Election day

Domani è giornata di elezioni a scuola: rappresentanti di classe, di istituto, della consulta.puzzle.jpg Dedico questa storiellina di Bruno Ferrero a tutti quelli che si sono messi in gioco. Qualcuno di loro vincerà. Cosa? Un servizio, un servizio a tutti gli altri studenti: l’onore e la responsabilità di rappresentarli. La storiellina non la voglio interpretare o spiegare, coglietene voi il senso più opportuno. In bocca al lupo!

Durante l’assenza della moglie, un importante uomo d’affari dovette rimanere in casa per badare ai due scatenatissimi bambini. Aveva un’importante pratica da sbrigare, ma i due piccoli non lo lasciavano in pace un istante. Cercò così di inventare un gioco che li tenesse occupati un po’ di tempo. Prese da una rivista una carta geografica che rappresentava il mondo intero, una carta complicatissima per i colori dei vari stati. Con le forbici la tagliò in pezzi minutissimi che diede ai bambini, sfidandoli a ricomporre il disegno del mondo. Pensava che quel puzzle improvvisato li avrebbe tenuti occupati per qualche ora. Un quarto d’ora dopo, i due bambini arrivarono trionfanti con il puzzle perfettamente ricomposto. “Ma come avete fatto a finire così in fretta? “, chiese il padre meravigliato. “È stato facile”, rispose il più grandicello. “Sul rovescio c’era una figura di un uomo. Noi ci siamo concentrati su questa figura e, dall’altra parte, il mondo si è messo a posto da solo”.

Un lampo nell’aria

Ivano Fossati poco tempo fa ha annunciato che l’album Decadancing e il tour da poco iniziato saranno gli ultimi per lui: si ritirerà dalle scene. La prima traccia del CD è La decadenza, di cui posto il testo e l’esecuzione fatta in tv da Fazio. Il cantautore parla del nostro tempo, fatto di decadenza e degenerazione del pensiero, di oscurità e di mancanza di speranze, di bassa marea e di incertezze, di parole e persone senza chance. Come uscirne? Andando alla ricerca di una seconda possibilità chiedendola a Dio o all’uomo, all’amore: “Qui serve un segno di rispetto per la gente … serve un lampo nell’aria che si accenda oppure un’idea”.

In piena decadenza le parole non hanno chance 
è proprio una faccenda inquietante il pensiero che degenera 
Facciamo un affare con Dio ci lasci una seconda possibilità se può 
in questa decadenza, in mezzo a tanta oscurità, le speranze non hanno chance 
C’est la décadence c’est la décadence
Nessuna incertezza mai più in nome del cielo davvero mai più 
Qui serve un segno di rispetto per la gente in questa bassa marea 
serve un lampo nell’aria che si accenda oppure un’idea 
C’est la décadence c’est la décadence 
Mi guardo a sinistra poi guardo verso destra 
e tutto quello che ho da vedere è una frontiera da attraversare con te 
Facciamo un affare noi due ci diamo una seconda possibilità 
È la sopravvivenza è un biglietto per andare più avanti 
È trovare un lavoro è decenza 
È sapere con chi stare
È la differenza è un biglietto per andare più avanti
È trovare un lavoro è decenza
È sapere a chi spingere davanti 
C’est la décadence 
In questa decadenza le parole non hanno chance 
C’est la décadence 
In questa decadenza le persone non hanno chance 
C’est la décadence c’est la décadence

Moderne miserie

Un pezzetto della storia di Ali, preso dal sito del Centro Astalli

 

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Ali è un ragazzo di 26 anni, sudanese, del Darfur, giunto in Italia vivo per miracolo. È uno dei tanti arrivati dal mare. Dopo essere stato 60 giorni nel centro di prima accoglienza a Lampedusa e 30 giorni nel centro di permanenza temporanea di Agrigento, è stato espulso dall’Italia senza la possibilità di chiedere asilo. Una volta giunto in Inghilterra, nel rispetto della Convenzione di Dublino, gli hanno spiegato che doveva presentare richiesta di asilo nel primo paese europeo in cui era stato. Ora, con un permesso per motivi umanitari che finalmente gli è stato concesso dalle autorità italiane, sogna di fare il fornaio, il mestiere che gli ha insegnato suo padre.

Il mio viaggio per arrivare in Italia è iniziato in un tir: eravamo in 105 stipati uno vicino all’altro, ognuno con il suo posto pagato 100 dollari per attraversare il deserto fino in Libia. Il viaggio è durato una settimana, il cibo era poco e l’acqua meno. Ci facevano sgranchire le gambe una volta al giorno per cinque minuti. Una volta arrivato in Libia sono stato due mesi a Tripoli prima di poter partire per l’Italia. Non sapevo bene come fare a contattare chi organizza i viaggi, ma ci ho messo poco a capire a chi mi dovevo rivolgere per lasciare la Libia. Ho incontrato un gruppetto di sudanesi che mi hanno messo in contatto con un tizio, anch’egli sudanese. Poche parole, niente convenevoli: 1200 dollari è il prezzo di un posto su un gommone per un viaggio che – mi dicevano – “dura al massimo 12 ore: in questo periodo non c’è da preoccuparsi, il mare è calmo e non c’è vento”. Il 1 agosto del 2004, un giorno prima della partenza, sono stato avvertito che l’indomani all’una di notte mi sarei dovuto trovare in una spiaggetta nascosta non molto lontana dal porto. Oltre a me quella notte c’erano altre 16 persone ad aspettare. Eravamo tutti giovani uomini sudanesi, tranne un ragazzo e una coppia di coniugi ghanesi. Il marito si era offerto di guidare il gommone e per questo non aveva pagato la sua quota. Sapevamo che il viaggio doveva durare un giorno e avevamo con noi un panino a testa, un pezzo di formaggio e una bottiglia d’acqua per tutti. Ci avevano detto di non portare nulla perché sul gommone non c’era spazio per i bagagli. In realtà non c’era spazio nemmeno per diciassette persone, eravamo tutti molto stretti uno vicino all’altro. Comunque pensavo che dodici ore le avrei sopportate abbastanza facilmente. Ci abbiamo messo sei giorni ad arrivare. Cinque di noi non ce l’hanno fatta. Un vero incubo: dopo 25 ore di navigazione entrava acqua nel gommone e avevamo finito cibo e acqua da bere. Abbiamo avuto un barlume di speranza quando è comparsa all’orizzonte un’enorme nave bianca. Ci siamo avvicinati per chiedere soccorso. Dalla nave ci dicevano di allontanarci, che non ci avrebbero fatto salire. Vedevamo la nave allontanarsi insieme all’unica possibilità di salvarci tutti. Dopo altri due giorni così ormai eravamo esausti, pensavo di morire, che non ce l’avrei fatta e che era stato tutto inutile. Durante la notte tra il quarto e il quinto giorno, quando l’acqua ormai ci arrivava al collo, abbiamo deciso di tentare il tutto per tutto, tanto ormai non avevamo più nulla da perdere. E così abbiamo staccato il motore dal gommone per alleggerirne il peso e inoltre abbiamo buttato in acqua le taniche di benzina che avevamo a bordo. Quattro di noi hanno deciso di mantenersi a galla con le taniche vuote, abbondando per sempre l’imbarcazione che era inservibile. Io e gli altri non ce la siamo sentiti di seguirli e così siamo rimasti tutti vicini uno sopra l’altro appoggiati alla parte anteriore del gommone. I quattro che avevano scelto di affidarsi alle taniche vuote, spinti dalla corrente, non sarebbero mai arrivati in Italia. Al sesto giorno eravamo tutti consapevoli che non avremmo visto la notte…

Il disastro di Bangkok

Nel giorno in cui Roma finisce sott’acqua do spazio a quanto sta succedendo a Bangkok. La fonte è Asianews.

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Per salvare il centro economico della capitale Bangkok e la zona più popolosa, il governo di Bangkok ha deciso di usare la zona est per raccogliere e smaltire l’enorme piena che sta arrivando nella città, dopo mesi di piogge intense. Il drenaggio della piena attraverso la zona est allagherà almeno sette distretti: Sai Mai, Klong Sam Wa, Kannayao, Min Buri, Lat Krabang, Bang Khen e Nong Chok. Secondo il Dipartimento dell’irrigazione, entro domani arriverà alle porte della città una massa d’acqua di 8 miliardi di metri cubi. La zona di Ayutthaya e Pathum Thani (nel nord di Bangkok) porterà 120 milioni di metri cubi di acqua al secondo nella zona est; 100 milioni a ovest e 480 milioni di metri cubi nella zona nord, nella piana di Rangsit. Si prevede che nelle aree ad est, l’acqua raggiungerà un’altezza di 1-1,2 metri. L’enorme massa d’acqua ha reso fallimentari i tentativi del governo di salvare la capitale dalla piena con dighe e sacchi di sabbia. Enormi masse d’acqua rompono le barriere e scorrono verso la capitale. Le autorità della città hanno avvertito la popolazione della zona est di evacuare le loro case e trasportarsi in zone più alte per evitare la piena. La premier Yingluck Shinawatra si è appellata alla nazione, confessando che il suo governo cerca di fare il possibile, ma con pochi risultati, date le dimensioni del disastro. Ella ha chiesto solidarietà ai media e alla popolazione. “Stiamo facendo tutto il possibile – ha detto – ma questa è una grande crisi nazionale”. Le piogge torrenziali di questi mesi – le più intense da decenni – hanno fatto 317 morti in tutto il Paese: la maggior parte di loro sono morti annegati. Almeno 9 milioni di persone sono state colpite e 27 province su 77 sono allagate. Le acque hanno danneggiato negozi, industrie, distrutto risaie e raccolti. Per ora si calcolano danni per oltre 3 miliardi di dollari Usa. Ma il bilancio è in crescita.

Sospeso

Dedico questa storiella ai ragazzi di quinta e a tutti quelli che in questo momento si sentono un pochino o un bel po’ sotto stress…

Un uomo stava camminando nella foresta quando s’imbatté in una tigre. Fatto dietro-front precipitosamente, si mise a correre inseguito dalla belva. Giunse sull’orlo di un precipizio, scivolò e trovò un ramo sporgente a cui aggrapparsi. Guardò in basso, e stava per lasciarsi cadere, quando vide sotto di sé un’altra tigre. Come se non bastasse, arrivarono due grossi topi, l’uno bianco e l’altro nero, che incominciarono a rodere il ramo. Ancora poco e il ramo avrebbe ceduto. Fu allora che l’uomo scorse accanto a sé una bellissima fragola. Tenendosi con una sola mano, con l’altra staccò la fragola e la mangiò. Com’era dolce!

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Festa delle capanne

Domani è il settimo giorno della festa di Sûkkôt, il più solenne. È indicato con il nome di Hôsha‘nā’ rabbā’h, che è un canto tratto dal Sal 118,25. Per invocare da Dio le piogge per tutto l’anno, si fanno sette giri (haqqā’fôth) intorno alla sinagoga con frasche di salici e vestiti di bianco. Nel video il centro culturale Naar israel chabad lubavich inaugura la sukkah, la capanna per ricordare che gli ebrei vissero per 40 anni nel deserto prima di arrivare alla terra promessa. Victor Bendaud spiega storia e teologia della festa di sukkot che è una delle tre feste comandate direttamente da Dio agli Israeliti per bocca di Mosé.

Ambizione dagli occhi di bronzo

Gianfranco Ravasi ha postato questo testo su Parola & parole.

“L’ambizione ha occhi di bronzo che mai il sentimento riesce a inumidire. I corpi dei bronzi di Riace sono perfetti, ma quel loro sguardo metallico sembra vuoto e cieco. Non per nulla definiamo «faccia di bronzo»  la persona impudente e arrogante che ci oppone un volto ipocrita, senza nessuna contrazione facciale di pudore o vergogna. Ha, perciò, ragione Schiller quando, nella sua tragedia “genovese” Fiesco, dipinge l’ambizione come una faccia dagli occhi di bronzo, mai rigati da lacrime. Per la carriera e il successo a tutti i costi non ci si può attardare nel lusso dei sentimenti. Si procede inesorabili calpestando gli altri più deboli, ignorando le remore morali, gelando le emozioni e la compassione. «L’ambizione – scriveva Tolstoj – non può permettersi di accordarsi con la bontà; essa si accorda solo con l’orgoglio, l’astuzia, la crudeltà».”

Concordo su tutto se per ambizione si intende la brama di potere e di successo, l’essere disposti a passare sopra tutto e tutti pur di riuscire nei propri intenti. Se invece ambizione è l’aspirazione a migliorarsi, il desiderio caparbio di riuscire in qualcosa penso possa anche accordarsi con il “lusso dei sentimenti”.

Notizie dal Burundi

Il 24 settembre ho pubblicato un “post preoccupato” sulla situazione in Burundi e ho ricordato un amico missionario. Oggi ho trovato nella cassetta della posta il numero di ottobre di Nigrizia, ho sfogliato la rivista e ho letto una lettera di padre Claudio Marano, l’amico missionario, che così scrive:

“La nostra situazione in Burundi permane disastrosa. Da più di una settimana si corre padre claudio.jpgdietro alla pompa di benzina, perché non c’è carburante. Da mesi la luce appare 3-4 volte al giorno. Spesso manca l’acqua. Sui mercati e nei magazzini sono sparite molte cose. Si dice apertamente che, se si vuole uscire dalla presente situazione critica, bisogna triplicare i raccolti. I prezzi aumentano continuamente. Sono riapparse le monete da 50, 10 e 5 franchi (CFA), perché le banconote di carta sono finite. L’inflazione è alle stelle. La disperazione è di casa per tutti. Qualcuno parla di colpi di stato… I gruppi armati sono presenti in tutto il Paese. I morti e i feriti aumentano di settimana in settimana. Le ingiustizie sono all’ordine del giorno. Ieri un senatore è stato malmenato dagli agenti della documentazione, colpevole di aver chiesto loro cosa stessero scaricando dal loro camion. Invece di una risposta, ha avuto botte. Il nostro Centre Jeunes Kamenge risente di questa situazione. Siamo all’ultima settimana di campi estivi, ma non possiamo permetterci grandi cose. Siamo sempre senza fondi. La banca ci ha consentito di andare in rosso di 30 milioni di franchi, pagando ovviamente interessi altissimi. Ma noi non ci scoraggiamo. E voi tutti ricordatevi di noi.”

Ecco il mio ricordo condiviso Claudio.

Giornata mondiale dell’alimentazione

Oggi è stata la 30° Giornata mondiale dell’alimentazione. Prendo dal sito di Famiglia Cristiana.

Così, dal 1981. I prezzi dei beni alimentari hanno registrato un lieve calo rispetto al picco storico raggiunto nel febbraio 2011 (maggiore di quello, già alto, registrato nel 2008), ma un rapporto della Fao, pubblicato il 10 ottobre 2011, spiega che la volatilità dei prezzi dei beni alimentari è destinata a continuare. I prezzi elevati del cibo colpiscono due volte: non solo mettono in difficoltà le perone più povere del mondo, ma determinano anche un aumento dei costi per chi fornisce l’assistenza alimentare. I dati continuano ad essere allarmanti. Ogni cinque secondi un bambino muore per malattie legate alla fame. Oggi, nel mondo, più di 850 milioni di persone sono sottoalimentate: significa che un insieme di uomini e donne, giovani e anziani, grande circa 15 volte l’intera popolazione italiana fatica a mettere qualcosa sotto i denti. Il tutto, sapendo che il pianeta non è avaro: c’è cibo a sufficienza per nutrire adeguatamente ogni essere umano. La mobilitazione della società civile prosegue per spingere i Governi a non ridurre gli sforzi contro una piaga – quella della fame e della malnutrizione – che non bisogna cessare di combattere nonostante le oggettive difficoltà legate alla grave crisi economica. A chi niente (o poco). E a chi troppo. C’è sempre qualcuno che sciupa e butta via prodotti della terra o cibo ancora buona. Fortunatamente cresce anche il numero di chi sta più attento. Vigilando e intervenendo. Accade, ad esempio, in Emilia-Romagna, come rende noto l’agenzia di stampa Il redattore sociale.  In quella regione, nell’arco di tre anni si sono più che triplicate le quantità di prodotti recuperati e donati alle onlus grazie al progetto Last Minute Market. Nel 2010 sono stati recuperati 176.590 chilogrammi di alimentari (pari a circa 88 mila pasti), 42.790 pasti completi, 31.480 euro di farmaci e parafarmaci, 45.400 libri per un valore economico totale dei prodotti recuperati pari a 814.905 euro.

Nuove lapidazioni

Non avevo intenzione di scrivere su Roma. Poi mi sono imbattuto sul sito di Dimensioni Nuove in un articolo di Domenico Sigalini che commenta un pezzettino di Vangelo (qui sotto un estratto). E il mio pensiero, seppur trasversalmente, è andato a Roma, a tutti quegli imbecilli sempre pronti a usare la violenza, a voler far valere la ragione del più forte, a voler lapidare le idee degli altri. Non è questa la via, non può mai essere questa la via…

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I Giudei portarono di nuovo delle pietre per lapidarlo. Gesù rispose loro: “Vi ho fatto vedere molte opere buone da parte del Padre mio; per quale di esse mi volete lapidare?”. Gli risposero i Giudei: “Non ti lapidiamo per un’opera buona, ma per la bestemmia e perché tu, che sei uomo, ti fai Dio”… Ritornò quindi al di là del Giordano, nel luogo dove prima Giovanni battezzava, e qui si fermò. Molti andarono da lui e dicevano: “Giovanni non ha fatto nessun segno, ma tutto quello che Giovanni ha detto di costui era vero”. E in quel luogo molti credettero in lui.

Non avevano potuto lapidare l’adultera, gli si erano a forza aperte le mani per lasciare cadere il sasso, ciascuno aveva rivisto al rallentatore la sua vita ed erano stati costretti a reprimere una catarsi fin troppo comoda, irresponsabile, assassina. È sempre facile la tentazione di farsi una coscienza pulita scaricando la colpa sugli altri, su quella povera donna, su quella famiglia fallita. Stavolta però sono tornati i sassi in quelle mani, e la presa è più forte e sicura. Saremo moralmente non irreprensibili; siamo fatti tutti di carne, è pur vero ma bestemmiatori no! Noi sappiamo stare al nostro posto. Dio è l’altissimo, sia sempre benedetto il suo nome, noi sappiamo di essere creature. La nostra religione è la forza che tiene assieme il nostro popolo Lui è la roccia, noi siamo il popolo e gregge del suo pascolo. In quelle mani contratte, in quelle dita che trattengono nervosamente le pietre c’è tutta la storia, la cultura, ma anche l’ingessatura di un cuore indurito, di una religione tentata di fondamentalismo. E Gesù cerca di smontare questa schiavitù interiore. Ne va della sua missione! Dio Padre, l’abbà dei miei colloqui quotidiani, non è il Dio delle lapidazioni, ma dell’amore. Cercavano allora di prenderlo di nuovo. Gesù era veramente braccato, doveva giocare d’astuzia. Il suo primo nemico non era solo l’establishement, ma la gente di “parrocchia”, i cristiani della messa prima, i cattolici del conformismo, noi che ci siamo abituati a Dio come al colore delle pareti. E noi ci trova dovunque fuorché nel Getsemani, là dove ci si deve convertire, purificare, affrontare anche nella solitudine il fallimento e il necessario cambiamento di vita.

L’attesa dell’agnostico

Il biblista Gianfranco Ravasi ha aperto un blog all’interno 4314146861_f73d845f80_o.jpgde Il Sole 24 ore. Nell’ultimo post ha annunciato che oggi avrebbe pubblicato un articolo sul quotidiano che poi sarebbe apparso anche sul blog. Nell’attesa ha anticipato un pezzetto: “L’incontro tra credenti e non credenti avviene quando si lasciano alle spalle apologetiche feroci e dissacrazioni devastanti e si toglie via la coltre grigia della superficialità e dell’indifferenza, che seppellisce l’anelito profondo alla ricerca, e si rivelano, invece, le ragioni profonde della speranza del credente e dell’attesa dell’agnostico”. Resto in attesa pure io di leggere l’intero articolo, tuttavia ci sono delle parole che mi fanno sorgere una domanda: a cosa si riferisce quell’ “attesa dell’agnostico”?

Ars copiandi

Gianfranco Zavalloni su CEM Mondialità ha scritto un breve articolo che penso possa far discutere e riflettere. Si arriva a parlare del diritto-dovere di copiare a scuola… Ne ho parlato spesso in classe. Sottolineo anche qui che il copiatore deve mettere sempre in conto la possibilità di essere beccato, fa parte del gioco… E l’insegnante “più sgaio” è spesso quello che conosce i trucchi del mestiere per averli praticati…scuola_copiare_430_2.jpg

“Copiare è un verbo che nel mondo della scuola ha due significati che potremmo definire antitetici. Ri-copiare un brano sul proprio quaderno, ri-copiare l’esercizio… e poi eseguire un dettato: tutti esercizi di copiatura che hanno avuto fino ad ora un profondo significato «positivo». Ma c’è anche un aspetto che il qualche modo colloca il copiare come elemento negativo del mondo scolastico: «hai copiato!». Ora, io credo che siano poche le persone che, nel corso della propria carriera scolastica, non abbiano fatto l’esperienza di «copiare». E ci sono persone che, avendo raggiunto posizioni professionalmente invidiabili, hanno ammesso, magari anni dopo, di aver copiato tante volte da uno o più compagni di classe. Insomma, copiare fa parte dell’esperienza scolastica. Ma non solo. Pensiamo ai grandi artisti e alle loro scuole. Di molte grandi produzioni artistiche antiche tutt’ora si dice «è di scuola….» e poi si cita il maestro. Ma gli allievi, contemporanei o non, erano talmente bravi che sapevano copiare benissimo lo stile del maestro, da non saperne poi distinguere le mani. E comunque, anche fra i contemporanei, generalmente tutti gli artisti copiano. È la prima fase della loro esperienza artistica. Quella che generalmente precede la fase in cui un artista trova poi il suo stile e si caratterizza. Nonostante la mia esperienza di maestro coi bimbi e le bimbe si sia conclusa 15 anni fa, devo dire che ho imparato proprio da loro il senso della solidarietà. Ai bimbi e alle bimbe della scuola d’infanzia viene spontaneo solidarizzare con i compagni in difficoltà… e fanno copiare. «Fai come faccio io…»: una frase del tutto consueta per i bambini piccoli, quando ancora la competitività non fa parte del loro dna. E devo dire che in questa loro spontanea collaborazione ho capito che spesso sono gli stessi studenti i migliori maestri dei loro compagni. Si apprende più facilmente da un compagno, che ha già imparato la regola, che dal docente. Le due competenze prevalenti che dovrebbero caratterizzare uno studente in uscita dalla scuola superiore dovrebbero essere quella di saper argomentare, a voce, su un tema per almeno 10 minuti. La seconda, di non minore importanza, è quella di saper lavorare in team. Credo che in una società che da anni è ritornata ad esaltare le capacità e i meriti di ogni singolo individuo… affermare che una delle funzioni principali della scuola è “imparare a lavorare insieme” sia importantissimo. In proposito, mi viene da copiare l’inizio di un articolo che Claudio Magris ha pubblicato anni fa sul Corriere della Sera: «A scuola, come nella vita, ciascuno dovrebbe essere consapevole del proprio ruolo e fare bene la parte che gli spetta. Anzitutto copiare (in primo luogo far copiare) è un dovere, un’espressione di quella lealtà e di quella fraterna solidarietà con chi condivide il nostro destino (poco importa se per un’ora o per una vita) che costituiscono un fondamento dell’etica. Passare il bigliettino al compagno in difficoltà insegna ad essere amici di chi ci sta a fianco e ad aiutarlo pure a costo di rischi, forse anche quando, più tardi, tali rischi, in situazioni pericolose o addirittura drammatiche, potranno essere più gravi di una nota sul registro». Più chiaro di così!”

Le “mie” frecce

Ho trovato questa lettera di una maestra andata in pensione sul sito del CEM. Condivido molte delle cose che sono scritte, molte delle difficoltà descritte; ma voglio anche sottolineare la bellezza del lavoro in classe, le discussioni appassionanti, le facce stupite degli allievi, i contributi arricchenti di ciascuno di loro, il dispiacere nel vedere gli studenti che escono per quell’ora perché non saprò come la pensano, il vederli entrare in prima piccoli gavanelli e il vederli uscire in quinta come frecce scoccate verso il futuro. E’ vero il contesto è complesso, ma voglio pensare positivo 🙂

5645659643_1477bb2563_b.jpg«… E un ridere rauco e ricordi tanti e nemmeno un rimpianto…». Basta «sfogliare» Fabrizio de Andrè per trovare le parole per dirlo. Per 40 anni ho fatto la maestra. Un mestiere sottopagato, che ha sempre meno riconoscimento sociale ma che rimane il mestiere più bello del mondo. Ora è tempo di andare in pensione. Se ripercorro, come in un film, la storia di questi lunghi anni non mi vengono certo in mente le circolari, il POF, le griglie di valutazione, l’Invalsi, i registri (quelli li ho sempre compilati , e malvolentieri, appena prima della scadenza). Rivedo invece le facce – quelle sì le ricordo bene -, gli occhi, le voci, le storie dei tanti e tanti bambini – ora diventati più che adulti – con cui ho condiviso emozioni, scoperte, la fatica e la ricerca di un percorso per imparare e per diventare grandi. Una maestra i suoi scolari se li ricorda per la vita. E vedo le facce delle tante maestre, diventate care amiche, insieme a me impegnate nella difficile ed affascinante impresa di costruire una scuola «di tutti e di ciascuno», come diceva don Milani, una scuola di «scienza e di tenerezza»… Tanti, ma tanti, i ricordi. Avevo 19 anni quando ho cominciato, in Friuli, mia terra d’origine. Era il 1971: il posto di lavoro garantito era la normalità in quegli anni. Un altro secolo, un altro millennio. La scuola era quella dell’obbedienza, della maestra unica-tuttologa, chiusa nella sua classe, degli armadi chiusi a chiave che le supplenti non avevano il diritto di aprire, dei grembiulini neri d’ordinanza… Era la scuola selettiva, la scuola dei voti, dei ripetenti, quelli alti alti confinati negli ultimi banchi, quelli che neanche alle elementari ce la facevano a stare al passo. La mia era la generazione cresciuta con «la rivolta tra le dita», con la voglia e l’impegno di cambiare la scuola e di cambiare il mondo. Vivevamo, come ha scritto recentemente Goffredo Fofi su Repubblica, «una stagione irripetibile della pedagogia italiana, quando educazione voleva dire conquista della democrazia, crescita di uomini nuovi e responsabili nei confronti della comunità, della collettività, del creato».

Tanti i nostri Maestri ispiratori, quelli che davano idee e sostanza ai nostri progetti: don Milani, con la sua Lettera a una professoressa e l’attenzione agli ultimi, Mario Lodi, campione di didattica e di umanità, Guido Petter, partigiano resistente che ci aveva guidato con le sue Conversazioni psicologiche, Gianni Rodari e la sua Grammatica della fantasia quando «La fantasia al potere» era uno degli slogan che più ci rappresentava, Gianni Cordone – mitico e mai dimenticato direttore didattico – che a Vigevano, sul finire degli anni Settanta, aveva già realizzato tutte quelle innovazioni che poi sarebbero diventate legge. Leggevamo e discutevamo molto, con grande passione ed entusiasmo, senza guardare l’orologio e senza segnare le «ore eccedenti» da recuperare. C’era una scuola nuova da costruire insieme. Sono stati gli anni del diritto all’istruzione e alla cultura per tutti, degli handicappati che cominciavano ad essere inseriti nelle classi (senza insegnanti di sostegno, ma, in qualche modo, ce la cavavamo). Gli anni della furia iconoclasta (in seguito ce ne saremmo pentiti!) contro certi baluardi della vecchia scuola: le poesie da imparare a memoria, la grammatica … Gli anni delle aule e degli armadi che si aprivano. Gli anni del Tempo Pieno ( e poi del Modulo), delle maestre che si specializzavano in una materia e che lavoravano in team. Le cose da fare quotidianamente in classe si decidevano insieme. La programmazione era il risultato di studi approfonditi su contenuti e metodi, di confronti, di discussioni anche molto accese. Una grande rivoluzione, sancita dalla legge dopo anni di sperimentazione, che ha cambiato in modo irreversibile il nostro modo di essere e di fare scuola, che ha lasciato in noi tutte un imprinting speciale. Erano tempi in cui la cultura e la scuola contavano, erano importanti. Tempi in cui i genitori ci davano fiducia, credevano nel cambiamento e partecipavano a quella ventata di democrazia che sono stati gli Organi Collegiali.

Sono passati gli anni, i decenni. Tanto è cambiato nella società e, di riflesso, inesorabilmente, anche nella scuola. Scuola e cultura non godono più del prestigio di un tempo, non sono più ai primi posti della scala dei valori della società, degli studenti e delle famiglie. Il grande movimento di idee, di conoscenze, di valori – non sostenuto da politiche adeguate – si è appannato. Ha perso in entusiasmo ed in passione, in lucidità e progettualità. Da troppi anni manca un pensiero collettivo sulla scuola. Mancano idee, valori etici di riferimento, riforme condivise. Mancano Maestri ispiratori. Manca una riflessione generale su temi fondanti del nostro «essere» e «fare» scuola: su «sapere e saper fare», su competenze e contenuti , su abilità e conoscenze , su «imparare» ed «imparare ad imparare», su merito-selezione-integrazione, su rigore e qualità degli apprendimenti da coniugare con la scuola di massa. Da anni la scuola ha mutuato un linguaggio aziendale. Bambini e famiglie sono diventati «clienti». I direttori didattici sono stati trasformati – loro malgrado – in Dirigenti, con la didattica «evaporata» dal loro ruolo. E poi il tentativo di tornare alla maestra unica di morattiana memoria, il tutor, il Pecup, le Unità di Apprendimento , il monoennio, il Portfolio (ne ho conservati alcuni esemplari: leggere per credere…) Quando, anni fa, ho sentito in un Collegio Docenti di Pavia (non il mio) parlare di customer satisfaction («soddisfazione del cliente») ho misurato la deriva verso cui stava precipitando la scuola.

Per arrivare all’oggi, al Ministro dell’Istruzione che «riforma» la scuola a suon di tagli, senza nemmeno ascoltare le tante voci di critica e di dissenso che si sono levate da insegnanti, sindacati, genitori. Una scuola appiattita sul presente – mi piange il cuore doverlo dire -. Una scuola che non vola alto, che non ha progettualità sul futuro. L’oggi è fatto di una generazione di insegnanti precari, classi sempre più numerose e più complesse da gestire, bambini che fanno sempre più fatica a rispettare regole, accettare insuccessi, assumersi responsabilità. E ancora: le compresenze finite, l’inglese imparato d’ufficio dalle maestre con 50 ore di corso, gli Organi Collegiali diventati ritualità da rispettare per legge, la fiducia incrinata dei genitori, il ritorno ai voti, l’enfasi assoluta data ai test, quasi che a scuola verificare sia più importante che insegnare ed educare… Anche il «clima umano» è cambiato: più stress, più stanchezza, più malessere, meno felicità in circolazione oggi nelle  scuole.

Poi entri a scuola al mattino. Ritrovi tante facce amiche. I bambini ti aspettano, ti raccontano le loro storie, ti si affidano. Riesci ancora a farli appassionare. « … E un ridere rauco e ricordi tanti e nemmeno un rimpianto». Buona scuola a chi rimane

Ci sono mele e… mele…

Una simpatica idea di Gioba

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Amore gratis

Prendo dal sito di un collega il racconto di una sua lezione.

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“Ho iniziato l’anno con un giochino. Sui valori. Una storia semplice e carina, in cui cinque personaggi, in relazioni di vario tipo tra loro, per salvare ognuno un valore a cui tengono ne infrangono un altro. L’ho letta in modo ironico e un po’ demenziale, perché fosse chiaro che si trattava di un gioco. Ovviamente una storia a sfondo sentimentale. La classe è al femminile, con alcune belle teste. Una quarta, depurata l’anno scorso, purtroppo, da alcune altre belle persone, ma che non hanno avuto voglia di farsi promuovere. Alla fine della lettura ho chiesto loro di mettere in classifica, sul piano morale, i cinque personaggi dal più corretto al meno corretto. Ognuno per conto proprio, e di scrivere a fianco di ogni personaggio la motivazione di quel giudizio dato. Poi ne abbiamo discusso. A mo’ di forum. La questione si è animata su un personaggio soprattutto, che per vivere il valore della fedeltà infrange quello dell’amore. E su questo Irina – chiaramente italiana doc – ha fatto una considerazione. “Ma prof., ogni persona ha una sua classifica, ovvio, ma soprattutto non si può pensare di vivere una cosa senza anche rinunciare ad un altra”. “Vuoi dire – faccio io – che se decidi di vivere come cosa più importante della tua vita un valore, altre cose, pure importanti dovranno essere messe da parte per forza”. “Si prof. Se essere fedeli al proprio uomo è la cosa più importante, può davvero essere giusto che la storia finisca perché si ha tradito.”

“Beh io credo che alla fine, se vuoi essere felice sul serio, devi trovare un modo per non rinunciare a nulla”. Dal suo torpore finto, Nicolò, uno dei due maschietti presenti in classe, si sveglia. E prosegue. “Io non credo che sia automatico dover rinunciare a qualcosa se vuoi dedicarti a ciò che ami più di tutto. Forse si può trovare un modo per organizzarti e non dover per forza scegliere. Io ora non rinuncerei alla mia ragazza, e se lei mi tradisse credo che la potrei anche perdonare”. Irina ribatte: “Beh Nicolò, si vede che tu ci tieni di più all’amore che non alla fedeltà”. “No, io ci credo alla fedeltà, non è che non ci credo, ma perdere la mia ragazza sarebbe la cosa peggiore, perciò potrei anche perdonarla”. “Eh! appunto Nicolò – gli dico – questo vuol dire che per te l’amore di lei vale più della fedeltà a te, e che per quello sei disposto a sacrificare questa”. “Allora ragazzi vedete, qui si pone la questione di quale sia il Signore della vostra vita, quale cosa, principio, persona, o che altro volete voi, sia l’unica cosa a cui dedicarsi se foste costretti ad avere un solo amore. Che cosa davvero salvereste?”. “Ma no prof. non si può mettere giù così!”. Maddalena diventa rossa mentre lo dice, la sua timidezza si fa vedere, ma quando si toccano corde vive reagisce d’impeto. “Non credo davvero che ci sia bisogno di scegliere, almeno io non voglio scegliere, e voglio cercare di vivermi tutto quello che mi capita, senza rinunciare a nulla”. “Si Maddy, capisco cosa dici – ribatte Irina – ma la vita non è così. Ad un certo punto devi scegliere. Io ho lasciato mio padre in Ucraina e non lo vedo da 7 anni, ma che dovevo fare? Lì non si poteva davvero vivere tutti e tre in casa, non c’erano soldi. Mi dispiace davvero molto, ci ho pianto e ci sto male sapendo che poi lui si è fatto un altra vita là, con una altra donna. Ma per me la vita qui è possibile, là no”. “Irina quindi cosa ha salvato secondo voi?”, dico alla classe. “ha salvato sé stessa”. Monica, che fino ad allora ha seguito tutto senza perdere un colpo va giù sicura. “Mah si e no”, ribatte Irina. “Ho salvato la mia vita, certo, ma vorrei che nella mia vita ci fosse qualcuno o qualcosa per cui vale davvero la pena di spenderla”. “Ma come? – faccio l’avvocato del diavolo – dopo la fatica che hai fatto per darti una possibilità di vivere, vorresti che questa vita fosse spesa per qualcun’altro?”. “Si prof. se no davvero sarebbe assurdo. Mia madre mi dice che la sua vita è bella perché ci sono io, e perché lei ha speso sé stessa per fare vivere me. Prof., questo è bellissimo. Io lo so che le è costato moltissimo, l’ho vista piangere e non dormire e faticare come una pazza, ma è felice di averlo fatto. E adesso la capisco”.

La classe s’è quasi ammutolita. Un’aria strana ci ha preso, come se le parole di Irina fossero arrivate dritte dentro i suoi compagni. E tra loro alcuni hanno sentito chiaro che anche per loro è così, mentre sul viso di altri, tra cui Monica e Nicolò, è apparsa una invidia non raccontabile, perché invece, a loro, questa esperienza di sentirsi così amati è mancata. E allora capisco quando si dice che essere egoisti vuol dire amarsi di meno, perché ci è mancato un amore gratuito. “Credo davvero di dover ringraziare Irina per quello che ci ha detto. Quando cerco di dirvi che Gesù ci ha amati fino alla morte, dico la stessa cosa, ma detto così fate fatica a sentirlo. Mentre Irina ce lo fa sentire dentro”.

Un servizio su Yom Kippur

Ti piace vincere facile?

Dal Gruppo Abele prendo questo interessante articolo di Toni Castellano.

Si adattano alle più recenti tecnologie, rispondono ai gusti di un pubblico sempre più vasto, sono accessibili nei modi più semplici. E fatturano un sacco di soldi. Sono i giochi d’azzardo, al centro di un’industria che nel 2010 ha incassato globalmente, solo nel nostro Paese, 61 miliardi di euro: per bilancio la quinta in Italia dopo Fiat, Telecom, Enel, Ifim. E per il 2011 ha previsto un aumento delle entrate di un terzo rispetto all’anno precedente. In prima fila, con pronostici sportivi e fiches alla mano, troviamo pensionati e minorenni. Sono questi ultimi in particolare ad effettuare il 32% di tutte le giocate complessive, dopo che nell’ultimo anno il loro coinvolgimento nel gioco è aumentato del 7,7% (fonte Associazione Contribuenti Italiani). A crescere però non sono solo le entrate e il divertimento: anche fenomeni come la dipendenza e l’indebitamento aumentano di pari passo. “Fate il nostro gioco” è il nome di un’associazione che si occupa di prevenzione rispetto al gioco d’azzardo nelle scuole piemontesi. È nata dall’idea di due giovani matematici, Diego Rizzuto e Paolo Canova, che propongono agli studenti laboratori matematici per comprendere i meccanismi del gioco, fino alla sorpresa finale: secondo la legge dei numeri non si vince mai… Abbiamo fatto qualche domanda a Diego Rizzuto.

Come si spiega questa crescita del settore dell’azzardo? All’improvviso giocare è diventato redditizio e sicuro?

Certo che no. Le spiegazioni credo siano altre, due in particolare. Da una parte c’è la situazione di crisi economica, che alimenta nella gente sogni di riscatto. Dall’altra l’investimento dello Stato nel settore: l’offerta di gioco legalizzato cresce costantemente. Un esempio: il terremoto in Abruzzo del 6 aprile 2009 fu il pretesto per ampliare quantità e qualità del gioco. Con l’obiettivo di procurare fondi straordinari per la ricostruzione dell’Aquila, si ottenne l’immissione sul mercato di nuove strumentazioni (le vlt-video lotterie), modifiche a giochi già esistenti (come il “10 e lotto”), e nuovi giochi a totalizzatore (“Win for life”). Nell’ultima manovra finanziaria, con l’unica giustificazione del “fare cassa”, si è deciso un’altra volta di introdurre nuovi giochi o varianti a quelli già conosciuti.

Le statistiche dicono che circa un terzo delle giocate viene effettuato da minorenni. Di fronte a questi dati, quanto è urgente educare giovani e giovanissimi sui rischi del gioco, e quando vi siete accorti di questa necessità?

È urgentissimo. Alcuni giochi sembrano pensati per rispondere esattamente alle passioni giovanili. Poker “tournament”, poker “cash” e scommesse sportive hanno avuto presa immediata e ampissima tra i giovani. Il nostro progetto è nato in realtà con l’intento della divulgazione matematica: l’intenzione era quella di parlare della statistica legata al gioco, statistica che è materia un po’ trascurata nei programmi delle scuole superiori. Sviluppando il progetto ci siamo resi conto che più che la divulgazione scientifica era necessaria una sensibilizzazione sociale. Al termine di un laboratorio in una scuola, un ragazzino ci ha confessato che in famiglia avevano un problema: il padre giocava troppo e lui e la madre non sapevano cosa fare perché non trovavano un canale comunicativo con le strutture che si occupano del problema. Altro episodio è quello della mamma che scopre che il figlio minorenne dispone di una carta di credito – che non potrebbe neppure avere – per giocare al poker on line. La mamma chiama la professoressa di matematica, che a sua volta si rivolge a noi: alla fine ci sono voluti due matematici per mettere in comunicazione una madre preoccupata con i servizi sanitari… Il problema è che molta gente confonde ancora il gioco con un vizio. Raramente l’abuso viene inteso come malattia, e d’altronde si tratta di un’attività approvata e sponsorizzata istituzionalmente.

Come spiegate matematicamente a un pubblico studentesco che la vincita nei giochi “non esiste”?

Usiamo la legge dei grandi numeri. Spieghiamo che si vince e si perde in ogni gioco: le due fasi si alternano. Ma sulla lunga distanza il bilancio è matematicamente negativo. Con i ragazzi calcoliamo tramite delle simulazioni quanto il bilancio per ciascun gioco generi di passivo. Il secondo aspetto su cui facciamo riflettere i ragazzi è quello della pubblicità ingannevole. L’esempio è quello di “Win for life”: lo spot dice che si vince con la maggior parte delle combinazioni, 8 su 11, ed è vero. Ciò che omette è che le altre tre hanno una probabilità altissima di verificarsi. Alla lunga si perde in qualsiasi gioco, e in particolare di fronte a questo tipo di comunicazione ambigua, è importante capire bene il meccanismo matematico prima di scegliere di giocare. Perché attenzione: noi non diciamo che non si debba giocare in assoluto. Sosteniamo però si debba fare, nel caso, solo per divertirsi e non sperando davvero di vincere.

Per quella che è la tua esperienza, i giovani sono più ricettivi verso questo tipo di spiegazione “scientifica” rispetto a discorsi di natura psicologica, sociale ecc.?

I giovani e soprattutto gli adolescenti, come dicono alcuni psicologi, sono nell’età “dell’immortalità” e non hanno interesse verso le ricadute sociali delle attività che praticano. L’unico modo per fare presa su di loro è quello di trovare un’esca. Noi ci riusciamo perché, presentandoci come matematici ed esperti di giochi, ci scambiano per qualcuno che possa spiegare come vincere. Tra i ragazzi è diventata leggenda la storia dei matematici che, giocando a black jack in alcuni casinò di Las Vegas, erano riusciti, contando le carte e calcolando le probabilità, a vincere molti soldi. Altro fattore di successo del nostro metodo è la scelta di parlare soprattutto di matematica e solo velatamente del problema “sociale”. Infine il tipo stesso di comunicazione che scegliamo, le sue forme, hanno un impatto specifico su un pubblico giovane. Grafica, titolo e stile della comunicazione sono fondamentali. Insomma: matematica, ricadute sociali affrontate “a margine”, comunicazione accattivante: ecco gli ingredienti della ricetta.

Quali sono i giochi che “fregano” di più? E quali possono essere, oltre alla prevenzione nelle scuole, misure utili a regolamentare l’azzardo e i suoi effetti collaterali (dipendenza, usura, riciclaggio)?

In Italia sono le slot machine i giochi che succhiano più denaro, e mietono più vittime. Tra i giovani la classifica vede in testa il poker on line (“tournament” o “cash”) ma anche quello “artigianale”, praticato a casa. Subito dopo vengono le scommesse sportive e infine i gratta e vinci che non costano troppo, ma che – bisogna ricordarlo – ai minorenni non si potrebbero nemmeno vendere.

Cosa si potrebbe fare? In questa fase la risposta è la più semplice, ma insieme la più disarmante. Si può fare qualsiasi cosa, qualsiasi iniziativa sarebbe più utile del “nulla” cui assistiamo oggi: l’informazione sui rischi praticamente non esiste, le sanzioni verso i gestori degli esercizi che non controllano l’età dei giocatori sono ancora bassissime. Cominciano a sentirsi le prime proposte, come quella di Settimo Torinese di non mettere siti di gioco o slot vicino a luoghi come scuole, ospedali, case di cura, in cui ci sono giovani o persone che vivono momenti difficili della propria esistenza. Purtroppo a oggi sono ancora iniziative isolate.

Pezzetto di cielo

Si deve essere capaci di vivere
anche senza niente.
Esisterà pur sempre un pezzetto
di cielo da poter guardare.

Etty Hillesum

Chissà…

Prendo da Linkiesta questo articolo di Marta Casadei

Dodici ore di fila in piedi, pagamenti in ritardo, perfino enormi danni alla salute. … nei giorni scorsi in Cina è scoppiato un nuovo caso che coinvolge un grande nome della moda internazionale: Gucci. Secondo quanto riportato dai giornali cinesi come il National Business Daily – e dal China Daily Usa, l’unico che io riesca a leggere direttamente essendo in inglese – cinque dipendenti di un negozio Gucci (PPR Group) a Shenzen hanno accusato l’azienda di averli pagati in ritardo ma soprattutto di aver imposto loro condizioni di lavoro disumane. L’impossibilità di mangiare o bere durante tutte le ore di lavoro  – fino alle 22, orario di chiusura dei negozi, e oltre, per avvantaggiarsi per il giorno dopo – avrebbe addirittura causato un aborto spontaneo a una delle dipendenti. Per quanto riguarda i pagamenti in ritardo, Gucci era già stato coinvolto in una disputa con un ex operation manager dell’azienda in Cina che, non essendo stato pagato, ha fatto ricorso al Chaoyang Arbitration Committee for Labor Disputes di Pechino. Gucci, dal canto suo, nega ogni possibile comportamento scorretto nei confronti dei dipendenti affermando che il loro benessere è in cima alla lista delle priorità del marchio, che in Cina ha trovato un mercato fiorente come molte griffes del lusso italiano (sempre il China Daily Usa riporta una redditività del +36.5% nella prima metà di quest’anno). Stabilire chi ha ragione è praticamente impossibile ad oggi, considerando anche le scarse informazioni giunte fin qui. Se fosse falso questa non sarebbe che una pessima pubblicità per il marchio dalla doppia G impegnato anche sul fronte Africa ad aiutare donne e bambini disagiati. Se fosse vero sarebbe una deriva inqualificabile, soprattutto per chi predica la qualità dei prodotti e delle logiche occidentali.

Giornata mondiale contro la pdm

Nella giornata mondiale contro la pena di morte ecco Gallows Pole nella versione dei Led Zeepelin

 

Boia, boia, aspetta un attimo, credo di veder arrivare i miei amici,
che hanno percorso molte miglia. Amici, avete preso dell'argento?
Avete preso un po' d'oro? Cosa mi avete portato, miei cari amici, per evitarmi la forca? Cosa mi avete portato per evitarmi la forca? 
Non ho potuto prendere argento, non ho potuto prendere oro,
sai che siamo troppo dannatamente poveri per evitarti la forca. 
Boia, boia, aspetta un attimo, credo di veder arrivare mio fratello,
che ha percorso molte miglia. Fratello, mi hai portato dell'argento?
Hai portato un po' d'oro? Cosa mi hai portato, fratello mio, per evitarmi la forca? 
 
Fratello, ti ho portato dell'argento, ho portato un po' d'oro,
Ho portato un po' di tutto per evitarti la forca.
Sì, ti ho portato tutto questo per evitarti la forca.
Boia, boia, girati un attimo, credo di veder arrivare mia sorella,
che ha percorso molte miglia. Sorella, ti imploro, prendilo per mano,
Portalo all'ombra degli alberi, salvami dall'ira di quest'uomo,
ti prego, portalo via, salvami dall'ira di quest'uomo. 
Boia, boia, sulla tua faccia un sorriso, di grazia dimmi che sono libero di andare,
andare per molte miglia. 
Oh, sì, hai una bella sorella, lei ha riscaldato il mio sangue freddo,
mi ha fatto bollire il sangue per evitarti la forca.
Tuo fratello mi ha portato l'argento, tua sorella ha riscaldato la mia anima,
ma ora rido e tiro energicamente e ti vedo dondolare sulla forca. 
 
Continua a dondolare! Dondolare sulla forca!