Una testimonianza di un siriano, tratta da Il Regno

Le mani di Shadi si alzano sopra il tavolo, come due fusi che lo aiutano a tessere i suoi pensieri. E come no? La straordinaria calamita della sollevazione siriana esercita la sua attrazione su tutte le parti, muovendole verso un’unica direzione: «rivoluzione» pacifica sino alla vittoria. Shadi è un medico che completa la sua specializzazione in Europa, senza alcun precedente impegno politico o di opposizione. La sollevazione di Daraa è stata uno shock. Dopo le prime manifestazioni ha iniziato a darsi da fare su Facebook. Le voci dei suoi amici hanno preso a levarsi. Come molti, all’inizio è stato male e ha sentito di avere poche scappatoie: «Cosa faccio? Vado fuori e urlo?». La cosa è così iniziata alzando la voce per iscritto, poi è venuta la formazione di gruppi di dibattito sul social network e da lì è partita l’attività sul campo. Ora la sollevazione siriana riceve il sostegno da un numero straordinario di volontari a diversi livelli: si mettono in piedi ospedali da campo, si offrono servizi agli attendamenti di profughi in Turchia e Libano, si raccolgono fondi per cibo e medicinali, si provvede ad aiuti logistici. In aggiunta a questo, ci sono l’informazione e gli interventi continui sul social network, persino la fondazione di una corale musicale e il lancio di un’emittente radio in onda sul web. Parliamo di «rete» anche se non ha nome e indirizzo: «Una rete straordinaria», dice Shadi, che per sua richiesta chiamiamo con uno pseudonimo. Una rete aperta alla partecipazione di chiunque voglia impegnarsi nella sollevazione. Shadi la chiama «sollevazione dei tecnocrati», e spiega: «La sollevazione non sono soltanto attività umanitarie o manifestazioni di piazza, ma un movimento che si compone di mille dimensioni, irriducibili a un solo aspetto, perché ciascuno interviene con il suo apporto creativo. Quando si presenta una certa necessità specifica, si va alla ricerca di chi sappia occuparsene in collaborazione e vi si provvede». Con i suoi sforzi la «rete» è stata in grado di portare soccorso medico alle zone maggiormente esposte, «ad esempio Idlib e Homs», come spiega Shadi con un sospiro di sollievo. La situazione dei rifugiati in Turchia è cattiva, come hanno potuto constatare i volontari che l’hanno visitata: «Portiamo aiuti ai rifugiati bloccati in Turchia, paese che dovrebbe occuparsi di loro, dal momento che sono profughi. Ma ciò non avviene». Anche in Libano gli aiuti arrivano attraverso i volontari. Lì la situazione è un po’ speciale. Perché? Shadi risponde: «A causa del sistema libanese, che cerca di impiantare lì degli informatori». La questione degli informatori richiede una riflessione sul problema della sicurezza della «rete». È una storia lunga. All’inizio la stragrande maggioranza degli attivisti aveva poca esperienza: «Non avevano abilità sul piano della sicurezza». Ciò ha portato all’arresto di moltissimi ragazzi a causa delle comunicazioni telefoniche. Attraverso gli arrestati i servizi di sicurezza hanno compilato liste di nomi da perseguire. L’esperienza stessa è stata maestra e il movimento spontaneo ha iniziato a organizzarsi. È necessaria una ricognizione dei quadri degli attivisti: c’è chi è stato arrestato e poi liberato e chi invece è ancora detenuto.
Tutti sanno quanto sia pericolosa la detenzione. Ne è un esempio la morte tra le torture di Ghayath Mattar, il giovane che a Daraya, periferia di Damasco, ha avuto l’idea di affrontare le forze speciali offrendo fiori e acqua. E Yahya, amico del martire Ghayath, è detenuto dal 6 settembre. Shadi si rende perfettamente conto della gravità del pericolo: «Noi qui siamo in Europa, ma il pericolo diretto lo corrono gli attivisti sul campo. Per questo, alla fine della chat con un amico gli dici: “Sta’ bene, bada a te stesso. E te ne esci con il cuore ulcerato”». Essere arrestati è una possibilità costante, ma ciò non ferma il movimento attivista: «Ora ogni cittadino è un attivista o uno che progetta di diventarlo». Hisam, un amico di Shadi, è invece impegnato maggiormente sul fronte dell’opposizione politica. Il carattere pacifista della rivolta accomuna le voci di Shadi e Hisam, e questo carattere è per loro la «linea rossa». Sono disturbati dall’elevarsi di voci stonate che chiedono l’intervento straniero o vogliono la trasformazione armata della sollevazione, dicendo: «Perché la sollevazione deve restare pacifica?». Dice a questo proposito Shadi: «Chi invoca ciò vuole la caduta del regime solo per prenderne il posto. Quei tali useranno i fucili soltanto per imporre una nuova dittatura. Lo slittamento dalle posizioni pacifiste è respinto completamente e per ragioni ben provate: la soluzione militare comporterebbe la perdita di un gran numero di vite e gravi danni alla società, cose che fondamentalmente tornano a vantaggio del regime». La posizione matura dei due giovani insiste invece sul fatto che la soluzione poggi sulla sopportazione e sul tenersi attaccati all’orientamento pacifista. Quanto al regime, a loro avviso sta cadendo: «L’appesantirsi di questi elementi farà affondare la barca del regime, e porterà alcuni suoi membri a prenderne le distanze o a saltare sulle scialuppe di salvataggio. Il regime va a pezzi, è come un cadavere che si decompone poco a poco. Il regime siriano cadrà per la «rivoluzione» pacifista del suo grande popolo e dei suoi sacrifici cruenti senza fine».
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