Democrazia


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Ieri sera, sull’onda emotiva delle notizie che giravano in rete, stavo pensando che se i nostri politici sono il frutto di un voto democratico, inizio a nutrire seri dubbi sulla democrazia. Poi, ho cominciato a pensare che forse il problema non è tanto il sistema democratico, quanto la modalità di elezione… E stamattina, mentre facevo il periodico lavoro di epurazione dei ritagli di giornali accantonati da Natale a oggi, mi sono imbattuto in un pezzo di Olivier Roy (prof di sceinze politiche all’Istituto europeo di Fiesole) su Internazionale del 3 febbraio. Metto qui sotto un passaggio saliente, mentre qui si trova l’intero articolo.

“Per capire i cambiamenti in corso bisogna superare alcuni pregiudizi. Il primo è pensare che una società possa diventare democratica solo se è prevalentemente laica. Il secondo è che un democratico sia per definizione un progressista. Da un punto di vista storico non è stato così: i padri fondatori degli Stati Uniti non erano laici e ai loro occhi la separazione tra stato e chiesa serviva a proteggere la religione dal controllo statale, e non il contrario. La terza repubblica francese fu fondata nel 1871 da un parlamento monarchico, cattolico e conservatore, che aveva appena represso la Comune di Parigi. La democrazia cristiana si è sviluppata in Europa non perché la chiesa volesse sostenere dei valori laici, ma perché era l’unico modo per continuare a esercitare la sua influenza in politica. Infine non dimentichiamo che nell’Europa di oggi i movimenti populisti si uniscono ai democristiani per chiedere che la costituzione europea faccia riferimento all’identità cristiana del continente.

Nel mondo arabo sta succedendo qualcosa di simile. I partiti islamici criticano la laicizzazione della società, l’influenza dei valori occidentali e l’eccesso di individualismo. Un po’ dappertutto cercano di affermare la centralità della religione nell’identità nazionale e sono conservatori in tutti i campi (tranne che in economia). Il successo alle urne potrebbe spingerli – come spingerebbe qualunque partito arrivato al potere con un’ampia vittoria elettorale – a trascurare le alleanze con altri partiti e a tenere per sé, invece che distribuire in modo equo, tutti gli incarichi nell’amministrazione pubblica e nei settori sotto il controllo governativo (stampa, tv, banche, scuola). Perché i partiti islamici, che non hanno una grande cultura democratica, dovrebbero comportarsi da buoni democratici, e garantire l’alternanza e il pluralismo? Molti attivisti per la democrazia si stanno facendo la stessa domanda.

I politici dei partiti islamici non sono laici né progressisti ma possono essere democratici. La loro linea politica infatti non è determinata tanto dalle convinzioni dei dirigenti del partito quanto dai vincoli dell’ambiente che li circonda. Questi vincoli fanno sperare in una lenta istituzionalizzazione dello spazio democratico, anche se le politiche adottate non sembrano affatto progressiste. Innanzitutto i partiti islamici fanno il loro ingresso in uno spazio politico nuovo: la rivoluzione non ha sostituito la dittatura con un regime simile al precedente. Ci sono state delle elezioni, c’è un parlamento e ci sono dei nuovi partiti. Nonostante i timori e le delusioni della sinistra laica, sarà difficile annullare tutto questo, tanto più che i fattori che ne hanno permesso la creazione (una nuova generazione connessa a internet con un radicato spirito di contestazione) sono ancora presenti. I movimenti islamici agiscono in uno spazio democratico che non hanno crea­to e che è ancora legittimo agli occhi della popolazione. È interessante notare che in nessun pae­se delle rivolte arabe si è imposto il culto del capo carismatico. Al suo posto ci sono i partiti e una nuova cultura del dibattito, che ha influenzato anche i movimenti islamici.

Questo spazio democratico non è una bolla nata per caso ma la conseguenza di una profonda trasformazione della società. Non si può cambiare una società per decreto. In Iran, per esempio, tutti gli indicatori mostrano che la società è diventata più laica e moderna sotto il regime dei mullah. Anche se la legge autorizza il matrimonio di una bambina di nove anni, le statistiche indicano che l’età media delle nozze per le donne iraniane ha continuato ad aumentare e oggi supera i venticinque anni. In altre parole, non si può stabilire per decreto il ritorno a una società tradizionale.

La primavera araba non è stata scatenata da un’ideo­logia totalizzante (come in Iran nel 1978) ma dalle richieste di democrazia, pluralismo e buon governo. Le elezioni iraniane del 1979 si svolsero nel nome della repubblica islamica. E anche se non tutti erano d’accordo su come realizzarla, il messaggio era chiaro: quella era una rivoluzione ideologica, a prescindere dal suo colore (se era il rosso dei marxisti e degli islamomarxisti o il verde degli islamici).

In Egitto o in Tunisia le cose non sono andate così. Gli elettori dei partiti islamici di oggi non sono rivoluzionari ma conservatori. Vogliono tornare all’ordine, rilanciare l’economia, affermare i valori della tradizione e della religione, e non istituire un califfato o una repubblica islamica. La Fratellanza musulmana lo sa bene e non vuole inimicarsi l’elettorato, molto eterogeneo, perché ne avrà ancora bisogno. D’altro canto, le elezioni hanno conferito ai Fratelli una legittimità che possono sfruttare per resistere ai tentativi di pressione esterna.”

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