Venerdì sera ero a Zugliano ad ascoltare la testimonianza di Salvatore Borsellino, fratello di Paolo. Non mi soffermo qui sulla questione mafia di cui si può leggere abbondantemente sui libri e su internet, ma su qualcosa di cui lo stesso Salvatore ha detto di parlare raramente. In sintesi ha detto di non essere mai stato un grande credente, di aver seguito la religione da piccolo insieme al fratello, ma di non aver mai effettuato un vero percorso di fede. Eppure, in quei tre giorni passati notte e giorno accanto al feretro di Paolo prima dei funerali, ha respirato l’amore. “In tutte quelle persone che venivano a salutare Paolo, ad abbracciarlo, a portare calore alla sua famiglia, ho vissuto l’amore, ho vissuto Dio. Per me è difficile ora parlare, raccontare, è come se dovessi parlare di un cielo stellato a un cieco: come potrei farlo? quali parole usare?”.
Fuori dal dimenticatoio
Per non dimenticare quanto successo nel 2008. Prendo da Asianews.
Pechino (AsiaNews/Rfa) – A tre anni dallo scandalo del latte in polvere alla melamina,
centinaia di bambini rimangono affetti da malattie ai reni. Test pagati in privato – dato che il governo vieta agli ospedali di aiutare le famiglie delle vittime – mostrano che i bambini presentano calcoli ai reni e molti di essi hanno sangue nelle urine. Zhao Lianhai, papà di uno dei 300 mila bambini colpiti dal latte alla melamina, ha lanciato una campagna per sottomettere i piccoli a nuovi test per vedere il decorso della malattia. Lo scandalo è scoppiato nel 2008, quando si è scoperto che il latte in polvere per l’infanzia di diverse ditte venditrici conteneva un alto tasso di melamina, usato per innalzare il livello di azoto presente nel latte, facendo credere che esso è ricco di proteine. A causa del suo uso, sette bambini sono morti e altri 300 mila sono rimati affetti da calcoli ai reni. Il governo ha arrestato Zhao Lianhai condannandolo a due anni e mezzo di prigione per “disturbo dell’ordine pubblico” e lo ha rilasciato solo lo scorso novembre per problemi medici. Le autorità hanno anche proibito a ospedali, medici e avvocati di farsi paladini delle richieste di risarcimento dei genitori. L’associazione dei genitori, con a capo Zhao Lianhai, ha raccolto donazioni per 100mila yuan (circa 10mila euro) e con questi soldi ha iniziato a compiere test medici sui bambini malati. La madre di un bambino di Lushan (Sichuan) ha detto che il suo piccolo ha iniziato ad avere sangue nelle urine; un altro ha dichiarato che suo figlioletto ha molti calcoli a entrambi i reni; un altro piccolo continua da tre anni ad avere acidità nelle urine, con due piccoli calcoli ai reni. “I medici – essi affermano – ci dicono che non vi sono trattamenti per migliorare la loro salute”. Dopo lo scoppio dello scandalo, Pechino ha arrestato 21 persone. Due di esse sono state condannate a morte. Il governo afferma che tutto il latte alla melamina è stato distrutto, ma ogni tanto emergono notizie di prodotti ancora inquinati.
Ti do la musica, mi leggo il tuo hard-disk…
La cosa mi inquieta e non poco. Prendo da Avvenire questo articolo di Gigio Rancilio.
È l’uovo di Colombo. Un’idea da vecchia politica applicata al futuro e alla generazione digitale. Un bel condono tombale sui pirati musicali che scaricano canzoni illegalmente da Internet. Il tutto a un prezzo molto vantaggioso: 24,99 dollari a testa, fino a un massimo di 25mila brani. Meno di un dollaro ogni mille canzoni pirata. Prima di inorridire, è meglio che sappiate che la pirateria sta davvero uccidendo la musica. In Europa un utente di Internet su quattro scarica canzoni illegalmente. In Brasile e in Spagna la percentuale schizza al 44 e 45%. Secondo i discografici, entro il 2015, la pirateria avrà mangiato 1,2 milioni di posti di lavoro nell’industria musicale, creando perdite pari a 240 miliardi di dollari. Di contro tutti (o quasi) sanno che il futuro della musica è online. A scommetterci sono tanti. Al punto che i servizi che offrono musica legale su Internet nel 2004 erano meno di 60 e oggi sono oltre 400. Il più forte è indubbiamente iTunes di Apple che l’anno scorso ha festeggiato i 10 miliardi di brani venduti via Internet in meno di otto anni. Partendo da questi dati, Apple e industria musicale hanno capito che l’unica strada per sconfiggere la pirateria è di renderla svantaggiosa economicamente. Ecco nata la nuova rivoluzione Apple che si chiama iTunes Match ed è di fatto un condono ai pirati musicali. Il suo funzionamento è semplice quanto un po’ inquietante. Abbonandosi al servizio per meno di 25 dollari l’anno – per ora funziona solo negli Stati Uniti – Apple mette a disposizione su un server remoto («<+corsivo>iCloud<+tondo>», l’ormai celebre “nuvola”) uno spazio dove immagazzinare tutta la musica che amiamo, rendendola disponibile per ogni computer, telefonino o lettore mp3 che abbiamo o che avremo. Di servizi così ne esistono a decine, in ogni parte del mondo. Quello di Apple, però, ha 20milioni di canzoni e soprattutto una servizio in più. Si offre da solo e automaticamente di mettere a posto e di rendere legali tutti i brani salvati (legalmente o illegalmente) nella nostra libreria musicale, sino a un massimo di 25mila. In pratica, quando ci si collega via Internet a iTunes Match, un programma legge il nostro hard disk (e qui la cosa si fa per certi versi spinosa) e scova i brani di pessima qualità e/o illegali che abbiamo salvato, sostituendoli in automatico con le stesse canzoni ma legali e di ottima qualità. Ovviamente Apple si impegna a non divulgare ai discografici o a terzi le notizie di eventuali crimini trovati. E al contempo ha promesso all’industria musicale di dividere con lei una bella fetta di questi abbonamenti. I quali, in prospettiva, possono diventare dei grandi alleati dell’industria. Facciamo un banale esempio: appena iTunes Match saprà che sta uscendo il nuovo album di un certo artista, avvertirà via computer tutti gli utenti nel mondo che hanno da uno a più brani di quell’artista salvati sulle loro nuvolette. In questo modo, il cosiddetto marketing mirato diventerà facilissimo. E tutti, una volta di più, saremo schedati nei nostri gusti e nei nostri comportamenti. In America è già un successo. Al punto che, come riporta Punto Informatico, «a poche ore dal suo debutto i server del servizio cloud sono stati sotto pressione tanto da costringere Apple a bloccare temporaneamente (per qualche ora) le nuove iscrizioni».
Muri
In quinta stiamo vedendo il film Quando sei nato non puoi più nasconderti, che è tratto da un libro. Ecco la breve intervista all’autrice Maria Pace Ottieri.
Il preludio
È una benedizione questa lieve brezza
che soffia dai campi verdi e dalle nuvole
e dal cielo: mi batte sulla guancia
quasi consapevole della gioia che dà.
Benvenuta messaggera, benvenuta amica,
ti saluta un prigioniero che esce da una casa
servile, affrancato dalle mura di codesta città,
un carcere che a lungo l’ha serrato.
Oro sono libero, emancipato, all’aria aperta,
posso prendere casa dove mi piace.
(William Wordsworth)
Manicomi criminali: fino a quando?
Prendo da Linkiesta un articolo sugli ospedali psichiatrici giudiziari.
Sono trascorsi più di trent’anni dalla legge Basaglia che ha chiuso i manicomi ma nonostante questo in Italia ci sono ancora almeno 1.404 internati nei sei ospedali psichiatrici giudiziari italiani. Nel 2011, la Commissione d’inchiesta sul Servizio sanitario nazionale del Senato ha monitorato le strutture italiane per avere notizie degli internati che avrebbero dovuto essere stati dimessi già da mesi o anni: su 368 internati dichiarati dimissibili, per ora solo 101 hanno effettivamente lasciato le strutture. La maggior parte non ha potuto lasciare l’ospedale psichiatrico giudiziario perché si ritrova senza progetto terapeutico, non ha una comunità che possa accoglierlo o una Asl che lo assista. Di recente il Senato ha votato sì alla chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari (Opg) con una risoluzione, che ha visto maggioranza e opposizione votare in modo compatto. Il provvedimento apre la strada a una riforma del sistema della detenzione psichiatrica che, in tempi ancora da definire, porterà alla chiusura degli Opg. Secondo il presidente della commissione d’inchiesta Ignazio Marino «la risoluzione è un atto di responsabilizzazione del Governo e delle Regioni. Nessuno potrà più dire “io non sapevo” o “non è possibile intervenire”, perché queste persone, internate nelle sei strutture italiane, sono una responsabilità di tutti. Vi sono uomini che hanno compiuto crimini efferati: però, pur avendo aggredito o ucciso, devono essere curati e hanno il diritto di vivere in un ambiente pulito e dignitoso. Altri, quasi 400, non sono pericolosi e avrebbero avuto da tempo il diritto di uscire. Con l’intervento della Commissione, molti di loro hanno varcato la soglia degli Opg, ma altri sono ancora lì ad ingrossare le fila dei cosiddetti “ergastoli bianchi”, persone che a causa delle “proroghe” rischiano di non uscire mai. Una prassi di sistematica lesione di due diritti fondamentali». E ancora: «C’è ancora molto lavoro da fare: dopo i sequestri di alcune aree dell’Opg di Montelupo Fiorentino e di Barcellona Pozzo di Gotto del luglio scorso, stiamo monitorando le condizioni di tutti gli internati che sono stati trasferiti e di quelli che ancora permangono negli Opg. Alla fine di gennaio, scadrà l’altro termine contenuto nei decreti di sequestro per l’adeguamento dell’intera struttura – quindi anche delle parti non sequestrate – ai requisiti minimi previsti dalle leggi nazionali e regionali. Una data importante».
Il voto al Senato è arrivato dopo le numerose indagini portate avanti dalla Commissione d’inchiesta sul Servizio sanitario nazionale. Uno di questi è in Sicilia, quello di Barcellona Pozzo di Gotto, gli altri si trovano a Reggio Emilia, Montelupo Fiorentino, Castiglione delle Stiviere, Napoli e Aversa. Tremende le immagini che la Commissione d’inchiesta sul Servizio Sanitario Nazionale ha girato negli ex manicomi giudiziari. Numerose associazioni hanno aderito all’appello Stopopg per l’abolizione degli ospedali psichiatrici giudiziari. Tra i traguardi raggiunti anche attraverso l’attività di sensibilizzazione, un nuovo accordo per il superamento degli opg approvato in conferenza unificata (Stato, regioni, province, comuni). L’accordo ammette i ritardi e le inadempienze nell’attuazione delle norme per il superamento degli Opg. Fissa per ogni regione entro il 30 giugno 2012 un nuovo termine per attivare sezioni per la tutela della salute mentale almeno in un carcere, preferibilmente in ogni Asl (tramite i Dipartimenti di salute mentale), e dispone l’accoglienza e la presa in carico da parte delle singole regioni/Asl (Dsm) per le dimissioni dall’Opg degli internati. Prima della legge Basaglia, i manicomi erano luoghi di contenimento fisico, ed erano la regola pesanti terapie farmacologiche e invasive. E nella relazione della Commissione d’inchiesta si legge che «gravi e inaccettabili sono le carenze strutturali e igienico-sanitarie rilevate in tutti gli Opg, ad eccezione di quello di Castiglione delle Stiviere e, in parte, di quello di Napoli; tutti gli Opg presentano un assetto strutturale assimilabile al carcere o all’istituzione manicomiale, totalmente diverso da quello riscontrabile nei servizi psichiatrici italiani[…]. La dotazione numerica del personale sanitario appare carente in tutti gli Opg visitati rispetto alle necessita clinico-terapeutiche dei pazienti». Con riferimento alla visita all’Ospedale psichiatrico giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto si legge: «Ovunque si avvertiva un lezzo nauseabondo per la presumibile presenza di urine sia sul pavimento che sugli effetti letterecci (lenzuola ndr). Gli armadietti apparivano talvolta divelti ed arrugginiti. L’unico servizio igienico, di circa 1 mq, risultava privo di impianto doccia». E ancora, in diversi istituti, diversi casi di contenzione (immobilizzazione, ndr) dei malati, i cui dettagli non sempre sono stati documentati nei diari e nei registri sanitari. La relazione evidenzia che «indipendentemente dagli effetti lesivi potenziali o reali sul paziente, la contenzione fisica o farmacologica non può trovare legittimazione nell’applicazione della misura di sicurezza, come analogamente non sarebbe giustificata solamente dal trattamento sanitario obbligatorio. Le strutture dovrebbero utilizzare le migliori esperienze psichiatriche, già consolidate, di prevenzione della violenza. La pericolosità di una persona internata è per definizione prevedibile e quindi “altrimenti evitabile” con un adeguato contesto clinico di tipo preventivo». A Reggio Calabria il problema era stato denunciato già nel febbraio 2007 in occasione della celebrazione della XV giornata del malato. Alla presenza dell’arcivescovo della diocesi di Reggio Bova Vittorio Mondello, ne avevano parlato don Pippo Insana, cappellano dell’Ospedale psichiatrico giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto, Giuseppe Messina, direttore del dipartimento salute mentale dell’Asl 11, Mimmo Nasone, responsabile del centro studi Piccola opera Papa Giovanni, e il diacono Benoci, responsabile della consulta delle associazioni di volontariato. Don Pippo Insana, aveva dichiarato: «La Chiesa è vissuta nei manicomi: erano cappellani e suore quelli che stavano al fianco dei malati, lì come oggi negli ospedali psichiatrici giudiziari. Ma per i malati di mente c΄è stato un miracolo laico, chiamato legge Basaglia. Ha permesso loro di tornare nella società civile. È chiaro che le famiglie vanno aiutate. L’inserimento lavorativo delle persone malate di mente costa ad una società molto meno della loro residenza in un istituto. E a questo proposito aggiungo che l’ospedale psichiatrico giudiziario – struttura in cui vengono mandate le persone malate di mente che hanno commesso un reato e sono state sottoposte a misura di sicurezza perché socialmente pericolose – oggi funziona come un carcere. È incostituzionale. È inidoneo. Non c’è vitto sufficiente. Ci sono persone chiuse da anni lì, perché hanno commesso un reato, ma anche perché sono state dimenticate dalle loro famiglie». […]
La realtà sottile
“Quando ci poniamo domande su Dio, una di quelle che stanno in cima alla lista è perché certe persone vivono e certe persone muoiono; perché certe persone guariscono e certe altre no. […] Se una persona vive, diciamo: «È un miracolo». Se muore diciamo: «È la volontà di Dio». Non c’è una risposta razionale ai miracoli e non c’è modo di comprendere la volontà di Dio: il quale, se c’è davvero, potrebbe non avere per noi più interesse di quello che ho io per i microbi che in questo momento vivono sulla mia pelle. Ma i miracoli avvengono, a me sembra; ogni respiro è un miracolo nuovo. La realtà è sottile ma non sempre buia.”
(Stephen King, Al crepuscolo)
Foglie morte
I bambini dell’acido
Una storia che colpisce al cuore. Prendo da Asianews un articolo di Nozrul Islam.
Dhaka (AsiaNews) – Sima ha dieci anni, e quando aveva appena dieci mesi il padre l’ha cosparsa di acido, sperando così di eliminare il più grande problema della sua vita. La
piccola infatti non è frutto di un’unione d’amore, ma della bravata di due ragazzi, poi costretti a sposarsi dai capi del loro villaggio per rimediare al fattaccio. In più, Sima è femmina: sinonimo di peso economico, in Bangladesh, dal momento che sono le donne a dover portare la dote all’atto del matrimonio. Un vero problema per un uomo che nemmeno voleva prendere in moglie quella ragazza: così una notte, dieci mesi dopo la nascita, getta dell’acido sulla neonata. Il padre viene messo in prigione, ma se la cava con tre mesi. Di nuovo in libertà, ripudia la moglie e si disinteressa del tutto della figlia. Intanto, la bambina viene subito ricoverata in ospedale, dove i medici e i volontari della Acid Survivors Foundation (Asf) intervengono in maniera tempestiva, iniziando con le operazioni e i trapianti. Tra grandi sofferenze, fisiche e psicologiche, Sima riesce a sopravvivere.
Nato nel 1999, l’ospedale della Acid Survivors Foundation gode di strutture attrezzate e un ampio numero di personale medico volontario, anche straniero. Il centro si occupa di primo intervento, riabilitazione e reinserimento nella società. Giovanna Danieletto, un’imprenditrice italiana che vive a Dhaka da molti anni, abita in una zona della capitale vicino all’istituto e scopre Sima e la sua storia quasi per caso: “Conoscevo il centro e un giorno ci sono andata con una mia conoscente. C’erano dei bambini che correvano in corridoio. Tra questi, Sima. Vista l’evidente gravità della sua situazione, ho chiesto se era possibile fare qualcosa. Ho parlato con i medici, incluso quello che ha preso in cura la piccola quando aveva 10 mesi, quando le è stato gettato addosso dell’acido”. Sima è una sopravvissuta, ma è anche una bambina molto forte. Non solo per aver resistito a ustioni serissime, quella notte di dieci anni fa; soprattutto, per aver affrontato dieci anni di operazioni, trapianti, sale operatorie, riabilitazioni, emarginazione sociale, occhiate e parole di disgusto da parte dei suoi coetanei. Momenti che si ripeteranno in modo ciclico, ma continuo, per tutta la vita. “Il problema – spiega Giovanna Danieletto – è che l’acido non ha bruciato solo la pelle e gli strati più superficiali, ma ha intaccato anche i muscoli facciali. Dopo le prime operazioni, adesso i medici stanno facendo continui aggiustamenti, prendendo parti di pelle sana da altre zone del corpo. Per quanto riguarda i trapianti del viso, per evitare che di dare una pigmentazione diversa e un effetto ‘arlecchino’, la pelle sana deve essere prelevata dall’area del décolleté, delle ascelle e dell’interno coscia”. È al volto e al capo che Sima ha i problemi più evidenti. “In questo periodo – prosegue la donna – Sima soffre per le frequenti infiammazioni ed escoriazioni alla pelle della testa, che è molto tesa, poco elastica… È sottile come un foglio, e non ha capelli. Le è stato riaperto un occhio, ma ancora non si capisce se riesce a vedere o meno. Le è stato ricostruito in maniera parziale il naso e le è stata riaperta la bocca, che era completamente fusa: adesso può parlare e alimentarsi in maniera regolare. L’apparato uditivo esterno è a posto solo da una parte, dall’altra è rimasto giusto un quarto d’orecchio”. Le operazioni non sono finite. “Sima – spiega la Danieletto – è in piena fase di crescita, ma la pelle non cresce in maniera adeguata allo sviluppo dell’apparato scheletrico. Dovrà continuare a subire nuovi innesti per tutta la vita”.
Il fenomeno delle vittime dell’acido è diffusissimo in Bangladesh: una “usanza” ereditata dal Pakistan, praticata per vendicarsi di qualcuno o come forma di punizione, soprattutto contro le donne. Anche i bambini – maschi e femmine, senza distinzione – vengono colpiti da questa terribile pratica, perché usati come capro espiatorio per fare uno sgarbo o un dispetto nei confronti della famiglia della sposa. Oltre al danno, Sima incontra presto anche la beffa. Il suo rapporto con il padre, infatti, non si conclude con gli eventi di quella notte. Qualche tempo dopo il ricovero della figlia in ospedale, la madre torna al villaggio per fare visita al marito, che nel frattempo è uscito di prigione, si è risposato e ha avuto altri due bambini. Maschi. Da una di queste “visite”, la madre di Sima torna incinta e questa volta è un maschio: non basta a far tornare l’ex marito, ma è sufficiente a proteggerla dallo stigma sociale. Secondo la cultura locale, infatti, se una donna viene ripudiata dal marito – o se rimane vedova – diventa proprietà della comunità, quindi un soggetto aggredibile. Continuare a far visita al marito, anche se separati, garantisce alla madre di Sima una certa sicurezza. Giovanna Danieletto interviene, vuole offrire un’alternativa a Sima, il fratellino e sua madre: “La mia prima offerta è stata quella di trovare una sistemazione in una casetta, della quale io avrei pagato l’affitto, in maniera tale che i tre potessero essere liberi di costruire una vita familiare normale qui, a Dhaka. La donna adesso fa le pulizie nell’ospedale della Asf, e i bambini sarebbero potuti andare a scuola in città”. Un’offerta generosa, che però la madre declina senza dare spiegazioni. “Ha iniziato a dire che non si poteva – racconta Danieletto –, che non era possibile, ma non tirava mai fuori i problema reale. Nessuno riusciva a spiegarmi il perché di quel rifiuto. Poi, mi è stato detto che forse il marito sarebbe potuto rientrare in famiglia, se la mamma avesse trovato qualcuno che pagasse loro affitto e mantenimento di questi bambini. Lì per lì mi è sembrata una risposta che poteva essere esaustiva. Poi ho pensato: e l’altra famiglia? Mi è stato risposto che il ‘problema’ poteva essere risolto gettando l’acido sugli altri. Era evidente che nascondeva qualcosa”. Il muro di omertà tipico di questa cultura iniziava a sgretolarsi, ma “per noi occidentali – spiega l’imprenditrice – non è facile comprendere la loro mentalità, hanno sensibilità e blocchi sociali che non possiamo nemmeno immaginare, dinamiche che ci sfuggono”. Durante l’ultimo colloquio col padre, Danieletto riesce a ottenere un incontro con la psicologa bengalese che segue la bambina in ospedale. Insieme a loro c’è anche suor Dipika, dell’istituto Shanti Rani (Regina degli apostoli), alla quale l’imprenditrice aveva raccontato a storia di Sima. Salta fuori la verità: “Il governo passa un tot all’anno ai capifamiglia che hanno un parente stretto vittima di acido. È una specie di pensione per i disabili. Il padre di Sima manteneva i rapporti con la donna per intascarsi i soldi del vitalizio”. Scoperto l’inganno, Giovanna Danieletto si è attivata per trovare una soluzione. Da gennaio la bambina andrà a vivere nell’ostello dell’istituto di suor Dipika a Rajshahi, lontano da Dhaka, e frequenterà una scuola della zona. “È una bella situazione – commenta la donna –, che raccoglie bambini orfani o di famiglie in difficoltà. La scuola dove andrà Sima è mista: ci sono bambini orfani, con handicap e in buona salute. Al bambino normale si insegna ad aiutare il bambino con handicap, così anche la disabilità diventa una cosa ‘normale’. Adesso – conclude Giovanna Danieletto – la bambina è serena. Ci stiamo dando i turni per andare a vedere come procede la situazione, a gennaio inizierà un nuovo capitolo della sua vita. Noi ci siamo messi a disposizione, intanto possiamo solo aspettare e vedere come si comporterà Sima nella sua nuova realtà. E come gli altri lavoreranno con lei”.
Moderni lager
Quando ero alle superiori ho letto un libro che mi ha colpito molto. Si intitolava “I bambini nella guerra”. Mi è tornato in mento oggi quando ho letto questo toccante articolo di Paolo Lambruschi sul sito di Avvenire.
La bambina eritrea ha sei anni e i capelli crespi intrecciati. L’unico gioco che può fare è correre avanti e indietro nel corridoio del carcere di Bir el-Abd, a mezz’ora di autostrada da El Arish. Il suo nome non lo possiamo fare, chiamiamola Dina, vivace nonostante le manchino compagni di gioco, matite per disegnare, giocattoli e il suo unico pasto sia il rancio della galera integrato da latte e biscotti portati da volontari copti. L’abbiamo incontrata durante un giro in alcune carceri egiziane, dal Sinai ad Assuan, dove sono detenuti almeno 500 eritrei contro la convenzione dell’Onu del 1951 sui rifugiati, cui l’Egitto ha aderito. Uomini, donne e almeno una decina di bambini innocenti, imprigionati per un periodo indefinito come irregolari. Siamo l’unica testata occidentale ad essere entrata per testimoniare cosa accade dietro le sbarre. Le guardie ci lasciano soli con i prigionieri. A nessuno di loro – denuncia Asefasc Woldenkiel, la persona che mi aiuta a tradurre – è stato permesso di presentare domanda di asilo nonostante molti siano in possesso della tessera blu dell’Acnur, quella di rifugiato o di quella gialla, rilasciata a chi presenta domanda di asilo. Né all’Acnur è consentito l’ingresso in queste galere lontane dal Cairo. Dina non esce mai, gli eritrei non fanno l’ora d’aria. Dorme su un asciugamano buttato sul cemento in una cella lurida con un solo bagno, che in estate deve trasformarsi in un forno, e che divide con la madre e altre 10 detenute eritree, tutte tra i 20 e i 30 anni, fuggite dallo stato-caserma eritreo, da un regime che pare aver trasportato nel ventunesimo secolo la dottrina dei Khmer rossi di Pol Pot. La polizia le ha arrestate quando i beduini le hanno lasciate al confine o le hanno liberate dopo il pagamento del riscatto. Così il mondo di Dina dallo scorso giugno è fatto di guardie carcerarie armate, sbarre e mura di cemento. Vengono tutte dal campo profughi di Sheregab, in Sudan. Un paio sono state rapite dai Rashaida e poi vendute ai beduini che le hanno liberate dopo un riscatto di 25mila dollari pagato dai familiari. Non chiedo di più, i loro occhi raccontano abbastanza. A El Arish ho incontrato altre due detenute ventenni arrestate due settimane prima, dopo tre mesi di sequestro nel deserto e il pagamento del riscatto di 26mila dollari. Mentre mi dicevano che un loro compagno di viaggio era stato ammazzato di botte dai banditi beduini avevano lo stesso sguardo che mi implorava di piantarla.
La mamma di Dina è invece partita volontariamente per Israele, dove clandestinamente vive il padre, ma la polizia le ha fermate con altre sette ragazze, che avevano pagato 5000 dollari ai trafficanti che le hanno poi abbandonate nel deserto. La polizia israeliana le ha quindi arrestate. Li aiuta la solidarietà della chiesa copta che porta loro coperte, abiti, qualche quaderno per scrivere e ha avvisato le famiglie della loro sorte. Il muro è diventato una lavagna di fortuna, per far sognare Dina di essere a scuola. La madre inventa per lei di continuo un mondo di giochi, proprio come Roberto Benigni ne “La vita è bella”. «Mia figlia adesso riesce a dormire – spiega Tess, altro nome inventato – ma il primo mese si svegliava urlando. Piange quando le guardie picchiano qualcuno perché non sa come farà a guarire qui dentro». Del loro gruppo facevano parte 30 persone. «Di otto – aggiunge Tess – non abbiamo più notizie, non sappiamo se sono stati uccisi dai beduini o dalla polizia». Nella cella accanto sono sdraiati 15 giovani eritrei. Provengono dai campi profughi, perlopiù da quelli sudanesi, un paio anche da quelli etiopi. Sono stati rapiti dai predoni beduini nel Sinai, al termine di un viaggio in condizioni durissime. C’è chi ha poi passato un anno in catene prima di trovare i soldi del riscatto, sempre sotto la minaccia di finire nelle mani dei trafficanti di organi. Hanno assistito a violenze bestiali sulle donne, sono stati torturati, picchiati con sbarre di ferro, bruciati con la gomma fusa. Al termine del calvario, dopo aver pagato i riscatti di 26mila dollari sono stati liberati, ma non sono riusciti ad attraversare il confine perché ridotti a scheletri. Berhame non ha sentito l’alt e si è beccato una pallottola in un femore da uno zelante poliziotto. Ha i ferri piantati nella coscia della gamba sinistra. È immobilizzato sul pavimento di cemento e un pezzo di cartone è tutto quello su cui può appoggiare l’arto ferito. Qui di infermerie non ce ne sono. Nel carcere ci sono in altre due celle altri 18 detenuti eritrei e un paio di sudanesi, tutti seduti per terra su stuoie e asciugamani. Tutti rapiti, schiavizzati, liberati e poi ancora incarcerati senza colpa. Anche qui, ognuno conosce almeno uno o due compagni di viaggio e di sequestro spariti nel nulla tra El Arish e Nakhl. Più tardi, nel carcere di Romani, da una quarantina di eritrei, quasi tutti sequestrati e liberati dopo aver pagato riscatti dai 6 ai 26mila dollari, sentirò ripetere che almeno un terzo dei compagni è sparito. «Veniamo maltrattati dalle guardie – spiega W. – che ci urlano che dobbiamo andarcene». Ai cristiani è riservata una razione supplementare di botte e gli eritrei si tatuano la croce etiopica sul polso. Quanto resteranno in galera questi dannati della Terra? Il loro futuro è il rimpatrio in Eritrea, in base a un accordo con l’Egitto che ignora il diritto di queste persone di chiedere asilo. L’unica speranza è l’intervento dell’ambasciata etiope che, dopo aver identificato i rifugiati, con un lasciapassare li porti all’aeroporto del Cairo e da lì nei campi profughi del Paese dove sono già presenti 61mila rifugiati eritrei. Un progetto umanitario sostenuto da una rete italiana di buona volontà sta provvedendo a pagare i biglietti aerei. Già 175 persone sono uscite dal carcere in questo modo. Il tempo della visita è scaduto. Mentre si chiudono le porte della galera Dina mi chiede a bassa voce di portarla via, da suo padre.
Pur sempre il cielo
Stamattina pedalavo lungo lo Stadionkade e mi godevo l’ampio cielo ai margini della città, respiravo la fresca aria non razionata. Dappertutto c’erano cartelli che ci vietano le strade per la campagna. Ma sopra quell’unico pezzo di strada che ci rimane c’è pur sempre il cielo, tutto quanto.
(Etty Hillesum, Diario)
Cronache di guerra dalla Siria
Un’altra testimonianza dalla Siria presa da Peacereporter.
Quella che abbiamo appena passato è stata senza dubbio la peggiore settimana a Homs dal mese di marzo. E pensare che già a luglio, quando l’esercito era entrato qui in città per ristabilire l’ordine, pensavamo la stessa cosa. Non avevamo ancora visto niente. Quante cose sono successe da allora, quanto sangue innocente è stato versato, quante lacrime e paure. Ormai a Homs non c’è famiglia che non abbia un dolore da piangere, ognuno porta con sé il fardello di questa rivolta e la cosa ancora più dolorosa è che non ci viene nemmeno concessa la possibilità di far sentire la nostra voce. Come sai, ormai da mesi la città è divisa in due: da un lato ci sono i quartieri che sostengono il governo (quelli abitati in prevalenza dalle minoranze religiose cristiane e alawite), con una presenza massiccia di bandiere e gigantografie del presidente Assad ovunque, sono le zone dove la vita scorre abbastanza tranquillamente e percorribili senza difficoltà; poi ci sono le zone controllate dai ribelli, senza bandiere, con esercito, posti di blocco e carri armati nei punti strategici e difficili da attraversare. Alcune sono percorribili solo a giorni intermittenti – anche se in generale è sconsigliabile andarci dopo il tramonto e prima dell’alba sono talmente deserte da sembrare disabitate – e lo stato di semi-abbandono è tangibile; altre, non sono nemmeno avvicinabili e nessuno è in grado di dire esattamente come sia la situazione né quando potrà ristabilirsi. Ma nell’ultimo periodo sembra che nessun posto in città sia sicuro. I ribelli armati, che già da tempo terrorizzano i civili, si sono fatti più aggressivi e sfrontati, non aspettano più la notte per scontrarsi con i posti di blocco militari a colpi di arma da fuoco, non temono più di oltrepassare le zone loro ostili. E il risultato sono tutti quei morti che stanno riempiendo le cronache quotidiane. Le violenze, che sono diventate più intense dopo la firma del trattato con la Lega Araba, vanno acuendosi di giorno in giorno; non è sicuro stare in casa (qualche settimana fa un razzo vagante è entrato dalla finestra dei nostri vicini distruggendo parte della loro abitazione), ma nemmeno uscire. Eppoi con quale mezzo? A piedi, rischiando di venire colpiti dai proiettili lanciati in aria? Con un taxi o un bus, di quelli che subiscono agguati in continuazione? E per andare dove, se i terroristi (e li chiamo così perché non so con quale altro nome definirli, ma tu usa pure il termine che ti sembra più adatto) arrivano anche nelle scuole a minacciare con il coltello alla gola gli allievi che non vogliono partecipare alle loro manifestazioni o nei negozi per costringere i commercianti a scioperi forzati. Ogni uscita deve essere ben ponderata, perché per noi potrebbe essere il preludio di un rapimento, come è già successo a molti amici, vicini e conoscenti, spariti all’improvviso e tornati dopo giorni folli per via delle torture subite o restituiti a pezzi in qualche angolo della città. Quanti medici sono stati uccisi, quanti professori, quanti giovani, uomini, donne, bambini, con la sola colpa di non aver abbandonato la loro fiducia nel governo. Quante notti e giorni abbiamo passato con il sottofondo del muezzin che dalle moschee cittadine invocava la Jihad, la guerra santa, ma contro chi? I propri concittadini? Cos’ha di santo una guerra così? Cos’ha di santo ogni guerra? Ma questi ribelli ascoltano solo Arrour, che per l’Eid ha invitato a scegliere gli uomini (le donne no, perché non abbastanza degne) al posto degli animali per il sacrificio rituale, e colpiscono indiscriminatamente senza criterio al solo scopo di eliminare ogni essere che la pensa diversamente da loro, senza rendersi conto di quanto folle e controproducente possa essere questo proposito. Solo la scorsa settimana la nostra famiglia ha perso due cugini e un caro amico, massacrati a colpi di accetta insieme ad altre nove persone dopo che il minibus pubblico sul quale viaggiavano è stato assalito dai terroristi; tre donne nostre vicine sono state rapite e denudate in mezzo alla strada prima di venire uccise a sangue freddo; e l’elenco di azioni da far rabbrividire potrebbe continuare ancora a lungo (solo il 3 novembre sono arrivati in ospedale ben 104 corpi): una ferita aperta che si acutizza al pensiero che non si accontentano di uccidere, ma vogliono aggiungere anche il dolore e l’umiliazione della tortura. E le due parti della città, prima fuse insieme senza soluzione di continuità, ogni giorno, a ogni sparo, a ogni ferito, a ogni morto, diventano un po’ più distanti: due mondi opposti che hanno sempre convissuto pacificamente, ma che impiegheranno di certo molto tempo a ritrovare una completa fiducia reciproca. E questa, a prescindere da come andranno le cose, è già una prima enorme sconfitta per tutto il popolo siriano.
I Ros abbattono una porta per catturare il Boss: citati!
Sempre da Linkiesta vengo a sapere di questo fatto che ha dell’incredibile. Oltre al risarcimento faccio notare il rischio di rendere noto il domicilio! Ecco una sintesi.
Per catturare il boss abbatti la porta dell’appartamento? Ti chiedo i danni e pure dove abiti. Così è andata a finire per i carabinieri del Ros di Reggio Calabria dopo l’arresto del boss Pasquale Condello, detto “Il supremo”, ricercato dal 1990 e arrestato nel febbraio del 2008 dal Raggruppamento operativo speciale. Condello dal 1990 per le forze dell’Ordine era un fantasma, così nel 1993 per lui, in cima alla lista dei latitanti di ‘ndrangheta, era scattato anche un mandato di cattura internazionale ai fini dell’estradizione. Fantasma fino al 18 febbraio 2008, data in cui il Ros dei Carabinieri guidato dal colonnello Giardina riescono a individuare e fare irruzione nel covo di Pasquale Condello. Una indagine complessa e difficilissima, nonostante “il supremo” si trovasse in realtà in quel di Reggio Calabria. La notte del 18 febbraio il Raggruppamento Operativo deve abbattere la porta d’ingresso dell’alloggio in cui il boss è rifugiato. Un abbattimento che va a carico degli uomini che hanno eseguito la cattura, cui, incredibile ma vero, viene inoltrata una richiesta di risarcimento danni. Questo è quanto mostra un documento del ministero dell’Interno datato 21 dicembre 2009, in seguito alla richiesta danni del proprietario dell’alloggio in cui Condello avrebbe passato alcuni mesi della sua latitanza. Nel documento del Ministero si chiede espressamente «con la massima e cortese urgenza, l’attuale domicilio, privato e di servizio, dei militari che hanno partecipato all’operazione di polizia dalla quale sono derivati i danni […] che questa Amministrazione ha provveduto a risarcire». … Una situazione paradossale, soprattutto se si pensa che il proprietario dell’alloggio ha fatto richiesta di risarcimento danni ai soli Carabinieri del Ros e mai all’affittuario dell’appartamento, individuato come favoreggiatore di Condello e arrestato nel corso della stessa operazione…
In attesa del 20112011…
Sara ed io ci siamo messi insieme il giorno 11 (era il 1995) e ieri mi sono divertito a mandarle un pensiero alle 11.11. Su Facebook era pieno di post e messaggi su questa data originale e unica: molti dicevano “Ricapiterà di nuovo tra 1000 anni”. Devo far notare che ricapiterà di nuovo tra 100 anni: l’11 novembre 2111 sarà comunque un 11.11.11. Inoltre non è, come hanno detto molti, una data palindroma: il 01.02.2010 era palindromo, non l’11.11.2011. Infine mi pare più carino il prossimo 20.11.2011… Sta di fatto che dal 2013 questi giochini verranno meno, visto che siamo dotati di solo 12 mesi… In ogni caso, per i più curiosi, pubblico qui sotto un post del 10 novembre preso da Linkiesta.
Sebbene nel 2012 ad attenderci al varco ci sarà la profezia per antonomasia, quella legata al calendario Maya, anche l’anno corrente si è dimostrato piuttosto generoso con chi avanza teorie catastrofiste. Oltre al nostrano Raffaele Bendandi che immaginava una Roma rasa al suolo da un terremoto in data 11 maggio, imperdibili le puntate della lenta decadenza di Harold Camping: guru americano diventanto ricchissimo, predice la fine del mondo dal lontano 1994, giocandosi i due assi nella manica del 21 maggio e del 21 ottobre 2011, salvo poi rassegnare le dimissioni aprendo gli occhi e trovando il solito mondo al medesimo posto. Domani è uno di questi giorni un po’ speciali, ma irrimediabilmente destinati a scivolare via come niente fosse. Alle ore 11:11 minuti ed 11 secondi dell’11 novembre 2011 (o 11/11/11), si realizzerà uno dei palindromi più lunghi legati al numero uno: una sequenza numerica (in questo caso), cioè, che letta al contrario rimane immutata. Leggenda vuole che lo scopritore del palindromo sia stato il poeta greco Sotade, vissuto ad Alessandria d’Egitto nel terzo secolo d.C.; a causa della complessità strutturale dei suoi poemi palindromi, il tiranno locale lo fece gettare in mare con una pietra legata al collo. Nel frattempo, gli apocalittici stanno dando libero sfogo alla fantasia, sbizzarrendosi nelle teorie più improbabili. Quelle maggiormente quotate e che hanno riscosso un discreto passaparola, sono l’Apocalisse terrena, l’inizio della fine (quella che in gergo new age definiremmo una “nuova era alle porte”), il giorno del giudizio e l’immancabile sbarco degli alieni. Il vero appuntamento da non perdere è però in Argentina. A Capilla del Monte, 800 chilometri da Buenos Aires, ci sarà un raduno di migliaia di persone che accorreranno da ogni parte del globo, impazienti di assistere alla fine del mondo o all’apertura di una porta cosmica che consenta il passaggio ad un’altra realtà. La particolarità del paese, che domani assisterà ad un flusso turistico senza precedenti, sta nella sua collocazione geografica: Capilla sorge infatti ai piedi dell’Uritorco, montagna mitologica circondata da leggende secolari preispaniche ed è ritenuta cruciale in vista di una apocalisse data la sua concentrazione magnetica altissima dovuta alla pirite. Bufala o meno, gli alberghi che sorgono nell’arco di qualche centinaia di chilometri sono completamente sold-out già da mesi, e anche l’ufficio del turismo si è attivato distribuendo depliant e cartelloni pubblicitari tematici. Di certo ed acclarato, c’è però il dato di fatto che la sequenza numerica non solo comparve una sola altra volta nella storia con più “potenza”, l’11/11/1111, ma non ricorrerà mai più nel corso del tempo in questa forma, almeno fino al 22/02/2222. Su quella precisa giornata di fervente Medioevo non abbiamo informazioni particolari, poiché il conteggio cristiano nacque con il calendario gregoriano nel 1582 grazie al monaco Dionigi il Piccolo. In quell’anno però, notizie storiche assicurano che il re Enrico V imprigionò papa Pasquale II al fine di ottenere il pieno diritto di investitura; inoltre, trovò morte misteriosamente – a soli 53 anni – anche l’uomo considerato uno dei maggiori mistici persiani di sempre, Al-Ghazali.
Negli studi di simbologia numerica, l’undici (che ricorre in questo caso tre volte, 11-11-11) rappresenta una delle cifre che più è oggetto di controversie interpretative. I suoi significati sono molteplici, ed ovviamente variabili da cultura a cultura, essendo il simbolismo intimamente legato agli sviluppi sociali e alle tradizioni storiche, oltre che a vicende di interesse collettivo. La cabala ebraica, il pensiero mistico della tradizione esoterica, considera l’undici come uno dei numeri più nefasti e portatore di sventure: 11 è il numero dell’unione delle lettere di Petrus e Judas, 11 il numero delle lettere della parola Apocalypsis, 11 sono anche le lettere di “Ultima Coena”, ai due lati di Gesù appare per due volte un apostolo che, con le mani spalancate e uno con il dito indice teso, compone in entrambi i casi la cifra 11. Anche la Bibbia è piena di riferimenti. Nel Salmo 11, si analizza un pensiero pessimistico ma terribilmente contemporaneo, che istintivamente crea un parallelo con alcune piaghe moderne quali la corruzione dilagante e la superbia umana che annichilisce ed avvelena tutto, o quasi. Ma, ancora più significativo, l’undicesimo libro del testo sacro è l’Apocalisse, evento finale che descrive la devastazione di terra e umanità. Con queste coincidenze numeriche, non sono solo fanatici e complottisti mondiali ad andarci a nozze: le chiese, hanno infatti ricevuto un boom di prenotazioni per matrimoni assolutamente incredibile. Mobilitato anche il mondo del cinema, uno dei primi settori a sentire l’odore del sangue fresco per poi catapultarsi a fionda sulla sensibilità comune evocando scenari più amatricianeschi che altro: prossimamente, nelle sale, un film diretto da Darren Bousman che titola, ovviamente, “11-11-11”. La trama potete immaginarla. Semplice data, dunque, o avvertimento del destino? In caso di bufala, sarebbe l’ennesima figuraccia del pessimismo catastrofico. Ma citando Benedetto Croce, «vale la pena ricordare che tali congetture non esistono, ma è bene tenerne conto».
Imparare dalla natura
In questi giorni, passeggiando in mezzo ai campi in compagnia del fido Mou, sto ammirando i colori dell’autunno. Sembra quasi che la natura abbia tenuto il meglio per il momento prima di addormentarsi… Mi è venuto in mente questo brano di Nietzsche che leggiamo in quarta:
“Osserva il gregge che pascola dinnanzi a te: non sa che cosa sia ieri, che cosa sia oggi; salta intorno, mangia, riposa, digerisce, salta di nuovo, e così dal mattino alla sera e giorno dopo giorno, legato brevemente con il suo piacere e con la sua pena al piuolo, per così dire, dell’attimo, e perciò né triste né annoiato. Vedere tutto ciò è molto triste per l’uomo poiché egli si vanta, di fronte all’animale, della sua umanità e tuttavia guarda con invidia la felicità di quello – giacché egli vuole soltanto vivere come l’animale né tediato, né addolorato, ma lo vuole invano, perché non lo vuole come l’animale. L’uomo chiese una volta all’animale: “Perché mi guardi soltanto, senza parlarmi della tua felicità?” L’animale voleva rispondere e dire: “La ragione di ciò è che dimentico subito quello che volevo dire” ma dimenticò subito anche questa risposta e tacque: così l’uomo se ne meravigliò.” (Sull’utilità e il danno della storia per la vita. Considerazioni inattuali, II, cap.1, 1874)
E’ una lettura che abbiniamo sempre al Canto notturno di un pastore errante dell’Asia:
“…O greggia mia che posi, oh te beata,
che la miseria tua, credo, non sai!
Quanta invidi ti porto!
Non sol perché d’affanno
quasi libera vai;
ch’ogni stento, ogni danno,
ogni estremo timor subito scordi;
ma più perché giammai tedio non provi.
Quando tu siedi all’ombra, sovra l’erbe,
tu se’ queta e contenta;
e gran parte dell’anno
senza noia consumi in quello stato.
Ed io pur seggo sopra l’erbe, all’ombra,
e un fastidio m’ingombra
la mente, ed uno spron quasi mi punge
sì che, sedendo, più che mai son lunge
da trovar pace o loco.
E pur nulla non bramo,
e non ho fino a qui cagion di pianto.
Quel che tu goda o quanto,
non so già dir; ma fortunata sei.
Ed io godo ancor poco,
o greggia mia, né di ciò sol mi lagno.
Se tu parlar sapessi, io chiederei:
dimmi: perché giacendo
a bell’agio, ozioso,
s’appaga ogni animale;
me, s’io giaccio in riposo, il tedio assale?…”
Ecco, in questi giorni di preoccupazioni, di ansie per il futuro economico, di timori, penso che possiamo imparare un po’ dalla natura.
Kung fu e filosofia
Vediamo chi ha voglia di arrivare fino in fondo a questo articolo pubblicato su Diogene Magazine. Riguarda il vero significato del kung fu…
Un’agenzia di stampa del 2005 diede la notizia che presso il tempio Shaolin, monastero buddhista cinese molto noto per le arti marziali, un monaco si espresse su uno stereotipo diffuso: “Molte persone hanno una concezione errata delle arti marziali come qualcosa il cui fine è il combattimento e l’uccisione quando, invece, servono ad approfondire la saggezza e l’intelligenza”. D’altronde, il kung fu per molti occidentali è conosciuto unicamente tramite film di arti marziali quali Enter the Dragon o La tigre e il dragone. Nel cinema, lottatori bravi e acrobatici come Bruce Lee, Jackie Chan e Jet Li vengono visti come “maestri di kung fu”. Ma, come notò il monaco shaolin, il kung fu riguarda molte più cose rispetto al mero combattere. C’è un kung fu della pittura, della danza, della cucina, dello scrivere e del recitare, del retto giudizio, dell’etichetta, persino del governo. Durante le dinastie Song e Ming il termine kung fu veniva ampiamente utilizzato da neo-confuciani, taoisti e buddhisti per designare in generale l’arte di vivere. L’estensione del significato del kung fu è una chiave per comprendere la tradizione filosofica cinese, e il modo in cui in parte converge e in parte diverge da quella occidentale. La maggiore preoccupazione della filosofia cinese non riguarda la verità, come nel pensiero occidentale, bensì il come vivere una buona vita.
La famosa domanda di Zhuangzi, pensatore del quarto secolo, che si chiedeva se avesse sognato di essere una farfalla o se fosse una farfalla che sognava di essere Zhuangzi, è una massima kung fu e al contempo un quesito epistemologico. Invece di intraprendere la ricerca della certezza, come nel sogno di Cartesio, Zhuangzi giunse a realizzare di aver percepito “la trasformazione delle cose”, scoprendo che bisognerebbe assecondare tale trasformazione invece di cercare vanamente di scoprire cosa sia reale. Il richiamo confuciano alla “rettificazione dei nomi”, secondo cui bisognerebbe utilizzare appropriatamente le parole, è più un metodo kung fu per assicurare l’ordine sociale e politico che un tentativo di cogliere l’essenza delle cose, nel momento in cui i nomi, o le parole, sono indicatori delle aspettative su come il portatore dei nomi dovrebbe comportarsi ed essere trattato. La dottrina buddhista della negazione del sé potrebbe apparire metafisica, ma il suo vero scopo è liberare dalla sofferenza, dato che secondo il buddhismo la sofferenza deriva dall’attaccamento al sé. Le meditazioni buddhiste sono pratiche kung fu per scuotere l’attaccamento alle cose materiali, e non indagini intellettuali per giungere alla verità. Fraintendere il linguaggio della filosofia cinese intendendolo, per usare l’espressione di Richard Rorty, come uno “specchio della natura”, sarebbe come scambiare il menù per il cibo. L’essenza del kung fu (un insieme di arti e istruzioni su come coltivare la persona e condurre la vita) è spesso difficile da digerire per chi è abituato ai sapori della filosofia occidentale mainstream. È comprensibile che, anche con una sincera volontà di provarci, si rimanga spiazzati, nei testi classici cinesi, dalla mancanza di definizioni chiare dei termini chiave o dall’assenza di argomentazioni lineari. Ciò, tuttavia, non è una debolezza, quanto un requisito del kung fu. Proprio come nell’imparare a nuotare si richiede di concentrarsi sulla pratica e non sulla teoria: solo andando oltre le definizioni concettuali della realtà è possibile aprirsi a quel tipo di intelligenza rappresentata dalle arti della danza e della recitazione.
Tale sensibilità allo stile, alle tendenze più sottili e a una visione olistica richiede un’introspezione simile a quella necessaria a superare ciò che il filosofo Jacques Derrida ha identificato come il problema del logocentrismo occidentale. Si può così arrivare persino a espandere l’epistemologia verso il reame non concettuale in cui l’accessibilità della conoscenza dipende dalla coltivazione delle facoltà cognitive, e non semplicemente da ciò che è pubblicamente osservabile da tutti. Una persona esemplare potrebbe avere un carisma grande al punto da influenzare gli altri, ma non necessariamente conosce come influenzarli. Nell’arte del kung fu c’è quello che lo storico Herbert Fingarette, nel suo saggio Confucio, chiama “un elemento magico”, ma “specificamente umano” nella sua praticità, qualcosa che “riguarda sempre grandi risultati ottenuti senza sforzo, meravigliosamente, grazie a un potere irresistibile e invisibile”.
I filosofi Pierre Hadot e Martha Nussbaum, anche grazie al dialogo filosofico globale fra diverse tradizioni, hanno entrambi cercato di “rettificare il nome” della filosofia mostrando come i filosofi antichi dell’Occidente quali Socrate, gli stoici e gli epicurei, fossero interessati in primis alla virtù, agli esercizi spirituali e alle pratiche rivolte al vivere una buona vita, piuttosto che al puro esercizio teoretico. Da questo punto di vista, la filosofia occidentale delle origini è simile alla filosofia classica cinese. Ciò attira la nostra attenzione verso una dimensione che è stata eclissata dall’ossessione della ricerca di verità eterne e universali tramite l’argomentazione razionale. Eppure, anche quando i filosofi hanno considerato le loro idee come puri discorsi teoretici rivolti alla scoperta della verità, le loro teorie non hanno mai smesso di funzionare come guide per l’agire umano. Il potere dell’Illuminismo moderno è stato pienamente dimostrato sia nelle grandi conquiste che ben conosciamo sia nei profondi problemi che oggi ci troviamo ad affrontare. I nostri modelli comportamentali sono profondamente informati da idee filosofiche che sembrarono così innocenti da essere prese per verità evidenti. È sia ironico sia allarmante che quando il filosofo Richard Rorty lanciò il suo attacco contro la filosofia razionalistica, egli diede per scontato che la filosofia possa assumere unicamente la forma di una ricerca della verità oggettiva. Il suo rifiuto della filosofia ricade nella medesima trappola dalla quale vorrebbe mettere in guardia: considerare i concetti filosofici come “specchi” della realtà e non come leve o strumenti. Si potrebbe considerare la prospettiva cinese del kung fu come una forma di pragmatismo simile a quella ideata dal filosofo John Dewey, le cui idee furono non a caso ben accolte in Cina. Ciò che il kung fu aggiunge rispetto al pragmatismo è l’enfasi sulla coltivazione e trasformazione della persona. Un maestro di kung fu non si limita a compiere scelte sagge e a utilizzare mezzi appropriati rispetto ai fini preposti, questo perché il soggetto agente non è accettato come dato scontato e immutabile. Un agire efficace potrebbe essere il risultato di una decisione razionale, ma una buona azione improntata al kung fu trova le sue radici nell’intera persona, comprendendo i sentimenti e gli atteggiamenti corporei, e la sua bontà si mostra non solo nelle conseguenze cui giunge ma anche nello stile artistico tramite cui è stata eseguita. Questo approccio kung fu condivide molti aspetti con l’idea aristotelica di virtù, che si focalizza sulla coltivazione dell’agente piuttosto che sulla formulazione di regole di condotta. Tuttavia, a differenza dell’etica aristotelica, il kung fu non cerca un fondamento o giustificazione in nessuna teoria metafisica sottostante. Non c’è bisogno di credere in una finalità predeterminata dell’essere umano per apprezzare l’eccellenza che il kung fu è in grado di perseguire. Per tutti questi motivi, è opportuno considerare il kung fu una forma di arte, perché come per l’arte la sua funzione non è di offrire un’immagine accurata della realtà, e la sua espressione non è vincolata da principi universali o dalle regole della logica, richiedendo piuttosto l’incarnazione della virtù, la coltivazione dell’artista, immaginazione e creatività. Se, come sostiene il filosofo Pierre Hadot, la filosofia è uno stile di vita, l’approccio kung fu suggerisce di considerare questa disciplina come la ricerca dell’arte di vivere bene.
Pubblicato originariamente in “The New York Times”, 8 ottobre 2010.
Insegnante difficile
Il nome, il lago, le conversioni
Segnalo tre articoli da Asianews.
Il primo riguarda l’iniziativa su Twitter di un gruppo di sauditi che vogliono rompere la tradizione per la quale un uomo non dice mai in pubblico il nome di una sua donna (madre, sorella o moglie). “I nomi delle donne sono stati sempre un’ossessione degli uomini sauditi. Si vergognano se la gente conosce il nome della loro madre, sorella o moglie. Un uomo può ricattarne un altro, se sa il nome della madre”.
Il secondo tratta del lago Orumieh (Iran nord occidentale), il terzo bacino idrico salato del mondo, che si sta prosciugando, a causa dell’elevata evaporazione e dello sfruttamento dei fiumi immissari. Ciò potrebbe costringere oltre 14 milioni di persone ad abbandonare le proprie terre. Temendo un’invasione, le autorità turche e azere hanno invitato Teheran a prendere seri provvedimenti per rallentare la desertificazione della zona.
Infine, il terzo riporta il pensiero di Praveen Togadia, segretario generale del Vishwa Hindu Parishad (Vhp – movimento estremista indù); egli chiede la pena di morte con decapitazione per chi cerca di convertire gli indù ad altre religioni.
Incontro con Salvatore Borsellino
Segnalo un importante appuntamento: VENERDI’ 18 NOVEMBRE alle 20.45 a Zugliano, al Centro Balducci, ci sarà un incontro con SALVATORE BORSELLINO, fratello di Paolo. L’incontro è organizzato dal Movimento Agende Rosse.
Paolo Borsellino, Magistrato, ha fatto della sua lotta contro la mafia la ragione della sua vita. Muore in un attentato a Palermo il 19 luglio 1992. Da quel momento sparisce l’agenda rossa sulla quale era solito appuntare riflessioni e contenuti dei suoi colloqui investigativi. La stessa agenda rossa è oggi l’emblema di un oscurantismo mirato, pilotato e difeso da chi per interessi personali, tornaconti o paura si nasconde sotto il mantello dell’omertà. A cosa stava risalendo Paolo Borsellino? Quali realtà sotterranee scomode stavano emergendo dal suo lavoro? Quali intrecci fra i poteri? Chi poteva temerlo? Nonostante la Magistratura abbia ottenuto importanti certezze sulla responsabilità dell’associazione criminale ”Cosa Nostra” per l’assassinio, permangono pesanti zone d’ombra, in particolare riguardo alla presunta complicità di pezzi dello Stato con la criminalità organizzata e la richiesta recente di revisione del processo per strage di via d’Amelio ne è segno eloquente. Il nostro scopo principale è quello di sostenere la battaglia di Salvatore Borsellino, fratello di Paolo e presidente dell’associazione “Movimento Agende Rosse”, nel rivendicare il diritto/dovere civile, culturale, politico e morale di fare progressivamente luce su questo capitolo ancora troppo ambiguo della storia italiana, per poter permettere alla Magistratura di fare il proprio corso con trasparenza.
Nasciamo come nucleo apolitico e apartitico, di matrice democratica e apertura al confronto, di persone che credono in quella democrazia che non è solo parola ma soprattutto concretezza. Proponiamo un incontro tra coloro che credono nel fondamentale valore della Giustizia, della Verità; come Dovere ancor prima che Diritto. Chi può essere un’Agenda Rossa? Può essere qualsiasi cittadino, indipendentemente dal suo schieramento politico, che ama la Verità e che da e in essa si sente tutelato e rispettato, chiunque creda profondamente nella bellezza del fresco profumo di libertà che si contrappone al puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità.
http://www.centrobalducci.org/easyne2/Archivi/BALD/PDF/0001/1142.PDF
Giovani iraniani
Un bellissimo articolo di Benedetta Argentieri, preso dal Corriere: descrive vita e idee dei giovani iraniani.
TEHERAN – Un grande cartello, sfondo bianco e caratteri rossi, annuncia un forum internazionale sulla Palestina. Una discussione per combattere il potere sionista «nella regione» e dare la massima solidarietà ai «fratelli» che vogliono essere riconosciuti all’Onu. L’invito è esteso a tutti. Di fianco il disegno di un kalashnikov, che più tardi si scoprirà essere il simbolo dei militari. È l’unico manifesto nei corridoi dell’aeroporto. Il messaggio è chiaro: benvenuti in Iran, terra dalle mille contraddizioni, dove l’apparenza, in molti casi, conta più della sostanza. Un Paese in cui nascondere i propri orientamenti (sessuali o politici che siano) è la prassi. Una nazione in cui la religione scandisce la quotidianità delle persone a prescindere che siano credenti o meno. Uno Stato in cui la condizione delle donne è di subordinazione all’uomo. Soprattutto una nazione dove la disponibilità, la generosità e la bellezza delle persone è mescolata alla paura e alla rabbia. E in alcuni casi alla voglia di cambiare.
«L’Iran non è libero», ammette Mohammed, portiere di un piccolo albergo a Teheran. Nel momento in cui pronuncia queste parole si è già pentito. Criticare, attaccare o anche solo giudicare il regime è pericoloso. Le pene sono varie, dal carcere alla fustigazione. In particolare se ci si lascia andare a commenti con stranieri. I turisti da queste parti sono merce rara. «Negli ultimi anni sono sempre meno, complice una campagna stampa contro Khamenei e Ahmadinejad», spiega Shaabi. Capelli scuri, occhi chiari, dai modi cordiali. Studia ingegneria elettronica all’università della capitale. Ma lui ci tiene a sottolineare, «noi non siamo così». E per dimostrarlo rinuncia a ore in compagnia di amici, per mostrare le bellezze della sua città. Senza volere nulla in cambio, nemmeno un pranzo. Il caos regna in una città di 15 milioni di abitanti che nonostante centinaia di cantieri aperti riesce a essere pulita. Il traffico sembra non fermarsi mai. La metropolitana, in cui si intravedono caratteri cinesi, è stata inaugurata da poco ed è affollata. Gli autobus che hanno una sbarra per dividere uomini e donne, sono frequenti. E i taxi collettivi si trovano a ogni ora del giorno. Non sembra bella Teheran, ma esercita un grande fascino. Su ogni palazzo ci sono i ritratti del fondatore della patria, l’Ayatollah Khomeini. A ogni angolo c’è un poliziotto o un militare armato. Su quasi ogni muro un murales. Il soggetto dipende dagli edifici: sulle scuole ci sono fiori e animali. Sugli altri disegni in cui si ricorda la guerra contro l’Iraq (1980-88) e il sacrificio di molti uomini. Sull’ex ambasciata americana, dove nel 1980 52 diplomatici sono stati presi in ostaggio da un gruppo di studenti (tra questi anche Ahmadinejad), campeggia una statua della libertà che ha il volto della morte e il simbolo di Israele spezzato.
«Il nostro è un Paese pacifico verso coloro che non vogliono egemonizzarlo». Habib si siede tutti i giorni nel cortile del Golestan, il vecchio palazzo dello scià, durante l’ora di pranzo. Si prende una pausa dalla sua bottega di calzolaio per leggere poesie francesi. Aspetta qualcuno con cui parlare. La panchina è il posto migliore per attendere turisti del museo. Il volto di Habib è segnato da profonde rughe, ma quando parla dei cambiamenti del suo Paese gli si illuminano gli occhi scuri. Gli piace ricordare i tempi della Rivoluzione nel 1979 («Meno male che c’è stata, ora abbiamo equità sociale»), attaccare le politiche internazionali degli Stati Uniti («Sono loro ad aver prodotto il terrorismo con le guerre in Iraq e in Afghanistan») e sostenere la corsa all’atomo («Dobbiamo essere indipendenti»). Ma su questo ultimo punto, in tanti non sono d’accordo. Anzi.
La rabbia cresce quando si esce della capitale. Il treno notturno che porta a Yazd (tappa obbligata per chi è per la prima volta in Iran) è pieno, ogni scompartimento è occupato da famiglie che tornano a casa, giovani coppie che vogliono fare una vacanza: «Non possiamo andare all’estero, ma almeno vogliamo visitare il Paese». Con le luci della città alle spalle si entra nel deserto che all’alba sembra sconfinato. Ci vogliono quasi 630 chilometri per raggiungere «la città più antica del mondo». E si arriva in un dedalo di stradine senza un’indicazione, in cui è bello perdersi. Le case, di fango e paglia, sono basse, hanno piccoli portoni con battacchi diversi per uomini e donne. I negozi sono appena fuori la parte vecchia. Tessuti, souvenir, vestiti, oggetti di legno. Dentro a uno di questi due giovani chiacchierano con chiunque capiti a tiro. Vogliono fare amicizia e aprono le porte delle loro case. Quello di Javad è un appartamento con cucina a vista e le pareti giallo ocra. Su due mensole c’è una collezione di brocche antiche e in un angolo la televisione con un sistema di amplificazione degno di un locale notturno. «La sera ci piace ballare con gli amici», spiega il giovane guardando le casse con una punta di orgoglio. Questi 60 metri quadri sono un punto di ritrovo per molti coetanei. Su una sedia ci sono alcuni mantelli neri. Chador usati dalle ragazze che ora cucinano riso e gamberetti fritti. Hanno tutte i pantaloni e magliette attillate. Nei capelli nastri e cerchietti. Le domande su come si vive in Italia sono una sorta di mantra. Ma quando il discorso ritorna all’Iran è una pioggia di critiche. Javad, si toglie gli occhiali, accarezzandosi il pizzetto, scuote la testa. «Le bollette di luce e gas sono triplicate a causa delle sanzioni. Il petrolio è alle stelle. Fino a due anni fa, dieci litri di benzina costavano un dollaro, oggi per la stessa cifra si prende un litro». Il tutto senza che i salari abbiano avuto un ritocco. Il governo ha spiegato che la centrale nucleare è «un progetto importante», promettendo che «gli sforzi saranno ripagati». Ma per chi come questo ragazzo di 28 anni vive di turismo, la situazione si fa sempre più difficile.
Non c’è solo la questione economica. Per i giovani, che rappresentano i due terzi della popolazione, i «ricatti religiosi» stanno diventando insostenibili. Da Yazd a Shiraz, culla della cultura persiana, lo scetticismo non cambia, anche se dal panorama sembra di essere in un altro Paese. Il lungo letto del fiume che divedeva la città è asciutto da più di un anno. Non piove da almeno 600 giorni. Ogni cento metri c’è un palazzo in stile quajaro. Le strade sono larghe e alberate. La città è il punto di appoggio per andare a visitare Persepoli. E sempre qui si trova la tomba di Hafez, «il più grande poeta di tutti i tempi», che è diventato luogo di pellegrinaggio. Famiglie, anziani e tanti studenti. E sotto un portico, Ava, 19 anni, parla di regole e imposizioni. «Un esempio? Se esco per strada senza velo mi arrestano, eppure la mia famiglia non è religiosa. Mi ha sempre detto che potevo fare quello che volevo». E in segno di ribellione Ava tiene il velo largo e posato in fondo alla nuca, tenendo scoperti i capelli neri. Se vuole entrare in università, deve cambiarsi, indossare una divisa. Lei, come i suoi compagni di biologia, accede a Facebook almeno una volta al giorno. La Rete però è criptata, per questo usano delle chiavette, con password particolari, per riuscire a ingannare il grande occhio del regime che è sempre più attivo. «Hanno vietato il satellite. Vogliono tenerci all’oscuro di tutto». La preoccupazione, dicono, è per gli eventi della vicina Siria, «sono i nostri eroi, se ci riescono loro potremmo farcela anche noi», ripetono all’unisono. Ma per un giovane contro il regime, basta fare pochi passi che se ne incontra un altro di orientamento opposto. «Ahmadinejad? È un grande, ci ha davvero aiutati». Visioni opposte che preoccupano, perché se in molti vorrebbero tornare in piazza, altri difenderebbero la «cupola». E si andrebbe quindi a una guerra civile. Gli scontri del 2009, la repressione che ne è seguita, gli amici seppelliti in qualche prigione (se non peggio) sono pensieri ricorrenti. Ma anche se non portano il braccialetto verde («Ci arresterebbero»), i giovani, in molte zone del Paese, sono pronti.








