Amo moltissimo Turoldo. Alla vigilia di Ognissanti posto un suo testo molto ricco sulla santità.
Penso che uno dei grandi errori, meglio, uno sbaglio con conseguenze gravi, coinvolgenti le ragioni ultime dell’esistere e dell’operare umano, sia quello di avere, da parte di tutto il mondo della cultura, ignorato e, se non peggio, rinnegato il tema della santità. Sbaglio che si affianca a un altro, commesso – e che si continua a commettere – a livello religioso. Compito dello Spirito – come è detto nella rivelazione cristiana -, è di condurci a tutta intera la verità. Di condurci sempre: un cammino quindi che è tuttora in atto. Come dire: la verità è più grande di noi. Non che quanto sappiamo e – soprattutto – crediamo non sia verità. È verità, ma non è tutta la verità. L’errore nasce quando precisamente spunta la presunzione che ci fa dire: ecco, questa è tutta la verità, e questa è la sua autentica ed esaustiva interpretazione. Come se Dio fosse proprietà di qualcuno e non il «Padre di tutti, che opera in tutti e che è sopra tutto e sopra tutti»: tanto, per andare subito a fondo della questione. Come se Dio si esaurisse nelle nostre formule e nei nostri sillogismi. E che invece Dio non sia sempre nuovo, da conoscere continuamente, in quanto fantasia del mondo sempre in atto: questo continuo rivelarsi dell’Essere a tutti gli esseri del creato. Nuovo, come nuova è la luce, come nuovo è il giorno che viviamo; infatti questo, di oggi, è un giorno mai vissuto da nessuno sulla terra. Dio, quale bene che si diffonde sull’intera creazione e si comunica ad ogni uomo. Per cui è detto che è «luce che illumina ogni uomo» che viene al mondo. Che illumina, ripeto, e cioè che illumina anche oggi, pure il bimbo che sta nascendo in questo momento nel più remoto angolo dell’universo.
Ora, nulla vi è a livello di più diretto e sostanziale rapporto di Dio con le sue creature che il renderci partecipi della sua santità. È per questo che la santità è ritenuta un mistero; se non sia da dirsi la somma di tutti i misteri: verità, su cui si dovrà sempre ritornare. È la ragione per cui la santità è patrimonio di tutti, come la vita, come l’amore; come la necessità di essere, appunto; e di essere in una precisa misura che è quella della pienezza di essere. Pena, diversamente, la delusione, o lo sconforto, se non anche la disperazione come ho già detto. È la ragione per cui tutti gli uomini cercano le stesse cose e hanno le stesse passioni; e tutti sono incontentabili e inquieti «fin quando il cuore (di tutti) non riposi in Lui». Che uno creda o non creda, ciò non fa differenza antropologica. Anche perché non è vero che uno non creda: crederà di non credere, questo sì, ma ciò è un’altra cosa! È vero invece che uno crede in un modo e uno in un altro. Il problema non è se Dio c’è o non c’è. Certe scritte sui muri (e sulla stampa) da parte di una facile propaganda religiosa fanno un po’ sorridere. Il problema non è Dio: il problema è in quale Dio credi. Questo sì che è un problema! Problema è dove si nasconde Dio, e perciò dove scoprirlo. Ma questo è un problema anche per chi crede, anche per i cristiani e per i cattolici. Anzi, posso dire che questo è il mio problema quotidiano.
Per tornare al valore della santità, se abbiamo inteso bene queste premesse, è chiaro che non solo non dobbiamo scandalizzarci nel constatare che la santità può essere patrimonio di qualsiasi religione, ma anzi, non c’è che da godere del fatto che giusti e santi sono esistiti e continueranno ad esistere presso tutti i popoli e in ogni tempo. E che perfino può esserci una santità dell’ateo: una santità «laica» per così dire (che poi è tutt’altro che laica: si veda in proposito il dramma di Camus nel libro La peste, e di altri; o, per altri aspetti, la passione di Dostoevskij nei Fratelli Karamazov – in Alioscia, ad esempio, o anche in Ivan nel Grande Inquisitore; e prima nello Staretz Zosima; sia nell’Idiota, e altro).
Santi e giusti avrebbero potuto esistere perfino in Sodoma e Gomorra: tanto è vero che Abramo era invitato da Dio a cercarli anche in Sodoma e Gomorra: città che, non avevano niente a che fare con la fede di Abramo. Che, se fossero esistiti, anche solo dieci giusti, Dio non avrebbe distrutto quelle città. E se invece non ce n’erano nemmeno dieci la colpa non è da attribuire alla impossibilità che ci fossero, ma solo al fatto che non c’è stato forse chi avesse risposto convenientemente a questa fondamentale esigenza dell’Essere: cosa che può succedere. Perciò sono stati distrutti. Diversamente Dio, questo Dio della giustizia e della santità, sarebbe il più ingiusto e perverso Iddio che si possa immaginare.