Il destino su un pianerottolo

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È il 16 ottobre del 1943. E’ il terzo giorno della festa delle Capanne, Succòt, del 5730 secondo il calendario ebraico. E’ una festa che ricorda agli ebrei i quarant’anni di deserto dopo la liberazione dalla schiavitù in Egitto. Alle 5.15 del mattino le SS invadono le strade del Portico d’Ottavia e rastrellano 1024 persone, tra cui oltre 200 bambini nel ghetto di Roma. Due giorni dopo, alle 14.05 del 18 ottobre, diciotto vagoni piombati partiranno dalla stazione Tiburtina. Dopo sei giorni arriveranno al campo di concentramento di Auschwitz in territorio polacco. Solo quindici uomini e una donna (Settimia Spizzichino) ritorneranno a casa dalla Polonia. Racconta l’ingegnere Nando Tagliacozzo: “A volte il destino si ferma su un pianerottolo, a due metri da te. Sceglie, il destino. Non bussa alla tua porta, ma a quella di fianco, dove ci sono tua sorella di otto anni e tua nonna: e le porta via, per sempre. Tu sei ad un soffio da loro, la porta accanto è quella che ti sta risparmiando l’oblio. E la parabola della tua vita si staglia in quel metro che ti separa da quella porta sullo stesso pianerottolo. E ti lascia vivere, il destino. Forse ha scelto te, in memoria di milioni di morti. Dovrai testimoniare, fino a quando avrai fiato in gola.”

Per chi vuole approfondire ecco un sito.

Una grammatica umana

“La domanda cruciale diventa: come ridire la fede nel quadro di una rottura e di un inceppamento della memoria tradizionale? Da questo punto di vista, sarebbe utile imparare dagli ebrei, che hanno saputo custodire la memoria dei padri, di generazione in generazione. Penso sia indispensabile educare a una grammatica umana, in cui si innesti la fede: un’operazione che tenga presente come i contenuti, nel messaggio cristiano, sono importanti quanto lo stile con cui vengono proposti. Ecco, dunque, la necessità di un esame di coscienza sulla nostra creatività ecclesiale, sullo stile, appunto. La Chiesa, in effetti, vive troppo su posizioni difensive, da “cittadella assediata”, e non possiede l’audacia del dialogo con l’uomo d’oggi! Occorre elaborare un’istanza narrativa, prima di una proposta morale…, perché la Chiesa deve avere maggiore fiducia nell’uomo, che è sempre immagine di Dio, anche se è non cristiano… Con un’immagine biblica, vorrei dire che noi cristiani facciamo parte di Sodoma, non siamo posizionati su di un’altura che guarda in basso la città di Sodoma!” (Enzo Bianchi)

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Alla ricerca di staminali

Un articolo preso da Sette di venerdì scorso. E’ scritto da Margherita De Bac.

“Robert Hariri era al pronto soccorso al Jamaica Hospital Cornell Trauma Center quandoplacenta_sacco_amniotico-small.jpg prese coscienza di un limite al momento invalicabile della medicina. Malgrado gli incredibili successi nel campo della riparazione dei tessuti, l’uomo era ancora lontano dal traguardo finale: poter restaurare il cervello umano lesionato da gravi traumi cerebrali. Il dottor Hariri quel giorno, di fronte all’ennesimo dramma di una giovane vittima di un incidente stradale giunto in ospedale in condizioni disperate, probabilmente destinato a un coma perpetuo, tornò a casa col morale a terra. Qualche settimana dopo, il destino lo pose di fronte a un’immagine che gli indicò chiaramente la “via”, come oggi racconta: la figurina stondata del suo nipotino nella pancia della figlia, visto attraverso un’ecografia. Sì, lui sapeva fare anche questo, il radiologo. E fu proprio mentre eseguiva quell’esame che ebbe un’illuminazione: sarebbe stata la placenta, il morbido involucro che avvolgeva il piccolo, la candidata ideale per sperare che un giorno i ragazzi caduti dalla moto o le persone colpite da ictus potessero avere una prospettiva di cura. Eccola, forse, una miniera di cellule staminali da cui trarre materiale di ricerca. Da quell’intuizione è nato un progetto scientifico culminato 15 anni fa nella creazione di una società finalizzata alla scoperta e alla produzione di cellule derivate dalla placenta. Sede a Warren, tra i boschi e le colline del New Jersey: assorbita tre anni fa dall’azienda Celgene Corporation, la multinazionale che opera nel campo delle biotecnologie con investimenti poderosi, oggi la Celgene Cellular Therapeutics è fra i maggiori centri al mondo del settore da cui si attende la risposta a molte malattie non curabili, legate alla degenerazione e alla morte dei tessuti. L’obiettivo è arrivare alla ricostruzione in laboratorio di organi da trapiantare al posto di quelli danneggiati. Un sogno, da sempre accarezzato nei laboratori, ancora lontano. Ma ci sono altre applicazioni, più vicine al malato. Già è possibile ottenere dalle staminali della placenta, ricca di proteine come il collagene e l’elastina, porzioni di pelle con cui rivestire parti del corpo ustionate e, in una fase successiva, far ricrescere il derma direttamente sul corpo dei pazienti. Non basta. Sono in fase di sperimentatone farmaci per la cura di certi tumori rari e malattie degenerative. Per la felicità di donne che aspirano a prolungare la giovinezza, arriveranno poi creme, gocce e impacchi antinvecchiamento: una linea di sviluppo che i responsabili di Celgene tendono a non enfatizzare, ritenendola marginale rispetto ai grandi progetti negli altri settori. Nella visita all’azienda, i laboratori dedicati alla cosmesi vengono mostrati quasi solo per completezza perché potrebbero sembrare niente rispetto a quello che i bioingegneri tentano nelle stanze accanto. Biomateriali rivestiti di staminali, sistemi di rivascolarizzazione e il futuristico bioprinter, la possibilità di “stampare” parti del corpo umano. Le staminali della placenta vengono ricavate con una tecnologia che consente di ottenerne di buona qualità e in quantità sufficiente per la sperimentazione clinica. Recente l’autorizzazione da parte dell’agenzia Fda (agenzia americana del farmaco) di un preparato chiamato con una sigla, Pda-001. Significa che le applicazioni delle staminali placentari potranno essere provate sull’uomo. Sono in corso sperimentazioni in fase avanzata per il trattamento di malattie immunologiche: morbo di Crohn e sclerosi multipla sono in cima alla lista delle priorità, ma c’è anche l’ischemia, nel mirino.

Abbiamo incontrato Hariri, amministratore delegato del centro, nel suo ufficio di Warren dove coordina una squadra di 200 ricercatori. Amichevole, abbronzato, sorridente e pratico grazie, probabilmente, alle sue esperienze avventurose. Origini mediorientali, un’ascendenza italiana, ex marine, pilota di jet, patologo clinico. «La placenta è il più naturale sistema di produzione di staminali» esordisce. «È un organo capace di controllare il sistema di nutrimento del feto; perché non sfruttare le sue potenzialità? Parliamo di una miniera di cellule: da una sola placenta riusciremo a ricavare 100mila dosi di farmaco. Oltretutto è un materiale inesauribile. Subito dopo il parto verrebbe gettato via. Invece noi lo raccogliamo dopo aver chiesto il consenso alle donne». Ogni anno nel New Jersey vengono utilizzate tremila placente, a costo zero. Hariri continua: «Le staminali dell’embrione sono instabili, dunque rendono difficile la produzione di farmaci. Dall’embrione si ricavano poche staminali e oltretutto in parte di scarsa qualità. Dunque dal punto di vista tecnico non sono utili. I ricercatori se ne sono resi conto. Le prime aziende che hanno investito su questo fronte hanno chiuso. La placenta è una fonte superiore che ci ha permesso di superare questi problemi». Secondo lei bisogna rinunciare agli studi sull’embrione? «È un campo interessante per la ricerca di base, ma non sul piano delle applicazioni cliniche». Dal punto di vista etico qual è il suo pensiero? «Sono cattolico, ma ragiono da uomo di scienza. Se l’embrione si fosse rivelato utile, credo che non avremmo dovuto precluderci la possibilità di sperimentare. Ma ci sono alternative più efficaci, e la placenta è uno degli esempi. Se è più facile estrarre petrolio in Texas perché andarlo a cercare in Oceania?». Una delle caratteristiche del centro è la giovane età del personale. Due edifici. Il primo per la ricerca vera e propria, il secondo per la produzione di staminali. Periodicamente vengono eseguiti test per verificare il rendimento delle squadre di ciascun reparto. Se uno solo dei “giocatori” ottiene un punteggio inferiore a quello dei compagni, l’intera équipe deve seguire un corso di addestramento. In Italia il cammino degli studi sulle cellule placentari viene seguito con interesse crescente. Il sogno è di creare un centro in stile americano anche da noi. L’azienda di Warren avrebbe identificato come sede il Policlinico Gemelli ma le parole non sono state trasformate in fatti. Stefano Portolano, nuovo vicepresidente di Celgene Europa: «Il nostro Paese deve dare segnali politici incoraggianti sia sul fronte della ricerca sia del premio all’innovazione. Dobbiamo essere competitivi, altrimenti le multinazionali si dirigeranno altrove. Si parla tanto di crescita ma è soprattutto in questo settore che bisognerebbe insistere tanto più che il nostro Paese possiede le competenze per giocarsela a livello internazionale». Da noi di cellule placentari si occupa un discreto numero di gruppi. Giulio Cossu, professore di biologia di staminali umane all’University College di Londra, non esprime giudizi: «Non ho mai lavorato su questo materiale. I ricercatori si dividono. Una parte della comunità è entusiasta. Lo scetticismo deriva dall’assenza di risultati definitivi e dal dubbio che si tratti effettivamente di cellule privilegiate dal punto di vista immunologico e dunque non esposte al rigetto. A mio parere il futuro è nelle cellule riprogrammate, cioè quelle adulte che vengono riportate a uno stato di totipotenza, alla capacità di essere progenitrici di tutti i tessuti, come le embrionali. Non dimentichiamo però che dietro allo scetticismo nei riguardi delle placentari potrebbero celarsi l’interesse di spingere verso altri campi di ricerca». Il gruppo all’avanguardia è quello coordinato da Omelia Parolini, al Centro Menni della Fondazione Poliambulanza di Brescia: «Abbiamo cominciato 10 anni fa, sperimentiamo su modelli animali le cellule della membrana amniotica, quella più interna. Abbiamo capito che queste staminali hanno una funzione rigenerativa non in quanto riparano direttamente i tessuti ma perché con un’attività antinfiammatoria e protettiva creano un ambiente favorevole alla rigenerazione. Sono dei serbatoi molto preziosi di sostanze benefiche». Ogni anno il centro bresciano raccoglie circa 400 placente donate dalle donne che partoriscono in ospedale.”

Un punto fermo

Amo le storie delle persone. Sull’inserto Letture del Corriere della Sera di ieri c’era la vicenda di Rosa Parks raccontata da Paola Capriolo: merita di essere conosciuta.

rosa parks, discriminazione, stati uniti, martin luther king“Esiste, io credo, una semplicità del bene, che è l’esatto opposto di quella «banalità del male» della quale Hannah Arendt si è servita come di una chiave di lettura per comprendere la possibilità degli orrori nazisti; e forse nessuno ha incarnato questa semplicità in modo così esemplare come Rosa Parks. Semplice, Rosa lo era di origini e di condizione: una donna «di colore», cresciuta poveramente tra i campi di cotone dell’Alabama, che si guadagnava da vivere cucendo vestiti per un grande magazzino e, dopo il lavoro, militava nelle file della Naacp, l’associazione sorta per rivendicare i diritti dei neri americani, svolgendovi con modestia la «femminile» funzione di segretaria. Una modestia connaturata, che faceva tutt’uno con la sua fierezza indomabile e che l’avrebbe portata a subire quasi controvoglia la celebrità e il ruolo di eroina nazionale. Ma semplice soprattutto, di quell’ardua eppure disarmante semplicità che è il sigillo delle vere rivoluzioni, è il gesto con cui quella signora fragile e minuta arrivò a cambiare la storia del suo Paese.

Siamo negli Stati Uniti d’America, negli anni Cinquanta del Novecento. La schiavitù è stata abolita da quasi un secolo, eppure nel Sud della nazione domina ancora la discriminazione razziale. I neri sono cittadini come tutti gli altri e hanno il diritto di voto, ma per esercitarlo devono sottoporsi a un umiliante esame o trovare un bianco disposto a «garantire» per loro; la Costituzione li proclama uguali agli altri di fronte alla legge, ma in una terra dove il linciaggio è all’ordine del giorno nessun tribunale si è mai sognato di condannare un bianco per l’assassinio di un nero; da soldati, hanno combattuto come gli altri nella Seconda guerra mondiale, ma ai caduti di colore toccavano funerali, sepolture, persino colonne dei necrologi sui giornali, rigorosamente separati da quelli dei loro commilitoni bianchi, mentre quanti riuscivano a tornare a casa venivano aggrediti e malmenati dai fanatici razzisti se osavano mostrarsi in pubblico con la divisa dell’esercito americano. Nella vita di tutti i giorni, poi, la discriminazione si traduce in un minuzioso sistema di segregazione razziale, molto simile all’apartheid sudafricano: scuole, fontane pubbliche, ospedali sono rigidamente divisi tra quelli per i bianchi e quelli per i coloured; un nero non può entrare liberamente in qualsiasi bar e farsi servire una tazza di caffè, e la legge, per evitare ogni «contaminazione», gli proibisce addirittura di provarsi un vestito in un negozio. Ma la forma di segregazione più invisa agli afroamericani è quella in vigore sui mezzi pubblici, dove le prime file sono a uso esclusivo dei bianchi, mentre i neri possono occupare le ultime file, a loro riservate, oppure quelle intermedie, ma con l’obbligo di alzarsi su ordine del conducente per cedere il posto a un membro della «razza superiore» che non trovi da sedersi altrove.

Così andavano le cose negli Stati del Sud, questo era il trattamento al quale la gente di colore doveva assoggettarsi, finché, nel pomeriggio del 1° dicembre 1955, accadde qualcosa di inaspettato. Accadde che a Montgomery, capitale dell’Alabama, una sarta quarantaduenne di nome Rosa Parks, che come ogni giorno aveva preso l’autobus per rincasare dal lavoro, alla richiesta dell’autista di lasciare a un bianco il suo posto rispondesse: «No». Una parola semplice, addirittura un monosillabo; ma fu come se dietro quel «no» si radunassero a battaglia tutte le schiere degli angeli.

L’autista, sbalordito, ripete il suo ordine, ma lei rimane seduta. «Guarda», minaccia l’uomo, «che se non ti alzi ti faccio arrestare»; e Rosa risponde tranquillamente: «Sì, lei può farlo». Molti tra coloro che la conobbero affermano che quell’umile sarta aveva qualcosa di «regale», e proprio così, con la dignità di una regina, la immagino attendere l’arrivo della polizia e compiere il penoso tragitto verso il carcere. Non poteva aspettarsi niente di diverso, dato che il suo rifiuto di alzarsi equivale a un reato per la legge dell’Alabama. Rosa però è stanca: non, come dichiarerà in seguito, per la giornata faticosa, non per i piedi gonfi e la schiena indolenzita. È stanca di arrendersi, di chinare il capo di fronte all’ingiustizia, e nei giorni successivi, proprio grazie al suo caso, tutta la popolazione nera di Montgomery scopre di essere altrettanto stanca.

Per iniziativa di un gruppo di persone coraggiose, tra le quali un pastore battista ventiseienne di nome Martin Luther King, i neri decidono dunque di organizzare un boicottaggio: sugli autobus li si tratta in quel modo? Bene, allora andranno tutti a piedi. Ha inizio così una lotta che presto richiamerà l’attenzione dell’America, anzi, del mondo, suscitando intorno alla cittadina di Montgomery una straordinaria ondata di solidarietà: una lotta alla quale Rosa, rilasciata su cauzione, partecipa in prima fila, sia nei giorni che precedono il processo, sia dopo la sentenza di condanna che, «macchiandole» la fedina, la consacra per sempre al ruolo di «madre dei diritti civili». Nonostante gli espedienti più o meno legali escogitati dalle autorità per farlo cessare, nonostante intimidazioni e violenze di ogni specie, il boicottaggio si prolunga per tredici mesi, mandando quasi in fallimento la compagnia dei trasporti, e si conclude con una vittoria clamorosa: il 13 novembre 1956, dopo un lungo e travagliato iter legale, la Corte suprema degli Stati Uniti dichiara incostituzionale la segregazione sugli autobus, primo passo di un cammino che condurrà, sia pure a prezzo di molto sangue e di molte sofferenze, alla piena integrazione razziale e che forse non sarebbe stato possibile senza il coraggio e la fermezza di una donna. Come scrisse in seguito Martin Luther King, il gesto di Rosa è «un’espressione individuale di un anelito eterno alla dignità e alle libertà umane»; a inchiodarla a quel sedile furono «il cumulo di iniquità dei giorni passati e le sconfinate aspirazioni di generazioni non ancora nate»: aspirazioni tra le quali (perché no?) poteva esserci anche quella di vedere un nero insediarsi alla Casa Bianca come presidente degli Stati Uniti d’America.

Rosa Parks non fece in tempo ad assistere a questo trionfale «lieto fine»: morì il 24 ottobre del 2005, tre anni prima dell’elezione di Obama, che da parlamentare tenne per lei un discorso commemorativo al Senato. Nel frattempo le toccò pagare caro il suo gesto, in conseguenza del quale perse il lavoro e fu bersagliata a tal punto da telefonate anonime e minacce di morte da essere costretta con il marito a cambiare città. Una vita difficile, quella dei giusti: una vita semplice in un mondo che, della semplicità, spesso non ne vuole sapere. Non credo che Rosa abbia mai pensato di aver compiuto un atto di eroismo; solo di aver fatto ciò che, in quelle circostanze, avrebbe dovuto fare chiunque. O per dirla con le sue parole: «Doveva esserci un punto d’arresto, e sembra che quello sia stato per me il punto in cui smettere di lasciarmi bistrattare e scoprire quali fossero, se mai ne avevo, i miei diritti di essere umano».”

Un osso nella gola

Mara Gergolet racconta, sul Corriere di oggi, un capitolo di storia contemporanea non molto distante dalle nostre terre: ci fa percepire quanto “fine della guerra” non significhi per forza “pacificazione”.

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“BANJA LUKA – «Non chiedo molto. Padre, lo dica lei: è vero che non vi ho chiesto molto?». Elemosinare no. Tutto si sopporta, un’unica stanza per vivere, senza acqua e senza bagno («quando piove, vado fuori con l’ombrello»), stufetta elettrica perché non c’è il camino. Ma non di essere scambiati per mendicanti. Vent’anni fa, prima di questo misero rifugio con pizzi di nylon alla finestra Marija Abdulic, 70 anni, la casa con i documenti in regola ce l’aveva. «Entrarono in sei – dice rivolta a padre Davor – in cinque minuti me ne andai». Soldati, civili? «Non voglio ricordare». Serbi. Cacciarono migliaia di croati dalle case di Banja Luka tra il ’92 e il ’93. «Se ho provato a riaverla, la casa? Ho speso tutti i soldi per gli avvocati. Ho avuto solo bugie». Ora, dice, a casa sua vive il figlio d’un amico del presidente Dodik. «Aspettano che moriamo tutti, noi vecchi. Poi nessuno più reclamerà indietro la nostra roba». E quel che non ha fatto la pulizia etnica, lo completerà il tempo.

Banja Luka, Republika Srpska. Qui, basta vedere i viali di vecchi platani, non è caduta una granata. I serbi erano maggioranza, ora questo è il capoluogo della loro entità «semiautonoma». Dei 40 mila croati ne sono rimasti tremila. E croato vuol dire cattolico. «Stiamo scomparendo, vogliono farci estinguere», dice il vescovo Franjo Komarica. Perché in un Paese che si divide non su linee religiose (nessuno mette in discussione la convivenza religiosa) ma etniche, i gruppi nazionali hanno un’origine religiosa. Komarica l’ha detto [Esplora il significato del termine: BANJA LUKA – «Non chiedo molto. Padre, lo dica lei: è vero che non vi ho chiesto molto?». Elemosinare no. Tutto si sopporta, un’unica stanza per vivere, senza acqua e senza bagno («quando piove, vado fuori con l’ombrello»), stufetta elettrica perché non c’è il camino. Ma non di essere scambiati per mendicanti. Vent’anni fa, prima di questo misero rifugio con pizzi di nylon alla finestra Marija Abdulic, 70 anni, la casa con i documenti in regola ce l’aveva. «Entrarono in sei – dice rivolta a padre Davor – in cinque minuti me ne andai». Soldati, civili? «Non voglio ricordare». Serbi. Cacciarono migliaia di croati dalle case di Banja Luka tra il ’92 e il ’93. «Se ho provato a riaverla, la casa? Ho speso tutti i soldi per gli avvocati. Ho avuto solo bugie». Ora, dice, a casa sua vive il figlio d’un amico del presidente Dodik. «Aspettano che moriamo tutti, noi vecchi. Poi nessuno più reclamerà indietro la nostra roba». E quel che non ha fatto la pulizia etnica, lo completerà il tempo. Banja Luka, Republika Srpska. Qui, basta vedere i viali di vecchi platani, non è caduta una granata. I serbi erano maggioranza, ora questo è il capoluogo della loro entità «semiautonoma». Dei 40 mila croati ne sono rimasti tremila. E croato vuol dire cattolico. «Stiamo scomparendo, vogliono farci estinguere», dice il vescovo Franjo Komarica. Perché in un Paese che si divide non su linee religiose (nessuno mette in discussione la convivenza religiosa) ma etniche, i gruppi nazionali hanno un’origine religiosa. Komarica l’ha detto ] dieci giorni fa a San Gallo, in Svizzera, alla conferenza dei vescovi europei, prima ancora all’Europarlamento, lo ripete da anni. «A noi non hanno dato una chance di sopravvivere – spiega nell’episcopato -. In questi saloni ho ricevuto delegazioni di europei, americani, la Nato. E uno, un grande nome, è sbottato: “Per noi, voi valete al massimo quanto i cavalli nelle stalle”. L’ho ringraziato: “Eccellenza, lei almeno ha detto la verità. Io non tradirò il suo nome, ma può star certo che ripeterò questa sua frase a tutti”».

È questa la grande accusa dei cattolici all’Europa del Nobel per la pace: d’aver sì imposto la fine della guerra con gli accordi di Dayton, ma fallito la pacificazione. «Dayton ha legalizzato i crimini», dice Komarica. Per Ivo Tomasevic, portavoce della Conferenza episcopale, «non c’è peggior ingiustizia di quella imposta per legge». Quegli accordi andrebbero riscritti, ma l’Ue non ci sente. La mappa etnica della Repubblica Srpska è impietosa: 152 mila cattolici prima della guerra, 11.900 adesso. Una comunità di vecchi. Per i giovani, niente lavoro né case. A Zlatan Psudka l’hanno occupata nel ’95 i profughi serbi in fuga dalla Croazia della reconquista di Tudjman. La sua famiglia ha accettato uno dei famigerati «scambi», il baratto immobiliare tra profughi, spostati nella regione come patate. Ma era una truffa: arrivati a Navir, in Croazia, hanno trovato una casetta per il weekend senza finestre, mai registrata al catasto. Da allora, 17 anni e 10 mila euro dopo, ha vinto due processi: entrambi annullati. Casi simili ce ne sono a centinaia. Darja Rakic, unico magistrato croato a Banja Luka, licenziata per far posto a una serba, lotta da 10 anni nei tribunali e giura che per riavere il posto andrà fino a Strasburgo. È in questo lento ostruzionismo dei tribunali, una «farsa istituzionalizzata», dice, che i serbi spengono i tentativi di ricostruire una comunità. «Qui combatte solo la Chiesa».

Non si capiscono i croati bosniaci senza la Chiesa. Una comunità di 440 mila persone, 358 sacerdoti e 475 francescani, 158 seminaristi, chiese piene ogni domenica. Neppure la cattolica Polonia, in percentuale, può tanto. A Banja Luka la Caritas ha restaurato tremila case, costruito una casa di riposo, creato cooperative contadine («grazie anche ad aiuti italiani, da Mantova al Trentino»). «Per i serbi – dice Komarica – siamo un osso nella gola: non possono inghiottirci, non possono sputarci». Duecento chilometri a Sud, a Sarajevo, i cattolici sono di nuovo minoranza. Stavolta tra musulmani. Trentamila durante la guerra, 10 mila adesso. (Solo in Erzegovina, al Sud, comandano loro). Ma come si fa a restare, con la disoccupazione al 44%, se per 100 euro hai il passaporto di Zagabria in tasca e l’Europa oltre il confine?

Certo, non tutti sono pessimisti. Non monsignor Franjo Tomic: «Uno vede ciò che vuol vedere». Questo prete-intellettuale, che pare uscito da Todo Modo di Sciascia, dirige Napredak, durante la guerra sfamava la gente e ospitava Christian Amanpour della Cnn . Oggi guida la più potente associazione culturale bosniaca: concerti, mostre, una squadra in serie B, dove quasi tutti sono musulmani. «Dio ci ha creati diversi», dice, e lui tra i musulmani è popolarissimo. «Qui purtroppo anche la gente religiosa guarda con occhi nazionali». Nella Sarajevo invasa dai capitali del Golfo, si aspetta sette anni il permesso per costruire un centro cattolico giovanile. Renata lavora lì. «La convivenza con i musulmani? I 18enni vi diranno: ci amiamo». Ma a 35 anni, dice, si nota che i musulmani tra loro si salutano «salam aleikum» e a te dicono «dober dan», che il supermercato BBI non vende carne di porco, che a Ramadan nei bar sparisce la birra. «Prima della guerra era tutto… normale!». Non ha paura per sé. «Ma ho una figlia di nove anni. Che destino avrà?».”

Le più belle poesie

C’è stato un periodo della mia vita, tra i 17 e i 21 anni più o meno, in cui scrivevo molto in versi, ed erano spesso parole nate dalla sofferenza, soprattutto interiore, per i momenti di solitudine, per i mancati amori, per la difficoltà a scorgere una buona strada da percorrere, per i litigi con Dio. Scrive Alda Merini

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si scrivono sopra le pietre,

coi ginocchi piagati

e le menti aguzzate dal mistero.

Le più belle poesie

si scrivono davanti

a un altare vuoto,

accerchiati da agenti

della divina follia.

Così, pazzo criminale qual sei,

tu detti versi all’umanità,

i versi della riscossa.

La storia di Gilad Shalit

Su Israele e Palestina in internet si trova di tutto. Leonard Berberi ha creato un blog con questo fine: “Offrire un’altra visione delle due realtà. Non per battaglie politiche. Ma per puro spirito giornalistico. E perché, in fondo, una notizia in più è sempre meglio di una in meno. Qui non troverete tesi precostituite. Anzi, è molto più probabile che leggiate tutto e il contrario di tutto. Esattamente com’è la vita in questo pezzo di terra bellissimo, ma travagliato”. Sul suo blog si trovano molte storie: questa è l’ultima che ha pubblicato.

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“La pazzia. C’è stato un momento in cui, ai piani alti di Gerusalemme, più di qualcuno – un anno fa – s’è chiesto se avesse senso quello scambio appena concordato con il nemico: 1.027 carcerati palestinesi da liberare in cambio di un soldato israeliano, ostaggio da più di cinque anni nella Striscia di Gaza. Un giovane che, per le sue condizioni di detenzione, poteva aver perso la testa. E chissà cos’altro.

Un anno dopo quell’elemento viene a galla. Ma stavolta a parlarne è il diretto interessato: Gilad Shalit. Il protagonista del più drammatico – e positivo – caso di rapimento sul suolo israeliano da parte dei miliziani di Hamas s’è concesso in una lunga intervista – la prima volta – per la tv Channel 10 che verrà trasmessa i prossimi giorni.

Il soldato ha raccontato molti dettagli – anticipati in parte dal quotidiano Yedioth Ahronoth ­– sulla sua prigionia. Ha detto, Gilad, che i militanti l’hanno trattato sostanzialmente bene per la maggior parte del tempo. Ma ha anche rivelato di quando, a un certo punto, ha iniziato a pensare che non sarebbe mai stato liberato. «Pensavo di fare la fine di Ron Arad, il pilota abbattuto nel 1986 con il suo jet in Libano e non ancora tornato a casa», dice il giovane 26enne. Ma «cercavo anche di essere ottimista, mi concentravo sulle piccole, belle cose che avevo lì davanti a me».

I militanti, svela Gilad nell’intervista, giocavano con lui a scacchi e domino. «Mi permettevano anche di guardare le notizie sulla tv araba. È così che ho imparato anche un po’ la loro lingua». Poi dice che gli è stato data anche una radiolina. «Così potevo sentire quello che succedeva a casa mia e in ebraico».

«Spesso ho anche riso insieme ai miei rapitori», continua il soldato. «Soprattutto quando guardavamo un film o una partita di calcio». «Una volta i miliziani sono rimasti letteralmente a bocca aperta quando un israeliano, Eran Zahavi, ha fatto gol nella partita di Champions League Hapoel Tel Aviv – O. Lione. Non potevano credere che una squadra israeliana potesse giocare in quel modo. Fu una delle cose che mi aiutarono a restare sano di mente».

Un’altra cosa che, dice, l’avrebbe aiutato a non impazzire sarebbe stato anche il suo Paese. «Ho fatto spesso schizzi sulla mia città, per non dimenticarla. Anche se ho cercato sempre di nascondere quei disegni per non indispettirli». Perché la prigionia è sempre prigionia. E tempo – e modo – di tenere un diario, di quelli buoni per farci poi un libro e un film e una serie televisiva, ecco, tempo – e modo – per quello proprio non c’era. L’unica cosa che resta, ancora, un mistero è il posto in cui è stato rinchiuso.

«All’inizio – ha ricordato Gilad – è stato difficile, ma poi ho sviluppato una sorta di routine giornaliera: mi svegliavo e andavo a dormire praticamente alle stesse ore». Così, per 1.941 giorni di fila. Fino a quando non ha toccato il suolo israeliano. Fino a quando non ha abbracciato papà e mamma, i fratelli, i nonni, gli amici. Fino a quando non ha messo piede a casa sua, a Mitzpe Hila, nell’Alta Galilea. Fino a quando non s’è addormentato nel suo letto, in quella camera – la sua – che mamma Aviva aveva lasciata intatta perché, ne era convinta, «il mio Gilad prima o poi tornerà».”

Il Concilio e la complessità

Sul Corriere della Sera di venerdì scorso ho letto questo interessante articolo di Giuseppe concilio_vaticano_2.jpgDe Rita e Luca Diotallevi sul Concilio (I pericoli e l’illusione (vinta) del Concilio). Oggi l’ho trovato in rete: eccolo qui.

“Nel cinquantesimo anniversario del Concilio ci avviamo verosimilmente verso un ulteriore momento di confronto — tutto interno al mondo cattolico — fra progressisti e conservatori, cioè fra chi considera sempre più attuale quella mobilitazione di fede collettiva che il Concilio avviò; e chi considera invece necessario un anche crudo revisionismo delle scelte conciliari. Quanto è successo alla recente morte del cardinale Martini non fa prevedere nulla di nuovo. Forse è giunto il momento di prendere atto di quanto stia diventando inutile rimestare «da dentro» l’andamento e gli esiti della svolta conciliare. Crediamo sia più giusto guardarli anche «da fuori», cercando di capirne le relazioni con l’evoluzione complessiva della società del ventesimo secolo, nella progressiva autocomprensione della Chiesa non più come societas perfecta, ma come mistero e sacramento. E da questo angolo visuale si colgono subito tre coincidenze temporali e tre insegnamenti strutturali. Ci sono anzitutto coincidenze temporali importanti, pur senza star qui a discutere su chi ha anticipato l’altro fra Chiesa e dinamica socioeconomica mondiale.

La prima riguarda la accettazione della globalizzazione. A parte le guerre mondiali e le relative conferenze di pace, all’inizio degli anni Sessanta non c’era nella cultura che si diceva moderna la consapevolezza del carattere sempre più globalizzato dei fenomeni, dei problemi, delle decisioni da affrontare; in questo deficit di cultori aver convocato un evento così improssivamente globale come il Concilio fu un atto non solo di profezia ecclesiale ma anche di collettiva e laica consapevolezza planetaria.

La seconda coincidenza riguarda il fatto che il Concilio, forse per andar contro la ferrea logica piramidale della gerarchia cattolica, si rivelò una assise segnata da una grande molteplicità di variabili e di responsabilità (socioculturali oltre che religiose); e divenne quindi una proposta forte di un modello di governo di tipo policentrico, ad architettura distribuita del potere, su cui non a caso si va misurando oggi tutta l’evoluzione degli apparati istituzionali, nazionali e internazionali.

E la terza coincidenza risiede nel fatto che, come tutte le riforme vere, il Concilio fu «slegamento dei soggetti», orientamento di cui fanno testimonianza sia quella secolarizzazione soggettiva e di massa che contraddistingue gli ultimi decenni (e che qualcuno, in sacrestia, ha addirittura addebitato al Concilio), sia una proliferante soggettività ecclesiale — anche di tipo associativo — che rende oggi articolata e ricca la quotidiana presenza della Chiesa.

Non mette conto, lo ripetiamo, star a discutere su chi è arrivato prima, fra Chiesa e società moderna, a coltivare la dimensione globale, quella policentrica e quella soggettiva del mondo in questo passaggio di secolo. Quel che importa è che, dopo tanti secoli, la Chiesa non è andata a rimorchio della cosiddetta modernità, si è misurata nel Concilio con gli stessi parametri di riferimento cui si rifanno tutti i più dinamici sistemi sociali. Ma c’è qualcosa di più delle coincidenze temporali, c’è anche una elaborazione culturale complessa che si è esercitata e si è sviluppata nel Concilio e che può essere di insegnamento per tutti i grandi soggetti storici oggi operanti nel mondo.

Il primo di tali insegnamenti è stato di sapere sviluppare un policentrismo governato (fuori dei pericoli di inerzia tipica dei sistemi a troppi poteri). Il Vaticano II è stato un grande tentativo di fare governo senza sovranità. I pastori di comunità locali che si riunivano in San Pietro, lo facevano per decidere; non per protestare né per delegare, ma per prendersi delle responsabilità su cui sapevano di possedere potere da spendere. Altrimenti non sarebbe seguito così tanto governo della Chiesa, dalla riforma della liturgia alla riforma del diritto canonico.

La seconda lezione è stata quella di avere lavorato in una logica di continuità con la grande tradizione storica della Chiesa, di «continuismo» si dovrebbe dire, se il termine non avesse assunto valenza negativa. Il Concilio scelse la via lenta e media, la via che introduce ai cambiamenti più profondi, quelli che il conservatorismo nega o rimanda, quelli che il massimalismo ingenuo o ipocrita non si sogna neppure di conseguire. Chi sceglie la riforma nella continuità scopre che con tale scelta le risposte possono arrivare prima delle domande, le soluzioni prima dei problemi. Così, anche nella Chiesa, gli sprovveduti, quando sono arrivati i problemi, li hanno interpretati come il fallimento di quelle soluzioni che invece solo allora mostravano tutto il proprio valore.

E la terza grande lezione sociopolitica (e di vera teologia politica) del Concilio sta nel superamento dell’idea che ci fosse una società perfetta, una polis ben governata, interpretata nei secoli dallo Stato e/o dalla Chiesa. Con il Concilio questa illusione di perfezione scompare ed oggi la cosa è ancor più evidente per la perdita di sovranità che colpisce tutti i soggetti istituzionali esistenti. Se non c’è più sovranità non c’è più polis, non c’è più società perfetta: c’è solo «civitas», la formazione progressiva di un’identità collettiva figlia di condivisione e non di sovrapposto disegno ideologico o confessionale. Lezione straordinaria se si vuole affrontare con cultura adeguata il pericolo di nuovi fondamentalismi, anche civili e non solo religiosi.

Riflettiamo quindi laicamente e storicamente sul Concilio, orgogliosamente consapevoli, noi cattolici, di esser portatori non solo di una fede privata, ma di una visione dal mondo che aiuta tutti a capirlo e gestirlo, in una crescente coscienza della sua complessità.”

Memoria

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“Tutti quelli che se ne vanno ti lasciano sempre addosso un po’ di sé… È questo il segreto della memoria? Se è così allora mi sento più sicura perché so… che non sarò mai sola…” (dal film La finestra di fronte).

No femminile alla sharia

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Una storia di coraggio tutta al femminile, presa dal Corriere. L’ha scritta Monica Ricci Sargentini

“Erano solo duecento ma è come se fossero state migliaia. Sì perché ci vuole coraggio per scendere in piazza a Timbuktu, una delle città nel nord del Mali finite sotto il controllo dei gruppi estremisti islamici, per protestare contro le limitazioni alle libertà imposte dai salafiti in nome dell’applicazione della sharia. Le donne hanno sfidato l’ira dei radicali manifestando contro l’obbligo a portare il velo, a girare per la città solo accompagnate dal marito o dal fidanzato, a essere frustate pubblicamente per la minima violazione di regole così rigide che impongono loro persino un coprifuoco serale. Gli islamici hanno sparato alcuni colpi in aria per disperderle. Fortunatamente non ci sono stati feriti. Timbuktu è la “città misteriosa” del Sahara, neo capitale del “nuovo Stato indipendente di Azawad”, autoproclamatosi tale nel nord del Paese. Indipendente e islamico in senso qaedista e wahhabita, per cui — a parte le considerazioni politiche — ogni deviazione dal più rigido monoteismo è “shirq”, idolatria. In un’area vasta quanto la Francia ormai si applica rigidamente la versione fondamentalista della legge islamica. Le distruzioni del patrimonio artistico, le amputazioni di mani e piedi, le lapidazioni, le fustigazioni e più di recente le esecuzioni sommarie sono fatti all’ordine del giorno denunciati in un recente rapporto di Amnesty International. Innumerevoli anche i casi di stupro di donne e il reclutamento sempre più massiccio di bambini soldato. Tutto questo sta spingendo la comunità internazionale a valutare seriamente l’ipotesi di un intervento militare per scacciare i terroristi, richiesto tra l’altro in più occasioni dal presidente ad interim maliano, Dioncounda Traorè. La Comunitá economica dei Paesi dell’Africa occidentale (Ecowas) ha già pronta una forza militare di 3.000 uomini circa, ma il Mali chiede una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Nei giorni scorsi, il Segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, ha annunciato la nomina dell’ex primo ministro Romano Prodi come inviato speciale delle Nazioni Unite nel Sahel per cercare di risolvere la complessa crisi in cui versa l’area.”

Il corriere dell’essenziale

capacità di insegnare.jpg“[…]Non esiste una professione di maggiore privilegio. Risvegliare in altro essere umano forze e sogni superiori alle proprie; indurre in altri l’amore per quello che amiamo; fare del proprio intimo presente il loro futuro; è una triplice avventura senza pari. […] È una soddisfazione incomparabile quella di essere il servitore, il corriere dell’essenziale […]”. George Steiner, La lezione dei maestri

Sulle montagne russe con loro…

Un testamento spirituale, un saluto ai fans: così è stato spesso definito il videoclip di “These are the days of our lives”, l’ultimo girato dai Queen in compagnia di un Freddie Mercury già visibilmente indebolito dall’Aids, che lo porterà alla morte da lì a sei mesi. Freddie canta di un tempo passato, quello della spensieratezza, della gioventù e della pazzia, del sole e del divertimento, con poche cose negative di cui preoccuparsi: quei giorni sono finiti, ma il ricordo vi ritorna con piacere e vorrebbe “mettere indietro le lancette dell’orologio… fermare la marea del tempo” per fare, magari, anche un semplice giro sulle montagne russe. I giorni della vita stanno finendo, ma “alcune cose restano”: le relazioni significative, i rapporti costruiti, l’amore. Quando ascolto questa canzone mi sembra di mandare indietro quelle lancette, fermare la marea, salire su un vagoncino delle montagne russe in compagnia di tutti gli amori che ho incontrato e che non sono più davanti agli occhi ma dentro il cuore.

A volte mi sento come se

fossi tornato ai vecchi tempi, molto tempo fa,

quando eravamo ragazzi, quando eravamo giovani:

tutto sembrava così perfetto, sai?

Quei giorni erano senza fine, eravamo pazzi, eravamo giovani,

il sole splendeva sempre, vivevamo solo per divertirci

A volte sembra che dopo, come dire,

il resto della mia vita sia stato solo uno spettacolo.

Quelli erano i giorni della nostra vita,

le cose negative della vita erano poche

Quei giorni sono tutti finiti ora, ma una cosa è certa:

quando ci penso e ti rivedo ti amo ancora

Non si possono mettere indietro le lancette dell’orologio,

non si può fermare la marea del tempo

Non è un peccato?

Mi piacerebbe tornare indietro almeno una volta

per fare una corsa sulle montagne russe

Quando la vita era solo un gioco

è inutile sedersi e pensare a ciò che si è fatto

quando puoi distenderti e vederlo attraverso i tuoi bambini

A volte sembra che dopo, come dire,

sia meglio sedersi e lasciarsi portare dalla corrente

Perché questi sono i giorni della nostra vita

Scivolati velocemente via col tempo

Questi giorni sono tutti finiti adesso, ma alcune cose restano

Quando ci penso e trovo che niente è cambiato

Quelli erano i giorni della nostra vita, yeah

Le cose negative della vita erano poche

Quei giorni sono tutti finiti ora, ma una cosa è ancora certa

Quando ci penso e ti rivedo, ti amo ancora

Ti amo ancora

Il capitano della mia anima

Ieri sera mi sono abbattuto sul divano e mi sono goduto il passaggio in tv del film di Clint Eastwood “Invictus”. Ne avevo sentito parlare, ma non lo avevo ancora potuto apprezzare. Lo consiglio e pubblico la poesia di William Ernest Henley che il protagonista del film, Nelson Mandela, usava per alleviare le pene e i dolori degli anni di incarcerazione dell’apartheid. E’ preferibile la traduzione di Invictus con imbattuto piuttosto che con invincibile. Nel video la sequenza della poesia in una traduzione diversa dalla sottostante.

Dal profondo della notte che mi avvolge,

Buio come il pozzo più profondo,

Ringrazio qualsiasi dio esista

Per la mia anima indomabile.

 

Nella feroce stretta delle circostanze

Non ho sussultato né ho gridato forte

Sotto i colpi d’ascia della sorte

Il mio capo è sanguinante, ma indomito.

 

Oltre questo luogo d’ira e di lacrime

Si profila il solo Orrore delle ombre

E ancora la minaccia degli anni

Mi trova, e mi troverà, senza paura.

 

Non importa quanto stretto è il passaggio,

Quanti castighi dovrò ancora sopportare,

Io sono il padrone del mio destino:

Io sono il capitano della mia anima.

Il mondo di Tim Burton

Il mondo di Tim Burton mi ha sempre affascinato e ieri ho letto questo articolo che ho salvato col proposito di metterlo sul blog. Eccolo, arriva da Avvenire e ne è autrice Alessandra De Luca.

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“E pensare che la Disney nel 1984 lo licenziò perché il suo cortometraggio live action Frankenweenie, che in 35 minuti anticipava personaggi e ambienti di tutto il suo cinema a venire, era considerato troppo dark. Sostanzialmente inadatto ai bambini. «Walt non avrebbe mai approvato…» era la tipica frase con cui bocciavano le sue idee nella Major di Topolino. Eppure i cartoon gotici di Tim Burton, da Nightmare Before Christmas a La sposa cadavere, che pure non sono adatti ai più piccoli, ai bambini piacciono per la struggente, malinconica poesia di cui sono intrisi fino all’ultimo fotogramma. Diciotto anni dopo il 54enne Burton, che nel frattempo ha abbandonato California, troppo assolata, per trasferirsi nella piovosa Londra, dove vive con la moglie Elena Bonham Carter, madre dei suoi figli, ha ripreso in mano quel ragazzino, Victor, capace di riportare in vita il cagnolino Sparky investito da una macchina per realizzare questa volta un lungometraggio di animazione a passo uno, vale a dire a pupazzi animati, in bianco e nero e in 3D. Prodotto, ironia della sorte, proprio dalla Disney e realizzato negli studi londinesi di 3 Mill da noi visitati, dove straordinari artigiani hanno ricostruito in tre teatri di posa settantacinque set in miniatura, zeppi di piccoli arredi e oggetti che danno forma alle visioni del regista, il nuovo Frankenweenie può contare su un centinaio di pupazzi, piccoli gioielli di ingegneria meccanica nati da minuziosi disegni dello stesso Burton e formati da uno scheletro di metallo che consentono anche i più piccoli movimenti. Vengono poi ricoperti da morbida gommapiuma, dipinta e rivestita di piccoli abiti e parrucche. Un secondo di film richiede anche tre giorni di lavorazione. La storia del film è ormai piuttosto nota: nel suo laboratorio in soffitta Victor ha appena scoperto come resuscitare il suo amico a quattro zampe e vorrebbe che questo rimanesse un segreto. Ma i suoi amici finiscono per scoprirlo e ognuno di loro ricrea il proprio mostriciattolo domestico che diventa però lo specchio della mostruosità dei rispettivi creatori. All’origine di tutto c’è naturalmente uno dei classici della letteratura e del cinema horror, ovvero Frankenstein. «Ero un bambino quando ho visto il film – dice Burton divertito – e i mie genitori erano molto preoccupati perché non ero affatto spaventato. Mi stava a cuore riflettere sull’idea che quello che crei può essere buono o cattivo, perché è l’emanazione della tua personalità. Sparky è l’unica creatura rinata dall’amore». E Sparky, il cui scheletro comprende una cinquantina di giunture, è stato senza dubbio il personaggio più difficile da animare.

Tra gli ambienti più affascinanti invece il cimitero degli animali e la tipica casa dei sobborghi americani con prato, piscina e barbecue. «Nella mia cittadina che ho battezzato New Holland -–spiega il regista – abbiamo ricostruito gli oppressivi sobborghi californiani degli anni Sessanta e Settanta, quelli che ho vissuto da bambino e adolescente e che continuano a ricorrere nei miei incubi, non solo cinematografici. Ambienti tutti uguali e senza stagioni, apparentemente tranquilli, ma tra quelle serene mura domestiche, tra l’erba di giardini perfetti trovano spazio emozioni violente. Ad inquietarmi sin da bambino, ed io ero un bambino piuttosto solitario, alieno e incompreso, è sempre stato il contrasto tra i luoghi e le persone, il fatto che spesso è proprio l’impeccabile tranquillità a generare mostri. Vi assicuro che a guardare la scuola di New Holland, che tanto assomiglia a quella che frequentavo a Burbank, mi vengono i brividi». Non sfugge poi una delle grande sfide del film: abbinare il modernissimo 3D a una tecnica vintage come quella della stop motion proporre al pubblico dei più giovani un film in bianco e nero. «Può sembrare una follia – ammette Burton – ma la tecnica e lo stile del film devono essere coerenti con la sua storia e questa storia non poteva che essere realizzata con i pupazzi animati. E il 3D aiuterà il pubblico a entrare con più facilità nel nostro mondo. Il bianco e nero inoltre potrebbe essere per i bambini una nuova, fantastica scoperta».”

Alla fine tornerai indietro

In alcune quarte abbiamo parlato delle NDE, le Near Death Experiences. Ho trovato un interessante articolo di Emanuela Di Pasqua sul Corriere.

“Il professor Eben Alexander era sempre stato scettico a proposito di vita ultraterrena e3407624192_5fe7e998fd.jpg dei racconti di esperienze extracorporee che gli venivano fatti dai suoi pazienti. Ma da quando nel 2008 rimase in coma sette giorni a causa di una rara forma di meningite la sua opinione è parecchio cambiata. La sua storia è finita sulla copertina di Newsweek, ma anche in un libro intitolato significativamente “Proof of Heaven” (“La prova del paradiso”, che uscirà il 23 ottobre), e racconta di un’esperienza durante la quale il medico cinquantottenne ha visitato quello che lui stesso definisce un luogo «incommensurabilmente più in alto delle nuvole, popolato di esseri trasparenti e scintillanti».

Una mattina dell’autunno del 2008 Alexander si svegliò con un feroce mal di testa e di lì a poco venne ricoverato d’urgenza in uno degli ospedali dove aveva lavorato, il Lynchburg General Hospital in Virginia. Qui gli venne diagnosticata una meningite batterica da Escherichia Coli, una patologia tipica dei neonati, che in poche ore lo condusse al coma. Per sette giorni il neurochirurgo statunitense rimase tra la vita e la morte e le frequenti TAC cerebrali e le accurate visite neurologiche dimostrarono una totale inattività della sua neocorteccia (nell’uomo rappresenta circa il 90 per cento della superficie cerebrale e viene considerata la sede delle funzioni di apprendimento, linguaggio e memoria). Ma mentre Eben Alexander giaceva immobile e privo di conoscenza, sperimentava anche un vivido e incredibile viaggio destinato a cambiare la sua esistenza. Tutto ha avuto inizio «in un mondo di nuvole bianche e rosa stagliate contro un cielo blu scuro come la notte e stormi di esseri luminosi che lasciavano dietro di sé una scia altrettanto lucente». Secondo Alexander catalogarli come uccelli o addirittura angeli non renderebbe giustizia a questi esseri che definisce forme di vita superiore. In questa dimensione, arricchita da un canto glorioso, l’udito e la vista sono diventate un tutt’uno. Come ha raccontato a Newsweek il medico americano: «potevo ascoltare la bellezza di questi esseri straordinari e contemporaneamente vedere la gioia e la perfezione di ciò che stavano cantando». Per buona parte del suo viaggio Alexander è stato accompagnato da una misteriosa ragazza bionda dagli occhi blu, che l’uomo racconta di avere incontrato per la prima volta camminando su un tappeto costituito da milioni di farfalle dai colori sgargianti. Nella memoria del neurochirurgo la giovane aveva uno sguardo che esprimeva amore assoluto, ben al di sopra di quello sperimentabile nella vita reale, e parlava con lui senza usare le parole, inviando messaggi «che gli entravano dentro come un dolce vento». Eben Alexander ne ricorda tre in particolare. Il primo era «tu sei amato e accudito», poi «non c’è niente di cui avere paura» e infine «non c’è niente che tu possa sbagliare». Ma l’accompagnatrice del medico aggiungeva anche: «Ti faremo vedere molte cose qui. Ma alla fine tornerai indietro».

Proseguendo il cammino l’autore di Proof of Heaven è infine giunto in un vuoto immenso, completamente buio, infinitamente esteso e confortevole, illuminato solo da una sfera brillante, «una sorta di interprete tra me e l’enorme presenza che mi circondava. È stato come nascere in un mondo più grande e come se l’universo stesso fosse un gigantesco utero cosmico. La sfera mi guidava attraverso questo spazio sterminato». Non si tratta certamente del primo caso di quello che gli anglosassoni chiamano Near Death Experience (esperienze ai confini della morte), ma di certo turba il fatto che a raccontarla sia un affermato docente di neurochirurgia, da sempre dichiaratosi scettico al proposito. «Mi rendo conto di quanto il mio racconto suoni straordinario, e francamente incredibile – ha dichiarato Eben Alexander -; se qualcuno, persino un medico, avesse raccontato questa storia al vecchio me stesso, sarei stato sicuro che fosse preda di illusioni. Ma quanto mi è capitato è reale quanto e più dei fatti più importanti della mia vita, come il mio matrimonio o la nascita dei miei due figli».

Già e non ancora

Per Rainews24 Pierluigi Mele intervista Mons. Bettazzi sull’anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II:

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“L’11 Ottobre è il 50° anniversario dell’inizio del Concilio Vaticano II. Quel grande evento, che cambiò la storia della Chiesa cattolica, si aprì con il famoso discorso di Papa Giovanni XXII “Gaudet Mater Ecclesia”. In quell’intervento c’è tutto il senso del Concilio voluto dal Papa. Nello stesso discorso Roncalli si rivolse anche ai «profeti di sventura», gli esponenti della Curia più avversi all’idea di celebrare un Concilio: «Nelle attuali condizioni della società umana essi non sono capaci di vedere altro che rovine e guai; vanno dicendo che i nostri tempi, se si confrontano con i secoli passati, risultano del tutto peggiori; e arrivano fino al punto di comportarsi come se non avessero nulla da imparare dalla storia, che è maestra di vita, e come se ai tempi dei precedenti Concili tutto procedesse felicemente quanto alla dottrina cristiana, alla morale, alla giusta libertà della Chiesa ». Nella stessa sera il pontefice pronunciò inoltre il celebre “Discorso alla luna”. Vogliamo ricordare questo straordinario avvenimento con un testimone importante: Monsignor Luigi Bettazzi. Bettazzi è tra le figure più significative del cattolicesimo italiano. Vescovo emerito di Ivrea, ha partecipato al Concilio Vaticano II in quanto ausiliare del Cardinale Lercaro (uno dei quattro moderatori dell’assise conciliare). Per diversi anni è stato Presidente di Pax Christi. Nel 1976 scrisse una lettera a Enrico Berlinguer, allora segretario del Pci, che fece molto discutere l’opinione pubblica italiana.

Monsignor Bettazzi, Lei, in Italia, è tra i pochissimi testimoni viventi di quel grande evento che cambiò la storia della Chiesa Cattolica. Con che spirito, dati i tempi attuali della Chiesa, vive questo cinquantenario dell’inizio del Concilio? Con nostalgia?

Un pò di nostalgia per il fervore e l’entusiasmo che c’era allora, non solo dentro all’assemblea, ma soprattutto al di fuori, e anche con grande speranza perché se è vero quello che diceva padre Congar che se il grande concilio viene completamente capito e attuato solo dopo cinquant’anni, voglio sperare che l’anno della fede susciti davvero e porti di nuovo profondamente a capire e attuare questo Concilio II.

Veniamo al Concilio. Per Papa Giovanni XXIII, il Concilio, doveva essere una “nuova Pentecoste” per la Chiesa Cattolica. A vedere, oggi, certi comportamenti della gerarchia cattolica sembra “vincente” la linea dell’allora “minoranza” conciliare (quella più conservatrice). Per Lei?

È vero che per muovere secoli di atteggiamento dominante, in cui era la posizione del papa che era un re e doveva fare il re ci vuole un po’ di tempo anche perché il decentramento, la collegialità, la collaborazione dei vescovi non è sottrarre autorità ma dare autorevolezza al governo della Chiesa. Sicuramente il 68 e 69 hanno avuto delle eccedenze che hanno la sua portato a richiudersi, lo stesso Papa Benedetto fu scosso dalle rivoluzioni della facoltà di Tubinga. Voglio sperare che queste spinte portino dopo tanta prudenza ad una nuova apertura. Vediamo se questo sinodo di ottobre e l’anno della fede sia una vera Pentecoste, come la chiamava Papa Giovanni.

Torniamo, per un attimo, a Giovanni XXIII. Nell’ultima pagina, famosa, del Giornale dell’anima affermava, rispetto alle critiche reazionarie che avevano investito la sua enciclica Pacem in terris: “non è il Vangelo che cambia, ma siamo noi che cominciamo a comprenderlo meglio”. Le chiedo: è questo il profondo dinamismo delle riforme del Concilio?

Io penso di sì, per esempio la Pacem in terris rappresenta una novità, perché per la prima volta un Papa non parla di questioni religiose rivolgendosi ai cattolici, ma di un grande valore umano, come la pace, rivolgendosi a tutti gli uomini di buona volontà. E questo poi ha spinto il concilio alla costituzione della Chiesa nel mondo contemporaneo, la Chiesa presenta i valori cristiani a tutta l‘umanità, anche a coloro che non sono cristiani, perché, pur non diventando Chiesa, continuino a camminare verso il Regno di Dio, che è il mondo che si apre ai grandi valori, di cui Dio è il sommo e che si apre agli altri; la Chiesa deve essere fermento e lievito per tutta l’umanità, perché diventi migliore. Il grande valore dell’uomo, della famiglia e di ogni famiglia, della cultura e di ogni cultura, dell’economia e di ogni economia, i valori della fede, in cui il cristiano trova il motivo in più per essere un buon cittadino, un buon essere umano, come tutti dobbiamo essere.

Il Concilio, nei suoi documenti, ha esaltato il ruolo dei laici nella Chiesa. Questo, nell’immediato post-Concilio, ha portato in Italia, con alcuni limiti, ad un grande protagonismo laicale. Oggi, pare, invece assistere, nell’ambito dei laici “impegnati”, ad una “rincorsa” a chi è più conformista nei confronti della gerarchia. E’ così?

Forse è vero che dopo tanti secoli clericali si fa fatica ad ammettere la corresponsabilità dei laici, la Chiesa richiama i principi, ma sono i laici che devono dare la loro testimonianza, la loro coerenza. Le mie diffidenze sono nate prima ancora che con la lettera a Berlinguer, con la lettera che avevo scritto al segretario della Democrazia cristiana, dopo Tangentopoli, quando il presidente della Democrazia cristiana aveva detto: “vi meravigliate che facciamo così? in politica tutti fanno così” No, allora non dire che sei cristiano: perché il cristiano deve portare in politica la traduzione della sua coerenza con il Vangelo nella onestà legalità nell’apertura nella solidarietà verso i più poveri e disagiati. Questa dovrebbe essere la testimonianza dei laici e come gerarchia dovremmo richiamarlo di più, e forse è una delle cose in cui il 50esimo del Concilio dovrebbe richiamare la priorità del popolo di Dio sulla gerarchia. Il primo testo della Chiesa era “Chiesa, gerarchia, fedeli”, i vescovi hanno voluto che fosse “Chiesa, popolo di Dio e gerarchia”.

C’è spazio, oggi nella Chiesa, per una fede “adulta”?

Credo che il richiamo a questi principi, al fatto che non sono stati profondamente attuati, voglio pensare che sia un’occasione per ripartire e attuare il concilio. Lo dice anche il Papa: La nuova evangelizzazione è l’attuazione del concilio. L’occasione credo che sia buona e che abbiamo speranza: come il concilio è arrivato all’improvviso, se ognuno nella chiesa fa quello che può, quello che deve, credo ci possa essere questo rinnovamento profondo nell’attuazione del concilio.

Laicità e principi “non negoziabili”. Alla luce del Vaticano II come si dovrebbe sviluppare il rapporto tra questi due “poli”’?

Per me il grande principio non negoziabile è la solidarietà, e dovremmo far capire che contro l’aborto e l’eutanasia sono due forme di situazioni di solidarietà nei confronti del più debole, non siamo convincenti se difendiamo la vita all’inizio e alla fine e non nel suo corso: se non siamo contro la guerra, se non cerchiamo di favorire il lavoro per i giovani, la possibilità del matrimonio perché le situazioni sono tali che li scoraggiano, la difesa della vita all’inizio e alla fine non è convincente se non è difesa nel suo corso. Il vero principio non negoziabile è la solidarietà nei confronti dei più deboli e dei più poveri.

Allora cosa resta, oggi nella Chiesa cattolica, di quello spirito rinnovatore, la “Pentecoste” appunto, che animò i Padri conciliari?

Io dico “già e non ancora”, perché è vero che se guardiamo a prima del concilio, qualcosa si è fatto, si legge di più la Parola di Dio, e anche il fatto che si discuta di queste cose, prima non se ne sarebbe certo parlato; il non ancora è che questi principi devono essere portati fino in fondo, attuati nella loro profondità, il rischio è di leggere il concilio come fosse un testo di diritto, e si sa il diritto lo si interpreta e lo si applica al minimo, ecco questo testo deve essere interpretato al massimo. Voglio sperare che questo anno della fede possa portare più speranza.”

Un’ambizione ridicola

121008Nobel_6758434.jpgA 15 anni il neo premio Nobel per la medicina John Gurdon riceveva questo giudizio dal suo professore di scienze: “E’ stato un semestre disastroso. Il suo lavoro è ben lontano dall’essere soddisfacente. Impara a fatica e i fogli dei suoi test sono mezzo strappati. In uno ha preso un 2 su un punteggio massimo di 50. Inoltre si mette nei guai perché non ascolta, e insiste a fare le cose alla sua maniera. Ho sentito che avrebbe l’idea di diventare uno scienziato: un’ambizione ridicola alla luce dei suoi voti attuali. Se non riesce ad apprendere le semplici nozioni della biologia, non avrebbe alcuna possibilità di diventare un esperto. Sarebbe una perdita di tempo, per lui e per i suoi insegnanti”. C’è molto da meditare, soprattutto per chi mostra tanta sicumera…

 

Penne al posto di armi

“Dateci penne per scrivere, prima che qualcuno metta armi nelle nostre mani”, sono parole di Malala Yousafzai, una ragazza pakistana di 14 anni ferita alla testa e al collo da alcuni talebani che l’hanno seguita, si sono accertati che fosse lei e le hanno sparato, per ucciderla. Malala da diverso tempo difende il diritto allo studio delle ragazze pakistane. Interessante il video su Rainews24.

Pc: personal cervello

Ho trovato su Avvenire questo bell’articolo di Carlo Dignola sul rapporto tra cervello e computer.

computer_cervello.jpg“Sul chip «4004» prodotto dalla Intel nel 1971 sta scritto «F.F.»: sono le iniziali di Federico Faggin. Gli esperti lo considerano il primo vero microprocessore, lo chiamano «the miracle chip» perché aprì la strada all’informatica di massa come la conosciamo oggi: fu la «creta» modellata dalle mani di ragazzi come Bill Gates. Perito elettronico e fisico vicentino, cresciuto in Olivetti, Faggin nel 1968 è stato un precoce «cervello in fuga» nella Silicon Valley, dove vive da 45 anni. Alla fine degli anni ’70 litigò con Intel e si mise in proprio creando la mitica Zilog di Cupertino, un piccolo regno di idee avanzate per l’informatica, anche molto redditizio. Con il suo gruppo ha inventato cose come il touchpad, che oggi equipaggia tutti i notebook e netbook, ed è stato tra gli sviluppatori del touchscreen. Negli anni ’80 studiava un telefono intelligente da connettere al personal computer (oggi abbiamo Skype), i primi sistemi di posta elettronica, l’interazione voce-dati a distanza (sta arrivando Siri in italiano), sensori per la fotografia digitale (con la sua Foveon). Stufo della supertecnologia, Faggin ha fondato la «Federico and Elvia Faggin Foundation» per lo studio della consapevolezza. Arrivato a 70 anni ha deciso di dedicare le sue energie a cercare di far luce su cosa sia la coscienza, non con i metodi di Platone, ma con quelli di Einstein, Turing, Popper & C. In questi giorni il grande tecnologo dell’informazione è a BergamoScienza, manifestazione che si tiene fino al 21 ottobre e che domenica accoglierà James D. Watson, lo scopritore (con Crick) del Dna.

Professor Faggin, lei ha lavorato prima sul microprocessore, il cuore del pc, poi su touchpad e touchscreen…

«Il cuore e la pelle, sì».

Ora si occupa della sua «anima».

«Di consapevolezza. Verso la metà degli anni ’80 mi ero interessato alle reti neuronali, si cominciava a capire qualcosa di come funziona il cervello umano e su quella base mi sono buttato in questa nuova direzione per cercare di realizzare un nuovo componente informatico di tipo “cognitivo”: l’idea era quella di costruire un computer che impara da solo e quindi potrebbe evolvere come un sistema vivente. Quello che conosciamo oggi non impara niente, è una macchina che, semplicemente, fa perfettamente e molto velocemente ciò che gli si dice di fare».

L’uomo è un’altra cosa.

«Noi abbiamo la capacità di captare dai sensi le regolarità dell’informazione che ci attraversa, e da queste all’interno del nostro cervello sappiamo costruire un modello della realtà. Quanto all’architettura del sistema, a come ciò possa avvenire, però, abbiamo fatto pochi passi. Io mi sono buttato in quella direzione, con le reti neuronali già si potevano realizzare certe strutture di riconoscimento di immagine e della voce che erano molto meglio dei tradizionali modi dell’intelligenza artificiale top-down, ma dopo cinque anni mi è parso chiaro che non era possibile arrivare per quella strada a costruire un sistema cognitivo».

Ed è stato conquistato da domande più filosofiche.

«Man mano che studiavo la neuroscienza mi chiedevo perché nessuno nominasse mai il problema della consapevolezza. Era come l’”elefante nella stanza”, come si dice in inglese, cioè qualcosa che è impossibile non notare, ma che nessuno voleva riconoscere. Come funzioni, che cosa sia la coscienza non lo sappiamo».

Qual è la differenza fra un computer di oggi e quel poco che riusciamo a capire del cervello? Un tipo di «processore» diverso?

«Non capiamo come il cervello rappresenti l’informazione. In un computer attuale essa è rappresentata con numeri binari che sono stivati in memoria…. Nel cervello non sappiamo neppure dove si trovi la memoria! E tanto meno che tipo di information processing avvenga. Sappiamo un po’ di cose del funzionamento di questo e di quello, ma sono pezzettini, ci manca un’idea dell’architettura del sistema. Il cervello umano sembra usare vari approcci (analogico, digitale, spaziale, temporale), ma non si capisce come siano collegati. Rimane il grosso mistero di come tutto funzioni in un sistema che, oltretutto, è in grado di svilupparsi dal bambino fino all’adulto in maniera autonoma, e persino di ripararsi da solo: qualcosa di “magico”. Tutta la nostra information technology è una stupidaggine se paragonata al cervello umano».

Non le sembra già straordinario che si cominci a balbettare questa lingua?

«Certo, abbiamo fatto grandissimi progressi che non voglio certo sminuire. Voglio dare però il senso delle proporzioni, di come la vita sia molto più avanti di quanto crediamo. Noi pensiamo che il cervello sia un computer: è certamente anche un sistema di elaborazione delle informazioni, ma non ha affatto le caratteristiche di un computer. Una volta che arrivano segnali elettrici nel cervello (così come li vediamo entrare in un computer) come questi vengono convertiti in una sensazione? Cosa significa vedere qualcosa di rosso? Questo “rosso” da dove viene? E la “forma” cos’è? Non si sa neanche dove cominciare. Siamo al buio completo».

Lei va a toccare domande che la filosofia si pone da 2.500 anni almeno.

«Certo. Oggi abbiamo un po’ più di tecnologia di quanto siamo invece sviluppati a livello psicologico, emotivo, spirituale, etico. Pensiamo di essere delle macchine: siamo anche macchine, ma non solo delle macchine. Questo è il senso profondo della mia ricerca. Però, ovviamente, viviamo in un modo scientifico e quindi asserzioni come questa devono essere provate: è il lavoro che abbiamo davanti».”

Pazienza

Interpreto le espressioni di alcuni colleghi dopo il pomeriggio di oggi 🙂

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La pazienza è l’arte di sperare (Luc de Clapiers de Vauvenargues)