I 40 anni di Bose

Una delle esperienze religiose che mi ha sempre colpito è quella del Monastero di Bose. Senza sapere questa mia preferenza, i ragazzi di 5BL da poco usciti dal Percoto mi hanno regalato l’ultimo libro di Enzo Bianchi, il priore della Comunità. Ecco che nell’ultimo numero di Jesus trovo questo pezzo di Piero Pisarra monastero_di_bose_02.jpg

C’è una frase della tradizione monastica che Enzo Bianchi ripete spesso: «Oggi io ricomincio». Il segreto di Bose è forse qui: nel mettersi in gioco quotidianamente, nel non adagiarsi, perché la vita monastica è appunto «vita», movimento, cammino. Un invito incessante alla conversione dello sguardo e del cuore. Nella sequela dell’unico necessario, Gesù il Signore. Chi tornasse dopo trent’anni in questa frazione del Comune di Magnano, sulla Serra morenica tra Ivrea e Biella, stenterebbe a riconoscere la piccola comunità in cui circolavano le parole del Concilio e la voce dello Spirito suggeriva forme nuove di presenza, una testimonianza radicale, senza compromissioni mondane. Alla cappella spoglia degli inizi e alla casa per gli ospiti si sono aggiunti una bella e grande chiesa, edifici per l’accoglienza e l’ospitalità. E tra i visitatori non passano più di mano in mano i ciclostilati dalla copertina gialla con i detti dei Padri del deserto o gli scritti della tradizione monastica, bensì i libri bianchi – e sobriamente eleganti – delle edizioni Qiqajon.

Eppure lo spirito è il medesimo: se altre comunità nate negli stessi anni sono cambiate in profondità, mettendo in cantina il carisma degli inizi, se con gli anni hanno barattato la profezia con la diplomazia, non così a Bose. Ne è prova anche l’ultima lettera agli amici per la Pentecoste di quest’anno: un invito a perseverare nella speranza, anche quando l’orizzonte è chiuso, manca il respiro e la realtà ecclesiale è dominata da «un grigiore che come nebbia autunnale sembra avvolgere e intridere tutto». Nel tempo della prova e della sofferenza, «in un’epoca appiattita sull’immediato e sull’attualità » e «che non ha più il coraggio di parlare né di perseveranza né tanto meno di eternità », i fratelli e le sorelle di Bose ricordano il télos, il fine della vita cristiana: «L’incontro con il Dio che viene». Come la sentinella di Isaia, scrutano l’orizzonte alla ricerca dei primi bagliori dell’alba e, a chi chiede quanto resti della notte, rispondono: «Viene il mattino, poi anche la notte; se volete domandare, domandate, convertitevi, venite!» (Is 21,12). Sentinelle: ecco il vero ruolo dei monaci. Uomini e donne dalla vista lunga, capaci – come la civetta che è il loro simbolo – di vedere al di là della notte. E di coniugare fedeltà e perseveranza, due virtù che, «nel tempo frantumato e senza vincoli» di oggi, «si configurano come una sfida per ogni essere umano e, in particolare, per il cristiano».

Fedeltà al Vangelo e alla tradizione monastica, alla «grande nube di testimoni» – Elia e Giovanni il Precursore, Antonio e i Padri del deserto, Pacomio e Maria, Basilio e Macrina, Benedetto e Scolastica, Francesco e Chiara e tanti altri – cui fa riferimento Enzo Bianchi nelle Tracce spirituali all’origine della Regola di Bose. E perseveranza: nelle scelte essenziali, in ciò che davvero conta, sapendosi sbarazzare dell’accessorio e di quanto ingombra il cammino. Da queste due virtù dipende anche la qualità delle relazioni e l’attenzione all’altro, la capacità di sondare i cuori e le menti. Fin dall’inizio, Enzo Bianchi dice di essere stato «abitato dalla convinzione che ogni monaco sia innanzitutto un cristiano “generato” al monachesimo dal monachesimo stesso»: non un cristiano speciale, ma un semplice laico che in fedeltà al battesimo si pone sulla scia degli ebbri di Dio e di quei primi monaci che, in reazione alla pace costantiniana, andavano nel deserto egiziano muniti di bastone e di melote, il mantello di pelle di pecora che serviva da unico indumento. Perché, come diceva Antonio il Grande, «i monaci possiedono solo due cose: le sacre Scritture e la libertà». A Bose le Sacre Scritture, studiate, indagate, meditate, sono la bussola. E la libertà, il tratto distintivo. Una libertà che si esprime nell’esercizio di un’altra virtù dimenticata, la «parresìa», il parlar chiaro e forte, senza i veli delle convenienze, delle prudenze ecclesiastiche o dell’ipocrisia. Bose è insomma la testimonianza di una vita «altra», paradossale, e di relazioni nuove: una comunità mista e interconfessionale, profezia di unità. Ma c’è un binomio che forse la caratterizza meglio di altri. È il binomio della tradizione monastica medievale di cui parla padre Jean Leclercq nel suo Amore per le lettere e desiderio di Dio, ampiamente citato da Benedetto XVI nel discorso agli intellettuali francesi il 12 settembre 2008: grammatica ed escatologia (accostamento apparentemente incongruo tra due realtà che poco hanno in comune).

Ma la «grammatica», l’amore per lo studio, il lavoro ben fatto, il rispetto delle regole, la ricerca filologicamente accurata è ciò che contraddistingue lo scriptorium di Bose: nelle molteplici traduzioni dei Padri della Chiesa o nelle altre imprese editoriali, dalle Regole monastiche d’Occidente, per Einaudi, ai testi su Maria nella collana dei Meridiani Mondadori e al Libro dei testimoni, il martirologio ecumenico pubblicato dalle edizioni San Paolo. Senza dimenticare la nuova traduzione del Salterio. E la Preghiera dei giorni che permette ai tanti amici della Comunità di celebrare le ore canoniche come parte di un monastero invisibile che dal paesino del Piemonte si estende all’intera Europa e oltre. Perché Bose è anche questo: un monastero senza mura, fatto di persone che alla Comunità guardano come a un riferimento sicuro, di amici che frequentano i corsi biblici e spirituali o che aspettano con impazienza la registrazione in cd delle nuove conferenze, le lezioni di Enzo Bianchi o di Luciano Manicardi, le letture bibliche di Sabino Chialà o di Daniel Attinger, gli interventi o le meditazioni di altri fratelli e sorelle. Un monastero che con i convegni annuali di spiritualità ortodossa getta un ponte verso l’Oriente cristiano, eliminando incomprensioni e pregiudizi nel dialogo ecumenico. In quarant’anni di esistenza, Bose ha intrecciato rapporti con numerosi monasteri occidentali, con i grandi centri spirituali dell’Ortodossia russa, ha ospitato vescovi, teologi e monaci di ogni confessione, ponendosi come luogo di uno scambio libero e fecondo. Senza cedimenti new age, senza cavalcare mode, ha proposto, nei libri del priore (ma non solo), un’arte di vivere, una saggezza dei giorni che parla al cuore anche di molti non credenti e di uomini in ricerca, musicisti e artisti di primo piano. Come il compositore estone Arvo Pärt, o il pianista Stefano Battaglia e il percussionista Michele Rabbia che a Enzo Bianchi hanno dedicato uno dei brani più belli di Pastorale (Ecm), il loro ultimo disco. E poi la pratica della lectio divina, del confronto quotidiano con le Scritture, che Bose ha contribuito a rinnovare e a diffondere in tutta la comunità cristiana.

Questo per la «grammatica». E l’escatologia? Essa è «memoria del futuro », tensione verso il non ancora, segno di un desiderio che sarà colmato nel Regno. Perché i monaci, più di altri, sanno di abitare una dimora provvisoria, in attesa della città definitiva. La loro non è fuga mundi, ma ricerca, sequela: è quaerere Deum, cercare Dio. Sovente Enzo Bianchi ricorda le parole di Evagrio, il brillante diacono che nel IV secolo da Costantinopoli scelse la via del deserto, sulle tracce dei primi anacoreti: «Monaco è colui che è separato da tutti e unito a tutti». La ricerca dell’unità in sé stessi implica questo doppio movimento: il ritrarsi in una cella e l’aprirsi alle dimensioni del mondo. Coltivare il silenzio e la solitudine come beni preziosi, amando profondamente la compagnia degli uomini. «Nella confusione dei tempi in cui niente sembrava resistere, essi volevano fare la cosa essenziale: impegnarsi per trovare ciò che vale e permane sempre, trovare la Vita stessa», ha detto Benedetto XVI degli antichi monaci. Ed è così anche per Bose. Se il nostro è tempo di nebbia, di grigiore e di torpore spirituale, su questa collina del Piemonte si gettano i semi di una stagione nuova, di un rinnovamento che non si intravede ancora, ma che verrà. Preparato silenziosamente da quanti, come i fratelli e le sorelle di Bose, testimoniano la novità del Vangelo e l’intelligenza della fede.

Rugby, sport e globalizzazione

Prendo da Linkiesta questo articolo molto interessante che fa vedere quanti interessi economici ci siano dietro i grandi eventi sportivi.

allblacks.jpg

Adidas versus Nike: il confronto si espande dai campi di calcio e atletica a quelli del rugby. I due più grandi colossi di abbigliamento sportivo del mondo – i loro fatturati messi assieme ammontano a 22 miliardi di euro – dopo essersi dati battaglia nei Giochi Olimpici e nei Mondiali di calcio, si stanno concentrando sul terzo evento sportivo del mondo per fatturato. La Coppa del mondo di rugby, che si sta disputando in Nuova Zelanda, genererà un volume d’affari stimato di 500 milioni di euro.

Il simbolo di questo nuovo fronte della guerra commerciale tra la multinazionale tedesca e quella americana sta tutto in una maglietta e, soprattutto, il suo colore. Lo scorso agosto la nazionale di rugby inglese (una delle più forti al mondo, vincitrice del Mondiale nel 2003), il cui sponsor tecnico è la Nike, ha svelato le due maglie con le quali presentarsi a sfidare il resto del mondo in Nuova Zelanda. La Federazione mondiale di rugby, per regolamento, obbliga tutte le rappresentative a presentarsi alla competizione con due modelli di maglia, una ufficiale e una di riserva. La prima divisa inglese non ha rivelato particolari novità rispetto al passato: bianca, con un motivo rosso ai fianchi che ricorda la Croce di S.Giorgio, simbolo dell’Inghilterra. Il colore della seconda maglia ha invece confermato alcune voci diffuse da alcuni mesi, che la volevano nera. Un sacrilegio, per la Nuova Zelanda. La nazionale dell’arcipelago oceanico gioca da sempre con una divisa completamente nera, tanto che il suo soprannome è All Blacks. «Pienamente coscienti del significato della maglia nera in Nuova Zelanda, ci siamo consultati con la federazione neozelandese, e ci ha risposto che non c’è alcun problema», ha spiegato la Federugby inglese in un comunicato. Per criticare la scelta cromatica, è sceso in campo niente meno che il primo ministro neozelandese, John Key: «Gli inglesi sono una banda d’invidiosi. C’è una sola squadra che porta con fierezza la divisa nera e si tratta degli All Blacks».

Dietro le strategie delle due multinazionali cercano di spartirsi il mercato globale sportivo. Se l’Adidas punta ad attaccare la statunitense Nike in casa sua, cercando di espandersi nel calcio e nel basket (di cui la marca tedesca è main sponsor dal 2007), il marchio del baffo contende a quello delle tre strisce il dominio nell’Europa dell’est (in vista dei prossimi Europei di calcio del 2012 in Polonia e Ucraina) e in Sudamerica. La Nuova Zelanda non è esclusa dalla competizione. Questo piccolo arcipelago composto da due isole è diventato un campo di battaglia senza esclusione di colpi. Cominciò tutto nel 1996. Da una anno il rugby era diventato un sport professionistico, alimentando il giro d’affari complessivo della palla ovale. Per il Mondiale del 1995 nel Sudafrica post-Apartheid gli spettatori furono 2,5 miliardi, per un totale di 150 paesi collegati per vedere la nazionale di casa vincere la Coppa, sollevata anche da Nelson Mandela. Gli introiti per i diritti televisivi furono di 50 miliardi di lire. Non vinsero quindi gli All Blacks, che però si rivelarono al grande pubblico. E alla Nike, che fu tentata di metterli sotto contratto.

Come svela il periodico americano Time, al quarto piano della sede principale della Nike a Beaverton, in Oregon, c’era nel 1996 una lavagna con i tre obiettivi futuri da centrare: la nazionale di calcio brasiliana (ovvero quella più famosa al mondo), gli All Blacks e un giovane golfista-fenomeno afroamericano di nome Tiger Woods. Con una mossa, giudicata da molti analisti a sorpresa, la Nike dopo aver incassato il sì della Federcalcio carioca, puntò tutto su Woods per un compenso record di 150 milioni di dollari, un investimento che dirottò gli All Blacks nell’orbita Adidas. Attualmente, tra Nuova Zelanda e tedeschi vige un contratto di 9 anni da 150 milioni di euro. Con una clausola, fino ad ora rispettata: la nazionale neozelandese deve vincere il 75% delle partite disputate ogni anno.

La scelta cromatica inglese, imposta dalla Nike, si inquadra quindi nel tentativo del brand a stelle e strisce di recuperare terreno nel mondo del rugby, sport nel quale si è registrato nell’ultimo decennio un trend del più 91% di sponsorizzazioni. Delle squadre che partecipano al Mondiale in corso, il baffo compare sulla squadra europea più forte assieme all’Inghilterra, la Francia. Paesi dove il rugby rappresenta un bacino d’utenza appetitoso. Il Sei Nazioni, ovvero il torneo di rugby più importante d’Europa giocato, oltre che da Francia e Inghilterra, da Galles, Scozia, Irlanda e Italia ha generato nel 2010 ricavi per 400 milioni di euro ed è stato visto da 1 miliardo di persone. L’Adidas non ha intenzione di restare ferma al palo. Tutt’altro. Vuole rilanciare, ma dopo la Coppa. L’emergente nazionale italiana, che fa parte del Sei Nazioni, avrà il contratto in scadenza con la Kappa nel 2012. E i tedeschi avrebbero tutta l’intenzione di accaparrarsi la sponsorizzazione di un movimento il cui giro d’affari sfiora i 90 milioni di euro l’anno. Un confronto di volumi d’affari che diventa impietoso, se paragonato con un’altra casa di abbigliamento sportivo: la Puma. Fondata da Rudolph Dassler, fratello di Adolf (fondatore dell’Adidas), la marca di Herzogenaurach fattura 2,5 miliardi di euro e sponsorizza al Mondiale solo l’Irlanda e la Namibia. Le mire della ‘sorellastra’ di Adidas si stanno concentrando, negli ultimi anni, nella Formula Uno. Puma sponsorizza infatti i colossi della Ferrari e dei campioni del mondo in carica della austriaca Red Bull, nel tentativo di raggiungere i 4 miliardi nel 2015. Nell’ambito della sua espansione, la Nike prevede di aumentare il proprio fatturato dai 13 miliardi di euro attuali a 19 miliardi nel 2015. Un lasso di tempo che abbraccerà gli Europei di calcio e i Giochi olimpici del 2012 e i Mondiali di calcio in Brasile del 2014. Per quanto riguarda le due competizioni calcistiche, il confronto con l’Adidas sarà serratissimo. La marca tedesca è partner ufficiale di Fifa e Uefa, per la quale disegna i palloni ufficiali e le divise degli arbitri. E il Mondiale di calcio in Sudafrica è stato vinto dalla Spagna, di cui è sponsor tecnico. Il tutto è valso alla Adidas un utile netto del +131%. Adidas ha annunciato di voler diventare brand leader della Polonia, sede dei prossimi Europei del pallone, proprio entro il 2015. E nell’aprile 2008, alla vigilia dei primi Giochi olimpici cinesi, il marchio aprì il più grande negozio monomarca sportivo del mondo nel centro di Pechino. Un’offensiva massiccia, che costa alla marca tedesca il 12% dei ricavi l’anno. La Nike, che sponsorizza grandi nazionali di calcio (Brasile, Olanda, Francia) e atletica (Usa su tutte), ha provato quest’anno a contrastarla offrendo alla nazionale di calcio tedesca, targata Adidas, un contratto da 500 milioni di euro, invano.

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: