Fra un luogo e l’altro i porporati possono spostarsi in pullman o a piedi, posto che non possono in alcun modo essere avvicinati da estranei. A partire dal 34esimo scrutinio si va al ballottaggio tra i due cardinali più votati, ma sempre con la maggioranza dei due terzi. Quando finalmente un candidato raggiunge tale risultato, dal comignolo della cappella Sistina esce una fumata bianca: insieme alle campane è il segnale che il Papa è stato eletto. La folla attende trepidante in piazza San Pietro mentre il nuovo pontefice viene vestito per essere presentato ai fedeli. Il cardinale protodiacono – incarico ricoperto dal francese Jean-Louis Tauran – darà a quel punto lo storico annuncio: «Habemus Papam!». Sarà allora che il nuovo pontefice si affaccerà dalla loggia su piazza San Pietro.”

Primi profumi

Un giro con Mou per i campi e avverto che la primavera preme per socchiudere il portone di questo inverno: profumi, primo tepore, suoni. Anche se non c’è da fidarsi troppo… Piano, con calma, rispettando i ritmi della natura…

“Sorridi. La vita è come una siepe fiorita in una foresta di solitudine dove le foglie sono speranze, i fiori sogni, le spine i giorni tristi della vita. Sorridi. Perchè le spine, una alla volta, cadranno e la siepe fiorirà ancora a primavera” (Romano Battaglia)

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