Amare e lasciarti amare

Il pezzo è sicuramente più vecchio del film Moulin Rouge che l’ha riportato in auge. L’originale è di Nat King Cole, nel film canta David Bowie. Si intitola “Nature boy”.

C’era un ragazzo, un ragazzo molto strano, un sognatore

dicono che andò molto lontano, molto lontano, per terra e per mare

un po’ timido con gli occhi tristi, ma era molto saggio

e poi un giorno, un giorno magico, egli incontrò la mia strada

e mentre parlavamo di tante cose, di pazzi e di re, mi disse questo:

“La cosa più grande che tu possa imparare è amare e lasciarti amare”

Vite da donne ultraortodosse

Ho trovato su Jesus questo articolo di Barbara Schiavulli con la collaborazione di Cristiano Bendinelli. E’ molto interessante e descrive, soprattutto da un punto di vista prettamente femminile, il mondo dell’ortodossia ebraica, dell’ultraordossia, di quel mondo che sembra distante centinaia d’anni dalla nostra realtà. Buona lettura!

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“Sono voci difficile da ascoltare. Storie nascoste anche se non così lontane. L’ultimo Festival del cinema di Venezia, ha aperto uno spiraglio. Hadas Yaron ha vinto il titolo di miglior attrice, nel film israeliano Fill the void che racconta la storia di una famiglia ebrea ultraortodossa di Tel Aviv. Ci si immerge in quel mondo dove ogni decisione viene presa in base alle regole religiose. Una ragazza e la convinzione dei genitori che debba sposare il marito della sorella morta durante il parto. «Che cosa ha di speciale questo mondo? Questa mistura di gioia, dolore e tristezza che sa tenere assieme, senza scomporsi», spiega la regista Rama Burshtein. Uno spioncino su un mondo difficile da penetrare perché le donne ultraortodosse vivono separate. Lontano da sguardi indiscreti. A distanza dal rischio di poter essere anche solo sfiorate per sbaglio da un uomo. È questo il posto delle donne. In fondo agli autobus ben separate dai maschi. E anche se ancora guadagnano il 40 per cento in meno di un uomo, lavorano per mantenere la famiglia perché un buon marito possa passare la vita a studiare. Devono fare più figli possibile perché, per quanti interessi possano avere, le donne si realizzano solo procreando. Non devono parlare in pubblico, non devono cantare di fronte agli uomini. Non devono indossare jeans o abiti succinti, meglio non far uso di trucco. Non è bene che si facciano fotografare, non è bello vedere l’immagine di una donna su una pubblicità, e uomini e donne dovrebbero avere marciapiedi diversi su cui passeggiare. Devono essere sempre e soprattutto modeste. Non devono guardare gli uomini negli occhi, devono ubbidire al marito, al quale spetta l’ultima decisione. O al padre che, con la madre e l’aiuto di un rabbino specializzato combinano il loro matrimonio. Devono studiare, ma quanto basta per poter trovare un lavoro. Ragazzi e ragazze non possono leggere libri non autorizzati, non possono guardare la tv e neppure sfogliare riviste di musica.

Potrebbe sembrare il profondo Afghanistan o l’Arabia Saudita, invece è l’anima nascosta di Israele. Nel Paese dove le differenze tra uomini e donne sono bandite per legge, dove le ragazze fanno il militare, scalano le vette politiche e professionali, una parte della società – circa un milione di persone tra ortodosse e ultraortodosse – vive imprigionata dalle regole, dalla paura di integrarsi, dal desiderio di chiudersi nella propria comunità e non lasciar trapassare niente che possa scuotere le fondamenta del proprio dogmatismo. Sono gli haredim, «coloro che tremano», i «timorati di Dio». In contrasto con lo Stato che spesso non riconoscono, ma completamente dipendenti da esso per sopravvivere. Un mondo frammentato, diverso a seconda dell’opinione di chi interpreta le regole, che cambiano rispetto al quartiere o al gruppo, o alla scuola a cui si appartiene. In questo milione di persone ci sono gli ortodossi, gli ultraortodossi e gli estremisti. Ci sono quelli che non si curano di nulla se non della propria famiglia e quelli che vorrebbero che tutto quello che li circonda fosse come desiderano loro. E la visione non è sempre edificante per le donne. «Indossa una gonna lunga fino alle caviglie, una maglia con le maniche lunghe e il collo abbastanza alto, altrimenti nessuno ti parlerà. Ricordati: niente deve essere scoperto al di sotto del collo, del gomito e al di sopra del ginocchio. E fai molta attenzione, sono abbastanza aggressivi con gli estranei», mi dice il rabbino quando parcheggiamo nel cuore di Mea Shearim, un quartiere di ebrei ultraortodossi a Gerusalemme. Un cartello sovrasta un palazzone decrepito. I caratteri grandi sono in nero e in rosso: «Gli stranieri non sono i benvenuti». E poi un altro: «Le donne devono vestirsi modestamente».

Dieci anni fa Gerusalemme era una città ben divisa: la città vecchia e quella nuova, da una parte gli arabi e dall’altra gli ebrei. All’interno di quest’ultima, i confini tra israeliani moderni e gli ortodossi erano distinti. Nessuno oltrepassava le linee. Ora non è più così. Con una media di due e tre figli per i moderni, e 8 o 9 per i religiosi, questi ultimi stanno crescendo notevolmente. E si stanno allargando oltre ai confini delle loro zone. Ora non è insolito camminare per la lunga Jaffa Street e vedere turisti in canotta e pantaloncini traboccanti di sacchetti di souvenir e madri ortodosse che trascinano nugoli di bambini vestite come 300 anni fa nell’Est dell’Europa. Nessuno si guarda. Nessuno si dice niente. È come se due mondi paralleli si sfiorassero senza incontrarsi mai. Da una parte le donne che vogliono fare la differenza, e dall’altra quelle che sono contente e realizzate nel ruolo di madre e di moglie. E alcune sembrano davvero felici. Felici nel loro mondo strutturato. Molte vengono dal Canada e dagli Stati Uniti, sono figlie di immigrati o si sono sposate e hanno affrontato una nuova vita credendoci. Ma chi non riesce a inserirsi non ha scampo. «Sicuramente ci sono delle situazioni estreme, e ci sono delle persone malvagie, ma non ci sentiamo segregate, non ci sentiamo bisognose di aiuto e salvezza. Io per prima preferisco salire in fondo all’autobus perché non voglio neanche per sbaglio essere toccata da un uomo che non sia mio marito. È questione di comodità e sicurezza, mi sento più a mio agio tra donne. Potrebbero anche essere gli uomini a stare dietro e noi davanti, ma poi ci guarderebbero e neanche quello mi piacerebbe, siamo donne modeste», ci racconta Rivka Segal, 46 anni, sei figli, insegnante giunta da Baltimora sette anni fa. Ma la modestia è un modo di vestirsi o un modo di comportarsi? «Un modo di comportarsi naturalmente, ma gli uomini sono deboli e non devono essere tentati. Qui per noi la vita è molto più facile rispetto all’America, abbiamo centri sanitari per noi, negozi, luoghi di ritrovo, la gente sa come ci si deve comportare. So che ci sono stati atti di estremismo, ma non è una caratteristica della nostra comunità. Sfortunatamente veniamo giudicati dalle azioni di queste persone che hanno problemi che riguardano la polizia, non la religione». Rivka allude a quegli uomini ortodossi che solo qualche settimana prima hanno insultato e sputato addosso a una bambina religiosa di otto anni mentre andava a scuola nella cittadina di Beit Shemesh, colpevole di aver la gonna della divisa scolastica, secondo loro, troppo corta. O quei due ragazzini arrestati perché pagati da un ragazzo più grande ultraortodosso per urlare con un megafono davanti a una delle porte della città vecchia di Gerusalemme che le donne devono sedersi in fondo. O quella ragazza che in un supermercato ortodosso è andata in jeans ed è stata costretta a scappare per gli insulti. O quell’altra religiosa, trasferitasi con due bambini nel quartiere di Mahane che ha ricevuto una lettera minatoria che le intimava di andarsene perché indossava dei pantaloni, considerati immodesti, firmata dai «Guardiani della Modestia», un gruppo di facinorosi che non disdegna la violenza quando vuole ottenere qualcosa. O le decine di telefonate che arrivano ai centri antiviolenza, che spesso possono solo ascoltare, perché anche se le strade non hanno cancelli, raramente si riesce a penetrare la comunità ultraortodossa per aiutare chi lo chiede. «Noi amiamo il nostro modo di vivere, pensiamo sia il percorso giusto», dice Rivka con convinzione e con uno sguardo affascinante che neanche il suo vestito largo e l’assenza di trucco, può cancellare. «Pensiamo di dover trasmettere questo ai nostri figli, e anche se a volte le tensioni sono fortissime, noi crediamo in Dio e la sua è l’ultima parola». È americana ma sembra venire da un altro mondo. Non ha la televisione, anche se usa internet, è ragionevole e disposta a discutere, ma è ferma sulle sue idee. Le risposte alle sue domande sono nella Torah, le altre non sembrano contare.

«Il nostro stile di vita si basa sulla Torah (i primi cinque libri della Bibbia, ndr) e sulle leggi e regole ebraiche che ne discendono», ci spiega Joseph Friedman, un ricco uomo di affari ortodosso. «L’uomo comanda sulle donne, ma non è una maledizione, deve comportarsi bene e fare del suo meglio. Sfortunatamente, i movimenti di liberazione delle donne stanno creando problemi che non ci sono stati per secoli. Ora le donne lavorano, studiano, e va bene, si chiede loro solo ubbidienza. E le donne lo sanno, lo vogliono. Gli ortodossi stanno aumentando perché la gente ha bisogno di dare un significato più religioso alla vita. La religione è certezza, la logica no».

Il quartiere di Mea Shearim è molto povero. Le case sono fatiscenti, i fili elettrici sono scoperti e rincorrono le mura degli edifici. Le donne sono guardinghe ma curiose, teste coperte spuntano dalle porte, osservano gli sconosciuti, si sentono mormorii. Alcune non parlano neanche l’ebraico, ma l’antico Yiddish. Altre – quelle più giovani, spesso incinte – lo hanno imparato a scuola. Generalmente sono più istruite degli uomini, che si dedicano solo agli studi religiosi. Sarah ha 40 anni, cinque figli, un fisico minuto che si perde in un brutto vestito pesante, nonostante nell’aria ci siano non meno di 35 gradi. Indossa dei collant spessi nel suo negozio di cose per la casa. «Lavoro, bado alla casa, tiro su i miei figli, mentre mio marito studia tutto il giorno. È sua l’ultima parola per qualsiasi questione, ma discutiamo». La strada verso casa sua è un labirinto, chiama il marito che acconsente ad avere ospiti, cammina in fretta per non dare nell’occhio. Il marito Avram Rassad è gentile, quasi contento di avere degli «alieni» in casa sua, saluta la moglie con uno sguardo. Sarah ha voglia di raccontare: «Ballo, canto, esco, faccio tutto quello che fai tu, solo con le donne: non è bene che uomini e donne stiano insieme. Il mio sogno? Che i miei figli siano persone perbene. Non voglio più di quello che ho. Non ho bisogno della tv o della lavatrice. Sono soddisfatta della mia vita, è piena dei sorrisi dei miei bambini».

Non lontano c’è una libreria, sulla vetrina ci sono ancora i segni della vernice che i vandali gli hanno tirato perché vendevano anche libri di autori non religiosi, scrittori stranieri, classici vietati. Moshe Heimlich è un vicino di Sarah, vuole che conosciamo la sua famiglia che sta per andare al mare a Tel Aviv in una spiaggia rigorosamente per donne e separata da tutti gli altri. Ha cinque figli e due occhi vivaci. Ha visto sua moglie una volta sola prima di sposarla, ma si ritiene moderno perché sua figlia ha già incontrato tre volte il suo futuro marito. La loro casa è modesta, camere da letto con letti separati, pochi mobili tranne per una credenza che contiene tutti gli oggetti che servono per le varie ricorrenze e i libri rigorosamente religiosi. Nella stanza delle figlie c’è un tocco di rosa, ma niente che fa pensare al nido di ragazze adolescenti.

«A Beit Shemesh non scendere neanche dall’auto, non far vedere che avete una macchina fotografica», suggerisce il rabbino che ci accompagna. A un’ora e mezzo da Gerusalemme, tra le colline, in un paesaggio che sembra lontanissimo dalla brulicante Città Santa, sorge una cittadina moderna di più o meno 70 mila abitanti, oggi per lo più ortodossi. C’è un intollerabile silenzio. Perfino i bambini che tornano da scuola sono quieti. «Sono andata in un nuovo supermercato che si diceva avesse ottimi prezzi», racconta Sonia, una residente di Beit Shemesh. «Quando sono arrivata un dipendente mi ha passato una gonna lunga e uno scialle chiedendomi di indossarli perché avevo i pantaloni. Mi sono rifiutata». Poi ha visto un’insegna che diceva che le donne dovevano vestirsi modestamente, mentre facevano la spesa. Qui hanno aggredito una bambina di otto anni e chiesto alle donne di andare su un marciapiede diverso da quello dei maschi. Chi non è religioso in questa città è esasperato. Chi lo è, si barcamena tra il voler essere lasciato in pace e la brutta immagine che provocano gli estremisti.

Non poco tempo fa a Gerusalemme durante un congresso di ginecologia, alle donne medico non è stato consentito di parlare in pubblico. Alcuni medici per protesta hanno abbandonato l’incontro, ma il congresso è andato avanti. Aumentano le occasioni in cui donne e uomini sono divisi, ma l’hadarat nashim, la segregazione femminile, non preoccupa le religiose, anzi le stimola. Il dibattito esiste. E quelle che lavorano hanno una buona carta in mano. Non sembrano così indifese e organizzano convegni e fiere per sole donne. L’ultimo, solo qualche settimana fa, dove le donne ortodosse imprenditrici si sono incontrate e conosciute in modo da potersi aiutare nel mondo del lavoro. C’erano traduttrici, artiste, donne d’affari. La maggior parte lavora da casa, anche perché sarebbe impossibile gestire tutti i figli. «Io ne ho 16», mi dice un’orgogliosa signora sulla sessantina con una bella parrucca importante. Le donne sposate non devono mostrare i capelli ad altri uomini che non siano i rispettivi mariti. Il business delle parrucche è fiorente più che mai. «Ci sono parrucche che vanno dai 10 dollari ai 2.000, dalle sintetiche a quelle con i capelli veri, ci sono per ogni occasione», ci spiega Aline Smadja. «Di solito se ne ha una per ogni giorno e una per gli eventi». Leah Eharoni ha una ditta di traduzioni, 36 anni, sei figli: «Io lavoro a casa, mio marito lavora fuori, e penso che non siamo diversi dalle altre famiglie, vogliamo tutti la stessa cosa, stare bene, solo che per noi significa seguire un’autostrada che porta verso Dio. Ci sono tante ramificazioni, tanti percorsi, ma alla fine tutti vogliono arrivare nello stesso posto. Non vogliamo essere liberate. E c’è una gran confusione in giro. Per quel che mi riguarda, devo essere molto organizzata, tra lavoro, famiglia e me stessa, ma ce la faccio. Per molti la carriera è importante, ma prova a pensare, quando sarai vecchia che cosa ti riempirà di più: le soddisfazioni che ti ha dato la carriera o quelle dei tuoi figli?».

Leah ha le idee chiare, le hanno tutte quelle che vivono questa vita, forse è rassicurante non avere dubbi e avere tante regole. Ha vissuto in Russia, in America, ma Israele è la sua casa, perché qui nessuno la giudica. «Abbiamo bisogno di muri alti per proteggerci», pensa Leah. Come anche Marci Rapp, che ha 4 bambini che cerca di proteggere dalle influenze esterne. Produce costumi da bagno «modesti», delle specie di mute da indossare al mare. «Mio marito è un compagno, e il matrimonio è un laboratorio per sviluppare una famiglia». Ma non tutte sono felici, soddisfatte e realizzate. E per queste non c’è scampo, i muri che costruiscono per difendersi dall’esterno sono invalicabili per chi non ce la fa a stare dentro.

Elisheva (non è il suo vero nome), ha 37 anni e cinque figli. Lavora come commessa in una gioielleria e sogna di fuggire dal marito dal giorno che l’ha sposato. È bellissima con i suoi grandi occhi azzurri, la parrucca alla moda e una gonna jeans che arriva poco sotto al ginocchio. «Credevo di aver sposato un principe, invece è un incubo. Mi alzo ogni giorno alle 5, vado a lavorare alle 6.30 e lui mi perseguita, mi segue, mi controlla, dice che sono una stupida, è geloso da morire e ha mandato i miei figli a una scuola ultrareligiosa, tanto che un giorno hanno mandato a casa la mia bimba di 3 anni perché aveva le maniche corte d’estate. È orribile. Ma non posso andarmene, come manterrei da sola 5 figli? Lasciarli col padre e scappare? Non potrei mai».”

 

Hanno bisogno del cielo

Stamattina, in una quarta abbiamo cominciato a riflettere su morte e aldilà. Ho trovato questo breve ma stimolante articoletto di Claudio Rossi Marcelli su Internazionale:

“Io e mio marito siamo atei e orgogliosamente anticlericali. La conseguenza è che le stella_14.jpgnostre figlie conoscono molto meglio Garibaldi di Gesù e che non hanno ancora ben chiara la differenza tra una chiesa e un castello. E nonostante ci sia uno sciame di parenti che ancora ci implora di battezzare i nostri bambini, noi due coviamo il sogno di sbattezzarci. Certo, quello che il Vaticano va predicando sulle famiglie come la nostra non ci ha spinti ad abbracciare la fede cattolica, ma in ogni caso abbiamo una visione piuttosto razionale della realtà e crediamo che dopo la morte non ci sia nulla. E quindi, questi due atei fieri e militanti, cosa hanno risposto quando le figlie gli hanno chiesto dove vanno le persone che muoiono? Ma è ovvio: in paradiso. Diventano stelle, camminano sulle nuvole, volano libere nel blu. Anche se non le vediamo più, si può comunque parlare con loro, perché ci ascoltano. “E ci sono tante caramelle in cielo?”, certo che sì e chi più ne ha più ne metta. Insomma, quando si dice due genitori coerenti con i loro princìpi. Non so se è una reazione da codardi o perfino da irresponsabili, non sono un esperto, ma so che le mie bambine non sarebbero in grado di capire le nostre convinzioni. Hanno bisogno del cielo. E quindi metto da parte i princìpi e lascio che credano nella vita eterna. Sperando, in fondo, che alla fine abbiano ragione loro.”

Accanto alla bellezza

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La bellezza non è una cosa nella quale si possa penetrare immediatamente.

O meglio, e più precisamente, ci si può penetrare anche subito, ma dopo esserci

rimasti accanto per un po’, e dopo che nell’animo i vari elementi assimilati

progressivamente si sono composti insieme in maniera organica.

(Pavel A. Florenskij, Non dimenticatemi)

Pensando al Les

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Da quest’anno insegno anche al Les, il liceo economico sociale. Questo articolo è preso da Avvenire, è di Luigino Bruni e tratta di economia, sociale, banche…

“Mentre si continua ad annunciare e ad attendere la ripresa dall’economia “che conta”, in Italia la piccola economia sociale e civile cresce veramente. Il variegato (e ricco) mondo cooperativo, dell’impresa sociale, del privato–sociale, negli ultimi anni ha registrato significativi successi sia in termini di occupazione, sia di Pil. Secondo l’ultimo rapporto (in uscita) del Comitato economico e sociale europeo, il numero di lavoratori nell’economia sociale italiana dal 2002 al 2010 è aumentato di circa il 60%, e oggi occupa oltre 2.220.000 persone, contribuendo a circa il 10% del nostro Pil, valori tra i più alti in Europa. E non è poco, se pensiamo che la Fiat occupa, direttamente e con gli indotti, meno del 5% del totale dell’occupazione generata dall’economia sociale italiana. L’economia sociale e civile è un muro maestro dell’intera economia europea, la cui anima è ancora la cooperazione (un’anima che presto potrebbe perdere se non inverte la deriva di omologazione alle imprese capitalistiche, e ai loro livelli di remunerazione dei top manager). La cooperazione ha offerto in questi due ultimi secoli un contributo fondamentale al modello europeo di economia di mercato, che è diverso da quello statunitense o cinese anche per il peso che hanno in esso la dimensione sociale e la mutualità, espressione del principio di fraternità e delle sue radici cristiane e cattoliche. L’economia sociale, poi, oltre ai posti di lavoro crea inclusione e riduce la diseguaglianza, la malattia più grave delle nostre economie capitalistiche. La buona crescita dell’economia sociale oggi si sta, tuttavia, fermando. E questo per due principali ragioni: i tagli al welfare e l’accesso al credito. I tagli e l’inasprimento della tassazione stanno colpendo duramente l’economia sociale. Molte di queste imprese, occupandosi direttamente di beni meritori come la cura e l’inserimento lavorativo di persone svantaggiate, vivono grazie a un’alleanza complessa con famiglie, società civile, imprese e pubblica amministrazione. Il “patto di stabilità” colpisce in Italia poco o affatto i ricchi mentre rischia di essere devastante per l’economia sociale e civile, che non ha dalla sua parte i poteri forti che trattano e negoziano nei luoghi che contano. E così quando bisogna decidere dove tagliare si colpisce Lazzaro, e si lascia prosperare il “ricco epulone” con le sue rendite – continuo ad essere allibito, e in certi momenti sdegnato, per la perdurante incapacità di chi regge il timone in Italia e in Europa di capire che il vero “nemico” delle nostre economie e delle nostre società sono le rendite, non i veri imprenditori che continuano a essere trattati come potenziali evasori, mentre i rentiers ringraziano, sorridendo. C’è poi il problema del credito alle imprese, come ha ricordato con forza anche il presidente Monti. Tra queste imprese che non hanno adeguato accesso al credito, e quindi soffrono e muoiono (falliscono le imprese ma, non dimentichiamolo mai, continuano a morire anche imprenditori e lavoratori), ci sono le piccole e medie imprese e ci sono anche le imprese sociali. Queste, se misurate con i parametri di Basilea e della finanza speculativa, risultano spesso inaffidabili – anche perché questi parametri non sono stati pensati per le piccole e medie imprese, e tantomeno per le imprese sociali. Peccato che in realtà, al di là degli algoritmi, i dati veri ci dicono che queste imprese sono molto più affidabili di tante multinazionali con ottime certificazioni di bilancio, perché la vera fiducia (quella che poi viene ripagata e crea sviluppo) nasce dai territori, e la può concedere solo chi vive in essi, a contatto con la gente, e non in lontani centri decisionali di fronte agli schermi dei pc. Le Banche di credito cooperativo, e altre banche più attente alla dimensione etica e al mondo non profit, già fanno molto, ma non basta.

Occorre fare di più e meglio. Oggi il sistema bancario è troppo malato e intossicato da anni di gestione sbagliata per poter compiere le scelte giuste nel concedere credito. Troppi dirigenti bancari hanno perso il contatto con le imprese vere, con i volti della fatica e del lavoro, e quindi non sanno più distinguere le garanzie vere da quelle finte e di carta, e sbagliano continuando a non concedere credito a chi lo merita e ne ha vitale bisogno, e magari a erogarlo a chi non lo merita e produce danni. E così non crescono né le buone imprese né la buona banca. Che fare? Occorre riportare il sistema bancario alla sua funzione di interesse pubblico. Questa crisi dovrebbe produrre una riforma radicale del sistema bancario (che di fatto ancora resta quello pre–crisi). Una riforma che, oltre a fissare una chiara distinzione tra banche d’affari e banche ordinarie, dovrebbe prevedere una maggiore prossimità territoriale del processo decisionale, e, tra l’altro, far sì che nei Cda delle banche siedano rappresentanti veri della società civile, riportando così i territori nelle banche e le banche nei territori. A chi rispondono oggi i Cda delle banche? Ai soci? Ai fondi di investimento? Peccato che siano state quasi tutte “salvate” o, comunque, puntellate con soldi pubblici, cioè dei cittadini, e a questi debbono tornare prima di tutto a rispondere. Riportando i territori e la gente nelle banche, e le banche nei territori, si renderebbe efficace e concreto quel “principio di sussidiarietà” che sta alla base dei trattati politici europei e che, però, le istituzioni e i trattati finanziari stanno tradendo. La politica economico–finanziaria europea è infatti basata su una “sussidiarietà a ritroso”: le scelte si fanno a Francoforte e a Bruxelles e poi si applicano come dogmi nelle realtà nazionali e locali, operando così un ribaltamento e un tradimento grave della sussidiarietà, cui stiamo assistendo in modo troppo passivo. Per cambiare tutto ciò, e far continuare a crescere l’economia sociale, e con essa le tante buone imprese e banche territoriali che continuano a sostenere l’Italia, ci sarebbe bisogno di una forza delle idee e delle istituzioni che non si intravvedono né in Italia né in Europa. Ma possiamo e dobbiamo continuare a desiderarla, volerla, chiederla. Per ottenerla.”

La libertà del genio

In questi giorni, se a un friulano dici “Liverpool” sa di cosa parli, anche se, come tanti friulani, per l’Udinese manco tifa. Ma in settimana, da Liverpool, è anche arrivata un’altra notizia che ho letto sul Corriere l’altro giorno: “La ragazza più intelligente di Einstein”. Oggi, a commento, ho trovato questo pungente articolo di Monica Mondo su Il sussidiario.

“Confessate. Quale genitore non ha almeno una volta guardato suo figlio cercando di C_2_articolo_1063115_imagepp.jpgintravedere i segni di un’eccezionalità, anche se per pudore non si è mai ventilata la parola genio. Si comincia dalla culla: apre già gli occhi, già sorride, dice già mamma, che sguardo vivace; e all’asilo è il più sveglio, quello che impara meglio le canzoncine e ricorda i nomi di tutti gli amichetti. Le cose cominciano; si prosegue così alle elementari, dove i 9 e i 10 siglano la strada di un ragazzino speciale, e non importa se è così per tutti. Per il tuo è diverso, lui è bravo davvero. Le cose si mettono male alle medie, ma se tentenna in qualche materia è l’ambiente caotico, i professori che non lo capiscono, è troppo sensibile. Poi bisogna dargli tempo, non si matura tutti insieme… E al quarto anno di liceo, quando non ce la fai più a pagare ripetizioni e saltare le vacanze per rimediare ai suoi debiti, allora ti rassegni, sì, è intelligente ma non si applica, l’importante è che sia felice (ma lo dici perplesso, dubitando in cuor tuo che mai sia possibile, in un mondo dove già è dura se primeggi, figurarsi se sei nel mucchio o in ultima fila).

Non siamo ipocriti: piacerebbe a tutti sentirsi dire: gentilissimi, vostro figlio è superiore alla media, gradirebbe sottoporlo a una misurazione del quoziente di intelligenza? Di più: guardi, l’abbiamo fatto, livello incredibile, iscritto d’ufficio al Mensa. Che sta per tavola, in latino, cui sono invitati pochi, per un banchetto riservato. Come la Tavola Rotonda del ciclo arturiano, solo che lì non bastava essere intelligenti, toccava pure essere buoni e puri. I vantaggi di questo titolo d’onore? Non più scudiero e la stima del sovrano, ma Porte spalancate nelle più prestigiose università europee, aziende che si contendono il giovane, luminose carriere, Nobel. Piacerebbe, anche perché queste storie capitano davvero. Prendete Olivia Manning, una ragazzetta di Liverpool. Posto triste, crisi da paura, resta la squadra di calcio. Ma lei non ci gioca. Lei è la più brava a scuola, e si sgobba tutti i pomeriggi i compiti di mezza classe, mentre i pelandroni stanno alla play o fanno il filo alle sue amiche. Olivia ha solo dodici anni, anche se la fotina che ci regalano le cronache immortala un faccino più grande, nonostante il penoso fiocco a quadretti che le incornicia i capelli. Ma si sa, guardate i copricapi della regina, gli inglesi non sono mai così glamour. Fa una scuola parallela, si esercita con insegnanti appositi che lavorano solo per inventarle nuovi esercizi e aumentare le sue conoscenze. Impara troppo in fretta, praticamente legge una volta e sa. Naturale che il test sul Q.I. l’abbia brillantemente superato, attestandosi su un valore di 162 punti che, tanto per dire, è superiore di 2 a quello di Albert Einstein. Sta dunque ai primi posti, tra i 100 mila al mondo che hanno passato i test. Ed è cavaliera del Mensa Club. Poco importa se un aborigeno neozelandese applica la sua genialità nel solcare le onde col wind surf o ingegnandosi per nuove tecniche di pesca. Se un coetaneo dei bassi napoletani la esercita a tirar su il pranzo con la cena, con sfacciata baldanza; se quella bimbetta dell’Ohio potrebbe essere assunta alla Nato come antihacker, tanto è brava al computer. Loro non hanno fatto i test del Mensa, non fanno parte degli eletti. Me li immagino, gli adepti della setta degli esseri superiori, che si ritrovano a recitare versi, discettare di formule, filosofare, pianificare – speriamo di no – le sorti dell’umanità. Che ci fa con loro la piccola Olivia? Si annoia? Invidia gli amici che possono marinare la scuola e giocare a freccette sui prof? Pensa languida al compagno del primo banco che la considera troppo in alto, per farci su un pensierino? Chissà se possiamo parlare anche per lei, di “diversa abilità”. Dove l’accento va sempre sul “diverso”, per quanta attenzione mettiamo al politically correct. Può darsi che la piccola Olivia si stufi, dei fiocchi in testa e dei programmi speciali, e decida prima o poi di tatuarsi le braccia e forarsi il naso e darsi al metal; che si sforzi di sembrare più scema, per confondersi e sparire tra i tanti. Spero che i sui genitori, troppo solerti nell’accudire la sua eccezionaltà, non la condizionino. Che auspichino per lei un futuro grandioso, ma innanzitutto in felicità. Chi è intelligente può esserlo più di altri, se usa la sua ragione per comprendere il significato delle cose, per essere grato dei doni preziosi che ha ricevuto, per aiutare qualcuno. Può essere tremendamente infelice, se il suo genio lo isola o gli fa credere di essere migliore, indiscusso artefice della propria sorte. E’ in gioco la libertà: anche il genio può usarla male, e seppellire il suo talento in un prato.”

Vita per amare la vita

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Lucinda Matlock, dall’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters.

Andavo a ballare a Chandlerville,

e giocavo a carte a Winchester.

Una volta ci scambiammo i cavalieri

al ritorno in carrozza sotto la luna di giugno,

e così conobbi Davis.

Ci sposammo e vivemmo insieme settant’anni,

divertendoci, lavorando, crescendo dodici figli,

otto dei quali ci morirono,

prima che arrivassi a sessant’anni.

Filavo, tessevo, tenevo in ordine la casa, assistevo i malati,

curavo il giardino, e alla festa

andavo a zonzo per i campi dove cantavano le allodole,

e lungo lo Spoon River raccogliendo molte conchiglie,

e molti fiori ed erbe medicinali—

gridando alle colline boscose, cantando alle verdi vallate.

A novantasei anni avevo vissuto abbastanza, ecco tutto,

e passai a un dolce riposo.

Cos’è questa storia di dolori e stanchezza,

e ira, scontento e speranze cadute?

Figli e figlie degeneri,

la vita è troppo forte per voi –

ci vuole vita per amare la vita.

Orfano dell’illusione della sua disillusione

Niccolò Fabi, dolore

Ricordo ancora il giorno, due anni fa, in cui ho saputo tramite fb della morte della bimba di Niccolò Fabi. Da quel giorno ho ascoltato con più attenzione il lavoro di questo artista che apprezzavo già prima, ma a cui non avevo dedicato molto tempo. La prossima settimana esce il nuovo cd e oggi ho trovato questo articolo su Avvenire.

“Non crede più ai grandi sogni, ma alle piccole cose utili e realizzabili il Niccolò Fabi di Ecco, settimo capitolo di una carriera iniziata cantando dei propri capelli e poi trasformata dall’esperienza nel seme da cui far germogliare la pianta della condivisione e della solidarietà. Uno strumento d’indagine interiore affinato canzone dopo canzone, album dopo album, viaggio dopo viaggio in Africa, alla ricerca di valori e cose vere su cui poggiare l’esistenza senza farsi condizionare più di tanto da un progresso spesso rivolto più a «consumare cose che non ci servono e nemmeno ci piacciono» che a costruire speranze. Per lui, oggi, scrivere canzoni significa innanzitutto «partire da un pezzo di me per arrivare a qualcosa che in un modo o nell’altro possa assomigliare ad un brandello di pensiero collettivo». E in questo viaggio verso gli altri il cantautore romano, 44 anni, preferisce farsi accompagnare dalla famiglia e dalle buone letture come Le cose che non ti ho detto di Azar Nafisi o quel Molto forte, incredibilmente vicino di Jonathan Safran Foer che nel suo sorprendente finale riavvolge la pellicola del salto nel vuoto di una vittima dell’attacco alle Torri Gemelle riportandola in ufficio e poi a casa tra i tepori delle mura domestiche. Un “rewind” che lui applica alla freccia nel suo viaggio a ritroso dal ramo dell’albero all’arco impugnato sulla foto di copertina, ma in cuor suo pure alla sventura di Olivia, la figlia persa due anni fa per una malattia fulminante (cui ha dedicato la Fondazione Parole di Lulù Onlus che aiuta l’infanzia), e ai vagiti del piccolo Kim che il mese scorso è tornato a riconciliarlo in qualche modo con la vita. «Faccio un lavoro che aiuta a metabolizzare il dolore trasformandolo in qualcos’altro» spiega lui, intenzionato a presentare Ecco (sul mercato da martedì prossimo) con un giro di concerti nelle Fnac assieme a Pier Cortese e Roberto Angelini nell’attesa di varare a gennaio un nuovo tour teatrale. «Gli artisti, infatti, si cibano di gioie e dolori e non scorderò mai che la mia prima canzone l’ho scritta sulla scia di una delusione sentimentale». Verosimile è un dito puntato contro la tv del dolore, Indipendente è contro l’effimero “bisogno” di libertà che pervade la vita d’oggi. «Tutti vogliono sentirsi indipendenti, dai genitori, dalla famiglia, dal capoufficio… ma io mi domando se davvero si può essere indipendenti da tutti e da tutto se essere dipendenti da qualcuno non vuol dire amarlo ed essere amati». Tutto con sensibilità musicali che spaziano da Bon Iver a Beirut o Mogwai, le sue frequentazioni più assidue del momento. Una buona idea è un affondo sulle «ideologie perdute, le religioni evaporate, le nostre vite senza direzione e senza meta» in cui Fabi si dichiara «orfano dell’illusione della sua disillusione / di uno slancio che ci porti verso l’alto / di una cometa da seguire / di un maestro da ascoltare». Di una vita in cui è sempre più faticoso riconoscersi se non hai valori che ti possano venire in soccorso perché «quando abbracci un albero di duecento anni, le tue problematiche si ridimensionano».”

Dalla Verna all’Europa

San Francesco, il silenzio, la natura, la Verna, De Gasperi, l’Europa: tutto in questo breve articolo. Ne leggo il nome dell’autore e scopro che è una donna dal cognome “noto”. E’ Maria Romana De Gasperi, la figlia dello stesso politico di cui parla nel pezzo.

0537.jpg“A mille e cento metri, dopo aver attraversato grandi boschi, si vede alto sulla roccia il santuario de La Verna. L’uomo di oggi si può chiedere perché san Francesco avesse scelto per la sua preghiera un luogo tanto difficile da raggiungere, allora, a piedi. Era davvero necessario in un tempo già di per se stesso senza rumori se non quelli della natura stessa, delle ruote dei carri sul selciato, degli animali di cui erano abitati i boschi, andare a cercare quell’altezza per una più intensa preghiera? Noi che ci siamo costruiti una civiltà del frastuono ci sentiamo perduti di fronte al silenzio, lo fuggiamo perché non ci dà pace, ma paura. Il silenzio ci mette di fronte allo specchio della nostra anima e pretende quel tipo di verità che non siamo più abituati ad affrontare: quanto di noi sia reale, non teatro per gli altri, non costruzione di fatti sovrapposti per necessità o per convenienza. Il Convento anche nella maestosità delle sue proporzioni assunte negli anni e nella presenza di pellegrini sa offrire, come nella buona pittura, angoli e scorci di solitudine e di silenziosa preghiera. Di fronte al saio di san Francesco martoriato dall’amore di Cristo, ci sentiamo spogliati delle nostre vanità mentre i frati cantano le antiche parole del Cantico delle creature entrando nella chiesa con i piedi scalzi nei sandali che non fanno rumore. Fuori sul grande terrazzo il sole quasi acceca i nostri occhi venuti dall’ombra, cancella le case e le strade laggiù nella campagna e ci dà l’illusione di essere ancora ai tempi del santo frate quando l’orizzonte era segnato solo dai boschi e dalla linea del cielo. Faticoso rientrare nella realtà il 29 settembre quando il «Circolo verso l’Europa» ha voluto ricordare la visita di De Gasperi nel 1952 in questo luogo mettendo assieme vecchi e nuovi amici per un incontro con la storia. C’era allora un discorso non facile tra i giovani che si erano dati il nome di “Terza Generazione” e avevano fretta di cambiare e rinnovare la politica e il Presidente, che conosceva i tempi e la fatica di governare con la presenza di forti avversari e l’inevitabile equilibrio e la fede da mantenere nei confronti di un’Europa che stava appena nascendo. Eppure alla fantasia dei giovani, al loro coraggio egli aveva lasciato la costruzione di una Europa unita nelle leggi della democrazia, nella sicurezza della pace, per un nuovo ordine sociale contro il materialismo, contro le illusioni delle dittature. «Un lavoro imponente, che non potrà essere esaurito forse nel giro di una sola generazione, ma che bisogna intraprendere con coscienza e fermezza». Queste parole mi vengono alla mente quando tolgo il drappo a una lapide messa su queste mura a suo ricordo. I frati mi accompagnano con una melodia che non conosco. Una donna si asciuga le lacrime.”

Sono belle le cose

Sono belle le cose, belli i contorni degli occhi

e i contorni del rosso

gli accenti sulle a, lacrime di pagliacci

le ciglia delle dive, le bolle di sapone,

il cerchio del mondo è bello

l’ossigeno delle stelle e la poesia dei ritorni,

di emigranti e isole,

cercando l’invisibile: l’appartenenza

E’ bello il fuoco

e il sonno

e il buio petulante gola dei fantasmi

e il brodo primordiale padre nostro

che cola in questi nomi.

(Sono belle le cose, Gianmaria Testa)

Pensi troppo perché non pensi abbastanza

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In seconda stiamo facendo delle lezioni sull’importanza del senso critico. Ho trovato questo breve dialogo nel libro “Il lottatore di sumo che non diventava grosso” di Eric-Emmanuel Schmitt.

“Non pensi nella maniera giusta, Jun” sospirò un giorno Shomintsu.

“Primo perché pensi troppo, secondo perché non pensi abbastanza”.

“Non capisco. Sembrano l’uno il contrario dell’altro”.

“Pensi troppo perché tra te e il mondo frapponi il pensiero. Parli invece di osservare, proietti idee preconcette più che cogliere i fenomeni. Anzichè guardare la realtà come si presenta la vedi attraverso gli occhiali colorati che ti metti sul naso… Sei tu che impoverisci la tua percezione, perché vedi solo ciò che tu stesso ci metti: i tuoi pregiudizi”.

“D’accordo, penso troppo. Allora come puoi dire che non penso abbastanza?”.

“Non pensi abbastanza perché ripeti, rimugini e riproponi luoghi comuni, opinioni scontate che prendi per verità senza analizzarle. Come un pappagallo prigioniero di una gabbia di pregiudizi. Pensi troppo e pensi troppo poco, perché non pensi con la tua testa”.

Europa e nucleare

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Un po’ di notizie sul nucleare europeo, preso da Presseurop.

“I test di resistenza effettuati sulle centrali europee rilevano numerose falle nella sicurezza degli impianti. Già contestati dagli stati europei, i risultati pongono l’accento sulle competenze dell’Ue e saranno presentati ai capi di stato e di governo in occasione del Consiglio europeo del 18 e 19 ottobre. Il commissario europeo per l’energia Günther Oettinger presenterà il 4 ottobre i risultati dei “test di resistenza” sulla sicurezza dei 134 reattori nucleari presenti sul territorio dell’Unione europea, realizzati in seguito alla catastrofe di Fukushima del marzo 2011. I test hanno evidenziato numerose mancanze e quantificato tra i 10 e i 25 miliardi il costo dei lavori necessari alla messa in regola delle centrali del vecchio continente. Le conclusioni hanno già infiammato il dibattito all’interno degli stati Ue.

Le Monde parla di “tensione tra Parigi e Bruxelles”, dato che la Francia, primo produttore europeo di elettricità di derivazione atomica con 19 centrali e 58 reattori, è particolarmente criticata nel rapporto della Commissione: “[Il documento sottolinea che] i dispositivi di sicurezza come i gruppi elettrogeni non sono abbastanza protetti dagli elementi in caso di catastrofe naturale. […] Inoltre le centrali francesi mancano di strumenti per la misurazione sismica. […] Le autorità francesi hanno cercato di attenuare la portata delle conclusioni. […] A Parigi si guarda con sospetto al tentativo di centralizzazione del settore nucleare da parte dell’Europa, e […] le autorità temono che le conclusioni di questo lavoro riaccendano il dibattito sull’abbandono del nucleare.”

L’olandese Trouw sottolinea che la centrale di Borssele “ha fallito il test di sicurezza”: “La centrale nucleare di Borssele […] non è conforme agli standard internazionali di sicurezza per quanto riguarda il pericolo di inondazione. […] Inoltre la centrale non è sufficientemente sicura contro i terremoti.” Tuttavia “il risultato di Borssele non è così malvagio se comparato a quelli di altre centrali europee”, scrive il quotidiano riferendosi non soltanto a “una superpotenza nucleare come la Francia” ma anche alle centrali in Europa dell’est e alle quattro centrali di Finlandia e Svezia, dove il sistema di raffreddamento non è a norma e presenta “il rischio di uno scenario simile a quello di Fukushima”.

Il Belgio riceve invece i complimenti della Commissione per come ha “comunicato i problemi delle centrali di Doel e Tihange”, spiega in un’intervista a Trouw un docente universitario che ha collaborato con la Commissione. Le due centrali sono state chiuse in estate a causa delle crepe nelle cisterne di due reattori, ma il rapporto della Commissione non menzione questo problema perché “non riguarda i test”.

Il tedesco Die Welt sottolinea che “il vero scandalo è l’impotenza dell’Ue”. Il quotidiano si rammarica che l’Unione abbia impiegato per mesi un gruppo di esperti per controllare una a una le centrali del continente, quando “i fatti sono conosciuti ormai da tempo. Sarebbe stato sufficiente un’appello all’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea)”. Inoltre “il fatto che le persone incaricate dei test si siano scontrate in più occasioni con le resistenze dei governi e delle compagnie energetiche dà l’idea della reale volontà di trasparenza di alcuni stati a proposito del nucleare. In questo modo un test di resistenza si trasforma inevitabilmente in un lavoro di rabberciamento. […] Bruxelles regolamenta le banalità quotidiane fino a rasentare il ridicolo, ma non dispone delle competenze necessarie su questioni di fondamentale importanza che legano tutti gli europei, come la sicurezza delle centrali e lo smaltimento delle scorie”.”

 

Facebook e consumi

Per curiosi della rete, per chi usa fb e si chiede come mai stiano crescendo sempre più gli spot pubblicitari… Preso da Wired

facebook, pubblicià, consumi, privacyFacebook ci osserva quando facciamo acquisti. Perché? Semplicemente per sapere se le pubblicità che abbiamo visto hanno avuto effetto anche se non abbiamo cliccato sui banner. Lo ha rivelato proprio una nota del social network di Mark Zuckerberg. Per questo abbiamo raggiunto Datalogix, partner di Facebook in questa operazione, per capire come facciano ad associare i nostri acquisti al nostro profilo. Non è stato possibile intervistare un dirigente dell’azienda, ma l’ufficio stampa ci ha spiegato nei dettagli il funzionamento. Una volta tanto, dal punto di vista della privacy non c’è molto da protestare.

Datalogix è un’azienda che traccia il comportamento degli utenti analizzando i dati raccolti dalle carte fedeltà e vanta di possedere già le schede di oltre 70 milioni di famiglie americane, acquisite tramite un migliaio di rivenditori. Oltre a nome, numero di telefono e dati personali infatti buona parte di queste sono in grado di registrare quello che compriamo. Datalogix e Facebook utilizzano entrambe un metodo di hashing che codifica i dati degli utenti senza utilizzare una chiave di cifratura. Praticamente un possibile “silvio@yahoo.com” diventa ” 123456789″ per entrambi, ma non c’è modo di decodificare i dati. A quel punto Facebook prende uno alla volta i propri 123456789 e verifica se sono presenti nel campione di utenti, fornito da Datalogix, che hanno acquistato il prodotto X. Se c’è, l’utente è statisticamente buono e viene selezionato, viceversa scartato. Poi Facebook divide gli utenti selezionati in due gruppi, a seconda che questi siano stati o meno esposti alla pubblicità di X. E può quindi verificare le percentuali di quelli che poi quel prodotto l’hanno realmente acquistato, così da misurare il return on investment (Roi) per l’inserzionista. Al contempo Facebook determina il profilo delle persone che hanno acquistato X dopo essere state esposte alla sua pubblicità per n volte. L’utente ha sempre e comunque la possibilità di rifiutarsi di essere sottoposto a questo trattamento, ma per farlo deve passare dalla pagina della privacy di Datalogix e non può farlo su Facebook.

L’obiettivo del social network è affermare il principio secondo cui non contano tanto i click che gli utenti fanno sulle inserzioni pubblicitarie quanto se davvero comprano o meno i prodotti reclamizzati quando entrano in un negozio. È da qualche settimana che se ne parla, ma solo l’altro giorno nel corso di un evento durante l’ Advertising Week di New York Facebook ne ha discusso pubblicamente. Durante l’appuntamento newyorkese è stato inoltre presentato uno studio compiuto su cinquanta campagne pubblicitarie: il risultato a cui si è giunti è che il 99 per cento degli acquisti riconducibili a campagne su Facebook sono stati effettuati da persone esposte alla pubblicità, ma che non avevano cliccato sugli ad. Il privacy engineer di Facebook Joey Tyson ha spiegato in un post che grazie al sistema messo a punto l’azienda non è in grado di sapere quale utente ha realmente acquistato un prodotto perché quello che Facebook riceve da Datalogix sono solo informazioni aggregate relative a grossi gruppi di persone. E la Electronic Frontier Foundation, al solito attenta ai temi legati all’uso dei dati e alla privacy, per una volta è parsa pacatamente soddisfatta dell’approccio scelto. Ovviamente un sistema in grado di offrire all’inserzionista metriche per valutare su che tipo di target il proprio messaggio ha un miglior risultato, su quale occorre insistere e su quale basta un semplice passaggio rende Facebook una piattaforma ancora più interessante per veicolare la propria pubblicità. Secondo Brad Smallwood, responsabile misurazioni di Facebook, l’ottimizzazione delle frequenze di esposizione del messaggio pubblicitario potrebbe incrementare il Roi del 40%.

Dalla parte del cuore

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Quasi in tempo reale prendo dal profilo di Marcella su fb questo branetto:

“Oggi, un bimbo mi ha chiesto: “Ma il cuore sta sempre nello stesso posto, oppure, ogni tanto, si sposta? Va a destra e a sinistra?”.

Io: “No, il cuore resta sempre nello stesso posto. A sinistra .. “

Ed intanto penso…

..Poi, un giorno, crescerai. Ed allora capirai che il cuore vive in mille posti diversi, senza abitare, davvero, nessun… luogo. Ti sale in gola, quando sei emozionato…. O precipita… nello stomaco, quando hai paura, o sei ferito. Ci sono volte in cui accellera i suoi battiti, e sembra volerti uscire dal petto. Altre volte, invece, fa cambio col cervello. Crescendo, imparerai a prendere il tuo cuore per posarlo in altre mani. E, il più delle volte, ti tornerà indietro un po’ ammaccato. Ma tu non preoccupartene. Sarà bello uguale. O, forse, sarà più bello ancora. Questo, però, lo capirai solo dopo molto, molto tempo. Ci saranno giorni in cui crederai di non averlo più, un cuore. Di averlo perso. E ti affannerai a cercarlo in un ricordo, in un profumo, nello sguardo di un passante, nelle vecchie tasche di un cappotto malandato….non importa quando e come…l’importante è aver vissuto sempre con lui la cui unica funzione è stata quella di amare!”

[P.Mascitti]

A cavallo di un fulmine

Electric chair, old sparky, gruesome gertie, yellow mama, death chair, old smokey: sono modi di dire la condanna a morte su sedia elettrica negli Stati Uniti. C’è un gruppo musicale famoso in tutto il mondo, i Metallica, che hanno usato l’immagine di cavalcare un fulmine. Il brano è “Ride the lightning”. Si parte da un condannato che, in base alle accuse, è colpevole ed è già legato alla sedia elettrica: nell’aria aleggia la morte e non si capacita che la cosa stia succedendo a lui. Se la prende col boia o con lo stato, chiedendogli chi lo abbia reso Dio per permettergli di togliere una vita. La morte si sta avvicinando e le sensazioni sono forti e fugaci, come i pensieri, in questo percorso che segna l’inizio della fine. Il sudore è freddo, gelato, le mani fanno chiudere le dita, la morte di dipana e il condannato si trova da solo insieme alla propria coscienza. Il tempo, inesorabile, scorre in modo molto lento e il condannato naviga tra il rifiuto di morire e il desiderio che tutto si compia per essere liberato dallo spaventoso incubo. Un lampo davanti agli occhi, le fiamme nel cervello. Ride the lightning.

Colpevole secondo le accuse, ma dannazione, non è giusto

C’è qualcun altro che mi controlla

La morte nell’aria, legato alla sedia elettrica

Non è possibile che stia succedendo a me

Chi ti ha reso Dio per farti dire “Ti toglierò la vita!”?

Un lampo da vanti agli occhi è ora di morire

Bruciando nel cervello posso sentire le fiamme

Aspetto il segnale per girare l’interruttore mortale

E’ l’inizio della fine, sudore, freddo e gelato

Mentre osservo la morte spiegarsi

La coscienza la mia sola amicaTXHUNechair08.jpg

Le mie dita si stringono per la paura

Che cosa ci faccio qui?

Qualcuno mi aiuti, Oh per piacere Dio aiutami

Stanno cercando di portarsi via tutto

Non voglio morire

Il tempo scorre lento, i minuti sembrano ore

Vedo l’ultima chiamata di scena

Quanto è vero tutto ciò? Finiamola

Se è vero, facciamola finita

Svegliato dall’orrido urlo, liberato dal sogno spaventoso

Un clic sul buddhismo

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Amo fotografare. Ho trovato su Style Magazine un articolo (non molto approfondito, per la verità) su Nicholas Vreeland: in una sola persona l’amore per il buddhismo e per la fotografia. Sul sito di Vogue ho recuperato queste notizie, un po’ scarne, ma sufficienti per dare un’idea del personaggio. “Ha ereditato dalla nonna Diana Vreeland la passione per l’immagine, ma anziché rimanere nella moda, ha preferito un percorso di vita diverso: Nicholas Vreeland, nipote della celebre direttrice di Vogue America, a quindici anni muove i primi passi nel mondo della fotografia per non lasciarlo mai più. Assistente di Irving Penn e Richard Avedon, assimila dai maestri i segreti della tecnica e sviluppa una sensibilità che lo porterà nell’arco di trent’anni a realizzare alcune delle immagini più significative del misticismo orientale. Già, perché in questo arco di tempo si avvicina al buddhismo diventando prima monaco e in seguito dottore in filosofia buddista, entrando nel Monastero di Rato. Le sue immagini in bianco e nero che raccontano un mondo fatto di dedizione, silenzio e pace sono una delle testimonianze più sofisticate della sua religione”.

Qui metto uno stralcio della bella intervista rilasciata a Marie Claire.

Come fotografa un monaco?

n.-vreeland-201820_0x440.jpgA volte cerco di cogliere un istante in una fotografia, mentre altre volte aspetto che le cose si calmino. La mente si evolve molto, molto lentamente, ma penso che il mio senso di armonia si sia evoluto nel tempo. In generale dobbiamo lavorare a diventare più pazienti, tolleranti e generosi, ma non dobbiamo aspettarci immediati cambiamenti fondamentali.

I tuoi luoghi preferiti a New York e in Tibet.

A New York mi piace stare seduto sotto l’albero di Krishna in Tompkins Square Park. Lì recito le preghiere e leggo. È l’albero intorno al quale nacque, negli anni Sessanta, il movimento Hare Krishna. Anche se non sono induista e non credo in Dio questo luogo mi rende felice. In Tibet, il Jokhang, il tempio principale nel centro di Lhasa che ospita Jowo Rinpoche, la statua di Buddha più preziosa in Tibet. Nel 2003 vi accompagnai il mio maestro quando fece ridorare la statua. Ci sedemmo di fronte al Buddha e recitammo le preghiere mentre i guardiani del tempio pregando svestivano la statua e un pittore applicava l’oro. Si dice che questo Buddha giovane fu realizzato da uno scultore celeste quando il Bhudda era ancora in vita.

Come ti sei avvicinato alla moda?

Il mio rapporto con la moda è iniziato quando ho iniziato a lavorare per Irvin Penn. Avevo 15 anni. Dovevo accendere il riflettore quando Penn aveva bisogno di mettere a fuoco. Dovevo anche contare quante fotografie esattamente aveva scattato in modo da potergli dire quando il rullino era da cambiare. Poi ho lavorato anche per Richard Avedon. Caricavo le pellicole sulle macchine fotografiche, le sviluppavo, facevo i provini e lo assistevo mentre fotografava. Non ho mai lavorato come fotografo di moda. Mi interessava la fotografia in senso lato.

La fotografia può essere considerata un mezzo per elevarsi?

Tutto può essere un mezzo per elevarsi. L’importante è coltivare la nostra motivazione per ciò che facciamo e mantenerla. Lo stesso vale per il lavoro: si può essere un cameriere o lavorare in banca e avere un desiderio vero di servire gli altri e quindi di sviluppare la propria qualità interiore di amore e di altruismo verso gli altri. Al contrario si può svolgere lo stesso lavoro con orgoglio e avidità.

Qual era il tuo abbigliamento abituale prima di vestire l’abito di monaco?

Mi è sempre piaciuta l’idea di una divisa, un codice di abbigliamento che non ti costringe a pensare. Le mie scarpe sono sempre lucide e ho molto cura dei miei vestiti e dei miei oggetti in generale. Non credo sia necessariamente un riflesso dell’attaccamento alla vita terrena, ma semplicemente rispetto verso gli strumenti che ci permettono di vivere le nostre vite. Se ci prendiamo cura delle nostre scarpe dureranno più a lungo, lo stesso vale per una macchina fotografica.

Tre consigli per diventare migliori.

Lavorare per sviluppare la nostra preoccupazione per gli altri piuttosto che per noi stessi, lavorare per sviluppare l’umiltà piuttosto che l’orgoglio o l’arroganza e lavorare per sviluppare la generosità piuttosto che l’egoismo sono tre consigli spirituali che mi sento di raccomandare. Io continuo a lavorare su me stesso. Non è facile, ma i nostri sforzi porteranno felicità a coloro che ci stanno intorno così come a noi stessi.

L’erba schiacciata

Pubblico un articolo interessante di Andrea de Georgio trovato sul blog sui diritti umani gestito insieme da Corriere della Sera e Amnesty. Tratta del Mali, in particolare della zona settentrionale, e racconta la preoccupante storia di Alhader Ag Almahmoud.

“Ad Alhader Ag Almahmoud, tuareg di Ansongo, poche settimane fa è stata amputata la mali_small_map.jpgmano destra in nome della sharia. Lo ha raccontato lui stesso a Bamako il 20 settembre scorso durante un’affollata conferenza stampa di Amnesty International sulle amputazioni e le violenze che negli ultimi mesi stanno sfiancando la popolazione del nord del paese. Vestito con un’ampia tunica celeste, il volto coperto dal tradizionale turbante tuareg che normalmente lo protegge dalla sabbia e dal vento del deserto, l’uomo ha descritto nei dettagli la sua terribile disavventura mostrando, con riluttanza, il moncherino. Accusato di furto di bestiame, Alhader non è potuto scampare alla sorte che i gruppi terroristi di integralisti islamici del nord riservano ai presunti ladri. Nulla importa se, prima che la punizione fosse perpetrata, gli animali “rubati” erano stati ritrovati. Nulla importa se, con il loro ritrovamento nella foresta, l’accusa fosse decaduta.

“La sentenza era già stata emessa. Con un coltello da carne di quelli che si comprano al mercato il capo del Mujao (Movimento per la jhiad nell’Africa occidentale, ndr) mi ha tagliato la mano destra, dopo avermi avvolto il braccio in un sacchetto di plastica, per il sangue. Ci ha messo circa dieci minuti. Non ho urlato e, sebbene non mi abbiano fatto nessun tipo di anestesia, non sono svenuto. La cosa che più mi ha ferito è che prima di calare la lama sulla mia mano abbiano gridato: Allah akbar!”.

Il Mali e l’intero Sahel, nel quasi totale disinteresse dei media italiani, stanno attraversando la peggiore crisi della propria storia. Da mesi il paese è spezzato in due non più solo dall’enorme fiume Niger che ne divide da sempre la geografia. Nel gennaio scorso combattenti tuareg di ritorno dalla Libia post-gheddafi sconfitti e pesantemente armati hanno deciso di riprendere la lotta per l’indipendenza dell’Azawad (“terra del pascolo” in lingua tamashek, ossia l’ampia regione nord del Mali). Per anni abbandonati a se stessi da uno stato centrale onnivoro di fondi internazionali e per niente interessato alle dune settentrionali – e memori delle passate ribellioni finite male – i tuareg in un primo momento si sono alleati con la galassia di sigle jhiadiste e qaediste della zona (Mujao e Aqmi, Al Qaeda nel Maghreb islamico) trasformando le sabbie del Sahara nel santuario del terrorismo internazionale. L’Mnla (gruppo armato di tuareg per l’indipendenza dell’Azawad) insieme ai “barbuti” venuti da paesi limitrofi nel marzo scorso hanno conquistato le tre città-simbolo del nord, Timbouktou, Gao e Kidal, causando una vera e propria crisi politica nel paese. Amadou Toumani Touré, presidente democraticamente eletto ed emblema della stabilità nazionale è stato investito da durissime critiche per la mala gestione della questione settentrionale. Cavalcando l’onda del malcontento, il capitano Amadou Haya Sanogo nella notte fra il 21 e il 22 marzo 2012 ha preso il potere nel più classico dei colpi di stato militari africani. In poco tempo, nonostante la condanna unanime dell’atto di forza da parte della comunità internazionale, la sua giunta ha epurato le autorità e si è insediata nei posti di comando. Al nord la situazione invece che migliorare è degenerata fino alla dichiarazione da parte del Mujao e di Aqmi, sbarazzatisi nel frattempo degli scomodi e laici alleati tuareg, della sharia. Come racconta Amnesty International nel suo rapporto e Human Rights Watch : alle violenze arbitrarie contro militari e civili commesse dalla giunta al potere si sono sommate, negli ultimi mesi, quelle del nord. La lista che recita Saloum D. Traorè, direttore esecutivo di Amnesty Mali, è lunga: “Distruzioni di luoghi di culto cristiani e sufi, fra cui siti protetti dall’Unesco, divieto di ogni forma di musica, imposizione del velo integrale a tutte le donne, chiusura di scuole miste, ospedali e altri servizi sociali, arresti e omicidi sommari, bambini soldato, stupri di massa, lapidazioni. Sono almeno sette i casi accertati di amputazioni di mani e piedi, senza processo né testimoni, come invece prevedrebbe la legge coranica.”

Il Dottor Traorè è vestito con un grand bubu marrone, abito tradizionale maschile dell’Africa occidentale. Siede nel suo piccolo ufficio in una palazzina di Kalaban Kourà, quartiere periferico di Bamako che si affaccia sulla strada dell’aeroporto. Sul soffitto le pale di un vecchio e polveroso ventilatore cigolano svogliate, senza spostare né l’aria né le alte pile di scartoffie che affollano la sua scrivania. Il racconto continua. “Più di 350 mila persone dall’inizio della crisi sono scappate dai territori del nord cercando rifugio nella capitale o in paesi vicini come Niger, Burkina Faso, Mauritania e Senegal. La gente scappa anche dalla grave crisi alimentare che quest’anno sta decimando il Sahel.”

L’opinione pubblica della capitale, pur essendo un paese al 95% musulmano, condanna fermamente l’interpretazione anacronistica e radicale dei gruppi salafiti, rigettando la sharia e aspettando che l’esercito nazionale e la Cedeao (la Comunità economica degli stati dell’Africa occidentale) intervengano militarmente per liberare il nord e ristabilire l’integrità nazionale. Un intervento che, però, nasconde anche grandi interessi geopolitici e petroliferi di potenze mondiali quali Francia, Usa, Qatar e Algeria. Nell’attesa è la popolazione civile, come sempre, a soffrire. Come dice un proverbio africano: “quando gli elefanti combattono è sempre l’erba a rimanere schiacciata” .”

La storia e la memoria

Qualche anno fa, nelle quinte, in occasione dell’anniversario del 27 gennaio mostravo il Shlomo Venezia _2_.jpgfilm Gli ultimi giorni. Uno dei motivi per cui avevo scelto quel film era che metteva in risalto l’importanza della memoria. Uno dei più infaticabili trasmettitori di tale memoria è stato senza dubbio Shlomo Venezia, scomparso da poche ore. Lo storico Bidussa, su Linkiesta, riflette su questo argomento, sulla storia, sull’insegnamento della storia, sulla scuola. Lo ammetto: post per appassionati! 🙂

 

Con postmemoria intendo il contenuto culturale, emozionale, e mentale che ci troviamo a “governare” dopo “l’era del testimone”, come l’ha chiamata Annette Wieviorka. Non solo. Infatti la post-memoria è una condizione culturale che obbliga a riflettere da una parte su ciò che ereditiamo, sulle forme del sapere e della coscienza pubblica che abbiamo acquisito in seguito all’ascolto di narrazioni di coloro che hanno vissuto un tempo diverso da quello dei loro ascoltatori le cui storie personali sono forzate a farsi da parte dalla irruzione delle storie della generazione precedente con cui devono ancora “prendere una misura”; dall’altra, su quale sia il rapporto che intratteniamo col passato. Su tutto il passato del Novecento, per riflettere nel presente (Maus di Art Spiegelman è con molta probabilità il prodotto culturale che con più efficacia ha posto questo tipo di questione).

Per un errore di proiezione molti ritengono che questa condizione ci lascerà orfani di un supporto essenziale – la voce dei testimoni – e dunque il percorso incerto avviato con l’emergere del ruolo della testimonianza sui fenomeni di massa della storia, subirà un arresto, una deviazione, comunque sarà seriamente destinato a perdersi.

E’ molto probabile che la condizione in cui noi ci troveremo dopo registrerà incertezze, silenzi, marginalizzazioni. Probabilmente l’emergere di nuove centralità culturali e tematiche verrà percepita e interiorizzata come “regressione”. Tuttavia noi oggi se vogliamo che quel tema rimanga nell’agenda culturale della formazione civile dovremmo preoccuparci non tanto di cosa accadrà dopo i testimoni, ma di come noi siamo entrati nell’era del testimone, di ciò che ha significato questa fase, e dunque di che cosa tratteremo di essa.

Così come per i totalitarismi non c’è un individuo creato dal totalitarismo nel momento in cui questo si produce come sistema (mentre certamente esiste un individuo totalitario come effetto della durata di quel sistema), ma c’è una mentalità totalitaria in gran parte anticipata dall’avvento dei sistemi totalitari e anzi, per certi aspetti non solo adeguata ad essi, ma generativa della domanda di sistema totalitario e allo stesso tempo mentalità che rimane anche dopo il crollo di quei sistemi, noi dovremmo chiederci non cosa sarà di noi dopo i testimoni, ma quale sia il nostro rapporto con la storia nel momento in cui è iniziata l’era del testimone e quale sia oggi e prevedibilmente domani quel rapporto. Il problema a mio avviso è quanta consapevolezza storica noi oggi abbiamo, se ci sia uno scarto rispetto a prima; se siano cambiate le nostre domande rispetto al passato e se siamo in grado o meno di interrogare in forma critica e non a-prioristica il nostro presente. In breve se la nostra competenza storica (non la nostra conoscenza dei fatti) è aumentata.

La mia risposta discende da un duplice groviglio di questioni.

Sono convinto che nel momento in cui la testimonianza o la voce testimoniale è entrata a far parte a pieno titolo (legittimamente) delle fonti e dei documenti che uno storico deve prendere in carica se vuol tentare non solo di descrivere, ma anche di comprendere un fatto storico, quella fonte sia inovviabile e anzi sia indispensabile per discutere non solo di quell’evento, ma soprattutto della percezione e della comprensione, dopo, che un’opinione pubblica informata ha di quell’evento. Non solo quella fonte è indispensabile, ma la discussione se essa sia legittima o meno, se essa abbia un fondamento o meno, è parte di quella retorica che ha come fine la negazione di quell’evento. Sotto questo profilo la riflessione proposta da Pierre Vidal-Naquet è inoppugnabile sia sul piano della discussione metodologica sulle fonti, sia su quello dell’analisi storica tra narrazione della storia e discussione pubblica. Coloro che pretendono di negare l’esistenza del Genocidio ebraico – scrive Pierre Vidal-Naquet – cercano di colpire ciascuno di noi nella propria memoria individuale . Questa memoria non è la storia. Ma la storia è fatta anche dell’intreccio tra le nostre memorie e la memoria dei testimoni. (Pierre Vidal-Naquet, Gli assassini della memoria. Saggi sul revisionismo e la Shoah, Viella, Roma 2008, p. 224). E’ una suggestione che costituisce una buona pista e che dice due cose: la memoria e la testimonianza non sono né un’alternativa né concorrenti contro la storia. Questa oggi, a partire dall’ “era del testimone”, ha un futuro solo se è in grado di saper trattare e includere le fonti testimoniali come parti della propria problematica di indagine. Ma questa questione non significa, peraltro, che oggi la storia sia l’indagine sui fatti accompagnata dalla testimonianza. Il gioco è più complicato e anche più sottile. Consideriamo il secondo groviglio di questioni.

La storia d’Italia che gli italiani sanno, chi l’ha raccontata? Il manuale del liceo o “La storia siamo noi”? E sulla base di quale scelta documentaria si reggono questi o quelli? Quale consapevolezza culturale si ricava dalla storia raccontata in televisione? Non è solo un problema delle competenze del conduttore. E’ anche un problema di fonti, del loro uso, della loro molteplicità e di come si presentano. La storia la raccontano i film, la fotografia, gli oggetti, i diari, i libri, le lettere, i cippi, i memoriali. Dietro ciascuno di questi documenti c’è sempre un autore (o un gruppo di autori), non c’è “la storia”o “l’evento com’è andato”. Ci sono scelte, c’è un’idea del passato e c’è una proposta di interpretazione. C’è soprattutto una selezione del passato presentata invece come se fosse tutto il passato. Ovvero c’è una scelta soggettiva presentata come oggettiva e dunque come autentica e vera. Una scelta che viene nascosta, perché a priori si presume che l’idea di scelta sia l’origine del racconto falso o falsato. L’uso politico del passato nasce proprio da questa convinzione. E’ una convinzione che la moltiplicazione dell’offerta di storia negli ultimi anni ha incrementato, anziché contribuire a ridurre. La storia visuale, gli strumenti di supporto, l’esplosione dell’offerta documentaria non hanno aiutato a farsi un’idea, ma hanno trasferito all’utente/fruitore del prodotto storico un kit di spiegazione senza dotarlo degli strumenti per giudicare. E’ accaduto con La meglio gioventù, lo sceneggiato dedicato alla storia italiana tra anni ’60 e fine secolo ma è anche accaduto con Il cuore nel pozzo, lo sceneggiato televisivo dedicato alle foibe. In entrambi i casi il vissuto di un protagonista contribuisce a esaltare la storia della persona, ma anche elimina le sfumature, impedisce di cogliere la complessità della realtà, inibisce i molti dati sociali. In breve la vicenda specifica sceglie, giustamente e opportunamente, ma la storia che si vuole proporre pretende di raccontare tutta la storia. Soprattutto non analizza il contesto. La condizione in cui si producono atti, convinzioni, parole, scelte. Per individuarli occorrono competenze di due tipi: competenze di interpretazione e competenze disciplinari specifiche. Nel primo caso si tratta di dedurre in assenza di documenti, o in condizioni di carenza, informazioni da ciò che abbiamo a disposizione. Non è solo una condizione che deriva dalla pazienza del lettore. A monte implica anche una chiarezza sulla possibilità di reperire documentazione diretta e in assenza, di trovare le vie attraverso le quali riuscire a sapere dati, informazioni che direttamente non troviamo. Nel secondo caso si tratta di dotarsi di competenze definite dalla natura stessa dei documenti che si usano. Ci sono competenze specifiche di analisi che riguardano i film, le fotografie, le testimonianze orali, i quadri, le lettere. L’analisi di ciascuno di questi documenti richiede una competenza specifica che non riguarda solo il linguaggio, ma anche la tecnica di montaggio. In breve ciascuno di questi documenti è un risultato, non è un documento che nasce in questa forma. Così un film è il risultato di un montaggio, include, per capire il prodotto che abbiamo di fronte, un’informazione sullo scarto, sulle tecniche di ripresa, sull’uso delle inquadrature p.e., ovvero chiede che ci siano delle informazioni tecniche inerenti la sua realizzazione specifica. Una fotografia, al contrario di ciò che comunemente crediamo non è l’originale (Adolfo Mignemi, Lo sguardo e l’immagine, Bollati Boringhieri, Torino 2003). L’originale è il negativo della fotografia. Ciò che ci troviamo di fronte spesso è solo una parte dello scatto originario, è uno sviluppo, un particolare. E inoltre dove la troviamo quella foto, chi ce la fornisce, in quale sequenza ce la fornisce. Una fonte orale include varie cose: un rapporto di fiducia tra intervistatore e intervistato; un confronto ripetuto; una tecnica di conduzione (Alessandro Portelli, Storie orali Donzelli, Roma 2007, pp. 5-24). La stessa questione, ovvero la competenza sul trattamento della fonte prescelta riguarda ovviamente i quadri e certamente le lettere, gli epistolari, i diari, comunque le fonti memoriali scritte. Fin qui si potrebbe dire la competenza di cui stiamo trattando concerne la grammatica, la sintassi comunque le regole di montaggio della fonte in relazione al supporto prescelto. Ma il tema delle fonti non è solo avere consapevolezza delle procedure tecniche relative alla loro costruzione in quanto documenti e dunque avere la competenza per “decostruirli”, ma anche avere la competenza per comprendere che cosa contiene quel documento, ovvero quante informazioni (intenzionali e non intenzionali) è in grado di fornirci. Un documento propone, ma poi bisogna anche farlo parlare. Per farlo parlare occorre sapere scavare dentro. Ovviamente occorre sapere la storia fattuale di ciò a cui quel documento di riferisce, ma bisogna anche avere un’autonomia rispetto al modo in cui quel documento si presenta. Il tema è la formazione degli insegnanti, la costruzione delle unità didattiche, il trasferimento di competenze per mettere nella condizione educatori e dunque cooperatori di divenire competenti ovvero analizzare fonti, connetterle, e costruire documenti, narrazioni, storie. L’obiettivo dunque è costruire capacità, non trasferire pacchetti di narrazione. L’investimento, più lento, ma certamente più solido è definire sensibilità professionali, l’obiettivo è formare, non sorprendere.

C’è dunque un compito preciso che abbiamo davanti. Questo compito riguarda la riflessione sulla storia, la capacità di far lavorare sul passato e che quella conoscenza più estesa sia il risultato di una capacità maggiore di saper lavorare sui documenti. Di non essere ripetitori, ma di dotarsi di una cassetta degli strumenti in grado di “muoversi” nella storia. E’ una sfida e non riguarda l’eroismo. E in ogni caso, proprio perché la conoscenza del passato solo in parte e solo formalmente coinvolge la scuola, noi dobbiamo sapere che la coscienza civile della generazione che domani sarà adulta non si forma solo al’interno di un’aula di scuola e dunque non possiamo ritenere responsabile la scuola, ovvero gli insegnanti dei nostri figli, come i soli, o i principali, responsabili della loro formazione.

Ciò detto, è corretto chiedere al corpo docente della scuola una qualità dell’insegnamento che abbia come obiettivo anche la formazione culturale e civile dei giovani. Ma è anche necessario capire che questa richiesta deve preliminarmente contenere una consapevolezza: la formazione professionale non è un optional o un generico “fai da te” dove vige l’arte di arrangiarsi. Perché ci siano insegnanti competenti occorre che ci sia non solo un sistema scolastico che funzioni, ma anche una società che capisce che niente è un atto dovuto, che sapere è avere gli strumenti, i mezzi, le opportunità perché quella richiesta abbia la possibilità di essere soddisfatta. Certo che occorrono volontà, determinazione e curiosità. Ma occorre anche una società che investe sul miglioramento della qualità di un servizio. Gli insegnati sono spesso soli, avvertiti come un mondo alieno, talora sono anche un mondo non “friendly”. Ma se vogliamo che domani sia meglio, se siamo convinti che il passato abbia dato prove pessime e soprattutto se non vogliamo che quelle eventualità si ripetano, e se siamo convinti che uno dei modi per impedirlo sia nella costruzione di una consapevolezza critica profonda, non abbiamo che da assumere una maggiore consapevolezza del ruolo di cittadini, di genitori, di operatori pubblici e mettere in condizione che un percorso sia possibile. Poi certamente vale la scelta degli individui, la loro disponibilità, a impegnarsi.

Non avrà dominio

Un pensiero a una cara persona che ho salutato due settimane fa, con le parole di Roberto Mussapi.

«E la morte non avrà dominio». È il verso finale di una poesia memorabile del grande Dylandylan-thomas-1941.jpg Thomas. Un verso che risponde alla domanda fondamentale dell’uomo, se tutto cessa con la morte, o se esiste una vita ulteriore. La domanda primigenia, a cui cercano risposte le religioni, i filosofi, i poeti. La risposta di questi ultimi è piuttosto una scoperta: a differenza del filosofo, che ricerca attraverso la ragione, il poeta, più similmente al mistico, viaggia spiritualmente e incontra delle visioni. Come risponde Dylan Thomas? Nel modo drammatico e complesso, che la poesia esige. Affermare che la morte non esiste, a chi sta perdendo una persona amata, o sta sentendo spegnersi la propria vita, è inefficace. E sarebbe anche una scappatoia, per un poeta, che deve guardare il mondo con gli occhi degli uomini, non dei profeti, e parlare con la lingua dei profeti, umanata. La risposta, il verso finale, ha qualcosa dell’esperienza del mistico ma una tremenda forza di fango umano. Un poeta non sopporta la sofferenza dei suoi simili, spesso sta male anche per quella di un uccellino o di una pianta. Non può rivolgersi a un malato terminale tranquillizzandolo con l’affermazione che la morte non esiste. Non è nella sua natura e nel suo compito. No, ma può cantargli a piena voce che la morte esiste, e non avrà, non avrà dominio.