Chi segue il blog in modo regolare sa che pubblico articoli lunghi solo se ritengo che ne valga la pena (in ogni caso parere personalissimo). Oggi, mentre navigavo su Sconfinare, il sito del giornale creato dagli studenti del SID (Scienze Internazionali e Diplomatiche) di Gorizia, mi sono imbattuto in questo bell’articolo di Elena Tuan sul ruolo moderno della donna nell’Islam.
“C’è il femminismo, c’è l’Islam e c’è anche il femminismo islamico. Un movimento germogliato e influenzato sì dal pensiero di molti intellettuali e teorici, ma concretizzatosi spesso più semplicemente come manifestazione spontanea di protesta in seno alle disuguaglianze che ancora caratterizzano molte, sebbene diverse, realtà del mondo islamico. Tra le istanze che le femministe islamiche richiedono vi è l’uguaglianza di genere, la possibilità di partecipare alla riflessione teorica sui Libri Sacri della religione per dar vita a una vera e propria riforma di fondo del fiqh, la giurisprudenza islamica, metterne quindi in luce le interpretazioni maschiliste che hanno costretto per secoli la donna ad essere sottomessa all’uomo, all’interno della famiglia e della società. Dunque una discriminazione di genere che secondo molte attiviste, tra cui Fatima Mernissi, può essere ricondotta all’Islam, ma non al Corano.
Nella formulazione di tali rivendicazioni confluiscono componenti sia esterne che interne: esterne, come l’ispirazione che hanno fornito i movimenti europei ed occidentali in genere, che si sono battuti per ottenere maggiore giustizia, libertà, democrazia; interne, come la maggiore consapevolezza acquisita dalle donne e l’esigenza, proveniente per lo più dal ceto medio e più istruito, di rivendicare i propri diritti, tra cui anche quello di occupare un ruolo attivo all’interno della società. Spesso infatti la società islamica si propone come patriarcale e maschilista, conseguenza di una netta divisione sessuale del lavoro, secondo cui alla donna apparterrebbe il ruolo di moglie e madre, quindi il dovere di occuparsi della casa e della crescita dei propri figli; mentre all’uomo, responsabile invece del sostentamento economico della famiglia, spetterebbe la sfera della società, dell’azione e della parola. Interessante è il fatto che nella maggior parte dei casi sono le stesse femministe islamiche a rifiutare la definizione di “femministe”, sia perché forte è la volontà di mantenere e affermare con orgoglio la propria identità culturale e religiosa (si intende rispetto a quella occidentale), sia perché identificarsi come “femministe” può essere causa di fraintendimenti in ambienti in cui queste tematiche talvolta vengono ancora percepite come tentativi di soverchiare l’ordine e i valori della tradizione. Anche per questo motivo, diversi intellettuali e docenti, tra cui anche donne come Haideh Moghissi o Shahrzad Mojab, considerano l’espressione “femminismo islamico” un ossimoro e guardano con freddo disincanto a tale movimento, ai loro occhi una contraddizione che tenta di indossare una maschera che non gli appartiene né per cultura né per tradizione. Un modo, quello di definirsi islamico, per evitare la censura o, nei casi in cui l’Islam politico non ammetta pluralismo culturale, la soppressione.
Nonostante ciò, la determinazione e il coraggio con cui tali donne lottano per ottenere maggiore uguaglianza non perde vigore. La forza del femminismo islamico sembra essere scaturita in particolar modo nella seconda metà dello scorso secolo, quando il progetto islamista di tornare alla piena implementazione della shari’a, la legge sacra islamica, ha spinto molte donne all’attivismo. L’avvento dell’Islam politico, a partire dalla rivoluzione del 1979 in Iran, è stato il “casus belli” per le aspirazioni femministe, perché da un lato ha reso evidente la discrepanza tra i valori coranici e le politiche patriarcali effettuate in nome della religione islamica, dall’altro ha donato alle stesse donne il linguaggio e la legittimità di cui avevano bisogno per formulare domanda per maggiore uguaglianza attraverso un uso appropriato delle fonti.
E’ così che le donne hanno iniziato a sostenere la sostanziale differenza tra shari’a, legge divina e non soggetta ad alcun cambiamento, e fiqh, legge determinata storicamente dall’uomo, che non deve essere santificabile, ma passabile di correzioni e modifiche. Ad aggiungersi a ciò un’interpretazione/traduzione maschilista e patriarcale dei Testi Sacri, che spesso ha portato l’uomo a formulare ex novo certi hadith (detti e usanze che la tradizione riconduce al Profeta Muhammad), che avrebbero favorito il mantenimento dell’egemonia maschile e la subordinazione del genere femminile. Per l’anima teologica del femminismo islamico è quindi necessaria una reinterpretazione dei Testi Sacri per ottenere la definitiva separazione degli stessi dal patriarcato che per secoli ne ha mantenuto il monopolio.
Il femminismo islamico ha anche una seconda anima, quella movimentista, che spesso si concreta nell’adesione a ONG, associazioni, siti Internet che operano a diversi livelli per l’affermazione dei diritti femminili. Per citarne alcune:
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Sisters in Islam, un’ organizzazione malese che opera a livello internazionale e che ha esordito ufficialmente nel 1990 con una campagna contro la poligamia, seguita da una contro la flagellazione, l’ottenimento di maggiore protezione e diritti per combattere la violenza esercitata sulle donne;
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Musawah, Movimento globale per l’uguaglianza e la giustizia nella famiglia musulmana, punto di riferimento per le operatrici di settore a livello internazionale e interlocutore dell’ONU nel programma di accertamenti periodici volti a controllare che i Paesi firmatari del CEDAW, Convenzione per l’Eliminazione di ogni forma di Discriminazione contro le donne, adottata dal Consiglio delle Nazioni Unite nel 1979, rispettino la convenzione;
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Kamarah, Donne musulmane avvocato per i diritti umani, che punta soprattutto alla necessità di informare in materia di diritto islamico le donne, garantendo loro la capacità di sviluppare con efficacia il loro discorso giuridico in seno alle comunità da cui provengono;
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Akder, Organizzazione per i Diritti delle Donne contro la Discriminazione, nata nel 1999 per iniziativa di un gruppo di professioniste e studentesse turche cacciate rispettivamente dai propri posti di lavoro ed università perché avevano rifiutato di togliersi il velo, che opera facendo pressioni sui parlamentari per migliori condizioni legislative e riforme, assiste legalmente le vittime di violenza e preme sui consigli comunali per l’assegnazione di case protette per le donne vittime di abusi e per i loro figli. Secondo recenti statistiche infatti almeno una donna su tre in Turchia ha subito molestie sessuali o forme di violenza nel corso della propria vita.
Il fenomeno della globalizzazione e l’intensificazione dell’uso delle comunicazioni di massa ha contribuito all’aumento della cooperazione e del livello di coordinamento sia a livello locale che a livello internazionale tra le varie associazioni, che non raramente organizzano meeting e riunioni per eventuali aggiornamenti o ratifiche, o più semplicemente per valorizzare la diffusione e riaffermare quegli stessi valori di cui si fanno portatrici. Purtroppo, uno tra i più rilevanti problemi delle organizzazioni femministe islamiche sono i finanziamenti, che raramente provengono dagli Stati in cui tali movimenti hanno origine, ma piuttosto da organizzazioni, gruppi e privati di Stati occidentali. La Fondazione Studio e Ricerca delle Donne, una delle ONG più affermate in Iran, è ad esempio finanziata in parte dal Ministero dell’Istruzione ed è stata tra le prime a sponsorizzare la pubblicazione di uno studio del Corano in prospettiva femminile redatto da una donna; la sopra citata Kamarah può contare su invidiabili risorse umane e finanziarie, in minima parte riconducibili al mondo musulmano e per lo più appartenenti invece al mondo occidentale. Basti pensare che nella schiera dei suoi finanziatori si trova anche Bill Gates.
Grazie a una maggiore consapevolezza, un grado migliore d’istruzione, una conoscenza più approfondita dei Testi Sacri e grazie anche al proprio carisma, oggi sempre più donne islamiche si stanno conquistando il tanto agognato ruolo attivo all’interno della società. In ambito religioso possono essere istruttrici all’interno di moschee e madrasa, interpreti della parola islamica, lettrici di preghiere, capi di moschee femminili; in ambito sociale possono operare in centri e reti associative, reti televisive, giornali e riviste, svolgere le professioni di medico, avvocato, autista di taxi ed autobus, membro del Parlamento. Oggi il 30% delle cariche parlamentari in Iran è riservato alle donne, purtroppo non tutti i seggi vengono occupati perché vi è ancora diffidenza, anche da parte delle donne stesse, a votare le proprie compagne sia per il timore delle autorità al potere sia perché non è ancora considerato “normale” pensare alle donne in termini di rappresentanza politica ed istituzionale. Anche nell’ambito dello Sport molte donne hanno lottato per ottenere maggiori libertà e diritti, tra queste spicca maggiormente l’attivista Faezeh Hashemi Rafsanjani, che ha fondato nel 1991 la Federazione dei Paesi Islamici per la solidarietà femminile nello Sport. Tale associazione ha dotato le donne di maggiori libertà e ha permesso successivamente l’organizzazione di olimpiadi speciali per le sole atlete, un traguardo notevole se si considera che con l’affermarsi del fondamentalismo islamico alle donne fu vietato anche il semplice andare in bicicletta. Alcune attiviste però sostengono che i risultati raggiunti, anche se notevoli, non siano sufficienti, poiché se da una parte le donne stanno conquistando sempre più spazio e garanzie in ambito lavorativo, sociale e politico, dall’altra le leggi in tema di diritto di famiglia sono ancora troppo deboli e ciò che non cambia è la situazione di oppressione e sfavore che esse vivono all’interno della propria casa, dove a volte subiscono violenza fisica, stupro coniugale, o nel peggiore dei casi sono vittime del delitto d’onore, ancora molto diffuso. Vi sono Paesi come la Turchia, che già da un decennio ha provveduto a varare leggi in cui si afferma l’equiparazione tra i coniugi, l’uguaglianza di genere in termini legislativi, la criminalizzazione dello stupro coniugale e vi sono Paesi come l’Arabia Saudita o gli Emirati Arabi, in cui il codice di famiglia e la stessa shari’a continuano a essere interpretati alla lettera e in questo modo la discriminazione e la disuguaglianza di genere riaffermate e consolidate all’interno della società.
Come afferma German Martin Munoz, docente all’Università di Madrid, il mondo occidentale risulta riguardo queste tematiche particolarmente influenzabile ed influenzato dai massmedia, che hanno il ruolo non solo di fornire l’informazione su determinati fenomeni, fatti ed eventi, ma anche di perpetuare gli schemi culturali e gli stereotipi con cui questi vengono rappresentati. E’ così che ai nostri occhi spesso, o meglio, a prescindere, la società e la cultura araba vengono definite come immobili e conservatrici, determinate più dalla religione che dai cambiamenti sociali, economici, politici in atto. Al contrario la nostra società e la nostra cultura vengono considerate intrinsecamente buone e giuste, per questo migliori. Un atteggiamento, il nostro, riconducibile allo scheletro di un passato modernista e a un presente cosmopolita non privo di venature tendenzialmente etnocentriche. Sotto molti aspetti, non lo si può negare, la nostra società è più equa ed evoluta in numerosi ambiti, a partire da quello legislativo e politico, ma ciò non significa che le nostre democrazie siano sempre efficienti, che le nostre leggi vengano sempre rispettate, o che si sia raggiunta effettivamente l’uguaglianza di genere. Agli occhi di noi occidentali, immersi in una società secolarizzata dove i valori che vengono esaltati e rispettati sono spesso l’individualismo, la competizione, il successo, l’apparenza, appare probabilmente incomprensibile e arretrata una società in cui i valori più importanti sono quelli pronunciati e dettati dalla religione. Così il velo che indossano le musulmane per noi non è e non può essere simbolo della volontà di manifestare un’integrità culturale e religiosa riconducibile a una tradizione fortemente sentita e condivisa (può darsi anche imposta), ma solamente una limitazione ingiusta e un mancato raggiungimento dei diritti fondamentali dell’individuo. La donna velata è vittima del fondamentalismo, ma è anche vittima di un’incomprensione culturale occidentale che non accetta e non riconosce di poter compiere valutazioni errate. L’Occidente vede la donna islamica come uno strumento nelle mani degli uomini e della religione, priva delle proprie libertà e ancorata a degli schemi culturali discriminanti, tanto quanto vuole far finta di non vedere la “velina occidentale” come il proprio oggetto di desiderio e bellezza, ancorata purtroppo anch’essa a degli schemi culturali analogamente discriminanti.”
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